UN'ANALISI PIENAMENTE CONDIVISIBILE
Tutta la battaglia contro il nozionismo, la religione in classe, il sette in condotta?
E le parallele guerre a favore del sei politico, del diciotto politico, della promozione a oltranza, dello stravolgimento dei programmi in luogo dell’ecumenismo hippie che ha trasformato severe classi in accampamenti alla Woodstock?
C’è un nesso fra il liberismo angloamericano che seleziona le classi digerenti nelle più costose università e l’assalto definitivo dell’attuale, cenciosa, Tisifone dai capelli rossi alla scuola, l’unica vera ridotta delle nostre essiccate speranze?
Che il 1968, inteso come fenomeno, sia una distorsione del socialismo è indubbio. Alla lunga possiamo dire che ne fu la tomba. Il PCI, già nei primi anni Ottanta, era, di fatto, un partitucolo socialdemocratico, con le sue clientele fidelizzate, e la bandiera inastata della sconfitta, implicita quanto straziante: i suoi capi già sapevano, in attesa di firmare i trattati della resa più umiliante.
La vecchia guardia, temprata dalla guerra, fu esautorata in un decennio. I D’Alema, i Boeri e i Veltroni nacquero allora, fra cappuccini e molotov, uomini senza storia, superficiali, gaudenti, ambiziosissimi, assolutamente privi di quello sguardo e di quella gravità che dovrebbero contraddistinguere un politico.
I D’Alema, le Fedeli, ma anche i Gasparri e gli Storace, o i democristiani alla Casini, ereditarono una nazione ancora viva nei suoi gangli culturali fondamentali. Se ne sono fregati, però. Agiati, rassicurati dai nuovi padroni, al riparo dalle apocalissi, epicurei da balera o da night club. Hanno giocato a fare politica come al Monopoli lasciando scannare qualche fantaccino della riserva.
Sono intrisi di una mediocrità accecante.
Basti ascoltare i loro accenni alla cultura alta: passaggi di maniera, propri di chi ha leggiucchiato un Bignami o un Baedeker e ne ripete i passi salienti davanti a una commissione assonnata e corrotta che ha già deciso per il diciotto politico.
Questi automi non sentono, non comprendono; non li muove la passione (e quando mai?); monumenti, stili, scorci paesaggistici, vallette, dorsi irsuti di colline; affreschi, mirabilie architettoniche, boschetti, torri meridiane, capolavori d’ingegneria; meraviglie artigianali minute, quali si rinvengono in ogni parte d’Italia, epigrafi, profferli, merlature, passetti, targhe, incisioni rupestri: apparizioni diversissime fra loro, eppure fraterne, e capaci di parlare a chiunque; mutevoli in forme e stile, queste epifanie mostrano la medesima radice, come gli aromi di Eraclito originati da un unico fuoco creatore che brucia i più disparati profumi.
Per loro sono pattume.
A tali morti in vita nulla dicono le testimonianze della fede, i mozziconi imperiali, le meravigliose insorgenze medioevali o gli scialbati archetti di stupendi casali persi nelle campagne padane o laziali; non gli parla al cuore l’euritmia, l’amore per i particolari, la bellezza che si fa beffe dell’utile, la stratificazione secolare delle intelligenze che è detta artigianato o mestiere.
In vita mia non li ho mai sentiti citare con commossa reverenza o devozione (e nemmeno con pedanteria accademica) un passo della nostra storia trimillenaria. Non si emozionano di fronte a nulla, non sentono nulla; il loro cinismo menefreghista è rivoltante; e i raccomandati che manovrano, una pletora di straccioni loro simili, con la cartellina debitamente gonfia d’attestazioni d’una burocratica competenza che serve il demone dell’indifferenza, sono altrettanto distaccati, come un chirurgo sociopatico lo è da un paziente che reputa quale ammasso di carne mutuabile.
La Megera oggi alla Pubblica Distruzione è una preclare rappresentante di tale generone ignorantissimo, in tal caso declinato a sinistra.
La sciatteria, le fanfaluche ripetute sin al parossismo, la chiacchiera insistita, l’assenza di pulizia logica, l’imparaticcio in sindacalese hanno lasciato segni indelebili sul suo viso.
Ogni ruga ne racconta la psicologia antiitaliana e pervertita.
Una lunga frequentazione con tali esemplari mi ha reso – crepi la modestia – un sofisticatissimo Lombroso. Aprono bocca, ma so già cosa diranno; inarcano un sopracciglio e leggo intere vite; increspano le labbra e già so dove vanno a parare. Col tempo l’osservazione empirica è sublimata: son divenuto il Linneo di questi clochard culturali; ho elaborato classi e sottoclassi sinistre; in base al censo natale, ai luoghi di nascita, ai riboboli, alle frasi fatte. Se potessi (idealmente) resecare le capocce di Landini, Finocchiaro, Civati, Vendola, Fiano, Berlinguer (uno dei tanti), Pisapia, le metterei in capaci recipienti ialini, a galleggiare inespressive nella formaldeide, ordinate sulla scaffalatura della memoria e del disprezzo, come un sistematico Jeffrey Dahmer del comunismo risentito.
Ma torniamo alla Megera.
Di lei si può dire: è ciò che è.
La tenacia, in lei, ha soppiantato l’intelligenza; il tritume degli slogan la passione; il frontismo da operetta l’amor di patria; l’alterigia della correttezza postmoderna la realtà del tradimento.
Sin dalla più tenera adolescenza Ella ha sobillato, ciarlato, manifestato, cicalato; in interminabili e fumose riunioni sindacali; in inconcludenti e riottosi happening femministi; sgolandosi di fronte a palchi in cui nessuno la stava a sentire; ingombrando Feste dell’Unità e festival transnazionali; strabuzzando le pesanti occhiaie di fronte al maschilismo, di volta in volta cattolicoreazionario, democristiano, berlusconiano, populista; trascolorando, con tetragona indifferenza, dai fasti del socialismo sovietico alla nuance rosa del socialismo negazionista post ’89 sin alla sguaiata resa (in uno squassante orgasmo da cupio dissolvi) all’ecumenismo più laido; dalle zeppe con gonna a fiori ai tailleur, dal dito medio al dito indice ammonitore; indaffarata, focosa, ubiqua, rauca, tanto più insulsa quanto più inflessibile, Ella recava la propria inesistente competenza (leggi: la ciancia professionale) verso le più remote regioni del sinistrismo italico; acquattatasi nel godimento dei privilegi quesiti duranti gli anni dello sfascio del PCI, L’Arpia risorse ai nostri tempi attratta dal sentore di carogna di ciò che, in fondo, ha sempre odiato: l’Italia.
Il momento magico. Ora si può tutto: finalmente l’equilibrio, la compostezza, la reverenza, la paziente elaborazione, Natalino Sapegno possono smobilitare: l’immaginazione al potere, dunque!
Con quel misto di fanatismo incrollabile e calcolo peloso (il sinistro come dividuum l’ho descritto in Allegri, ragazzi, tutto il mondo ci deride), la Bassaride cadde definitivamente dalla cavalcatura a pelo del socialismo per ritrovarsi sulla scopa stregonesca del PolCor ultracapitalista. La verità novella feriva ora le nubi dell’incomprensione, trapassandole: il tepore luminoso della rivelazione si spandeva come balsamo sugli occhi stanchi: “Prima ero cieca, ora vedo” avrà detto la sua parte ideologica (l’altra, quella opportunista, era occupata a classificare nei faldoni dell’edacia statalista elenchi di contributi e vitalizî). Finalmente, inaspettatamente, c’era l’occasione per regolare i conti; e farli tornare alla grande. Il catalogo era ricco: immaginazione al potere, abbasso il nozionismo (le poesie a memoria! Le formule trigonometriche a memoria!), il gender, Don Milani, la colonna della tradizione da abbattere, il fastidio dello studio, i diritti come pretesa, l’immeritocrazia, le goliardate, Kunta Kinte, lavorare meno lavorate voi … i pezzi s’incastravano … tutto tornava … la pappa era pronta: come non averci pensato prima! Da Mario Capanna al liberismo c’è un passo di formica, allora! Ecco perché noi sessantottini odiavamo i vecchi comunisti! Perché erano ancora italiani! Pesanti, terragni, mezzo democristiani! Ma ora basta, c’è da distruggere l’ordine, la gerarchia, lo studio assiduo per fondare una parodia di comunismo straccione, un ritrovo hippie di cretini stracciaculo, tutti promossi a prescindere, nigeriani e milanesi, bengalesi e palermitani, genî e somari, fratelle e sorelli, eliminare gli impacci dell’umanesimo (ovvero la storia d’Italia: filosofia, storia, arte), livellare in basso, livellare tutto, dai caproni ai meritevoli, in una sorta di 1984 dove il QI e il valore sono dati trascurabili e ciascuno ha il diritto di sbagliare la consecutio temporum e di accedere al terziario oggi più onnicomprensivo: pulire i cessi.
E ancora abbassare, spianare, indifferenziare, trogloditizzare, annientare tutto ciò che è passato, e quindi profondo, e perciò terribile e incomprensibile, rendere nuovo, arrendersi al nuovo, sveltire, a ogni costo, forgiare omuncoli in serie, ignoranti come zucche, ma specializzati, specializzatissimi (in cosa? Nel pulire i cessi, ovvio). Una spolverata di coseni (giusto un bit), un addolcito ragguaglio sull’Impero Romano (quello delle migrazioni barbariche: Gaio Mario ai Campi Raudii aspettava, infatti, i Cimbri col foglio dello ius soli), tanto PC, tanti diritti civili (la croce non va bene, e nemmeno le salsicce alla mensa) e tanta Anna Frank, bene la pop art, via Manzoni, Ariosto, Giorgione e partiamo con l’insegnamento veloce: rapide, rapidissime lezioni via smartphone, come le pennellate di uno schizofrenico, quiz con caselle da barrare, testi costosissimi e inutili, ricchi di link a cui collegarsi per scaricare la lezione del giorno, dettata da un robot in remoto, e poi, dopo venti o trenta minuti di dura applicazione, superate le forche caudine dell’analisi logica, digitalizzata e col sei politico incorporato, vai coi cartoccetti in classe. Fra Gentile e Gianburrasca la Terribile Erinni ha già deciso: le risorse (provenienti dai negrumeti cooperativi) aggiungeranno quel tocco di anarchia e colore che i nostri straccioni hanno sempre agognato, sin dai recessi del ’68, quando, scalcagnati, strafottenti e ottusi, preparavano, sotto inconsapevole dettatura, la propria carriera e la dissoluzione dell’Italia.
Alceste
Fonte:
http://alcesteilblog.blogspot.it
Link: http://alcesteilblog.blogspot.it/2017/09/la-stracciona-del-68-e-labolizione.html#more
https://comedonchisciotte.org/42114-2/
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