domenica 30 aprile 2017

LA NOTTE DEL 30 DI APRILE A BERLINO

 
 
 Una croce di ferro sul petto, il mitra stretto, due rune d'argento sopra l'elmetto, ma era l'Europa che moriva con te!

Z.P.M. - Jean

Il venticinque aprile, all'alba, cominciava a Berlino dell'Europa l'ultimo respiro
Un migliaio di giovani attorno ad un bunker da tutta Europa venuti a morire con te
Con te, Jean, venuto dalla Francia con i tuoi vent'anni e la speranza
Di poter forgiare l'Europa della libertà con la certezza di morire per la civiltà!

Un anello di fuoco ti stringeva d'assedio, un anello d'oro stretto al tuo dito
Pegno di un amore che già tu sai; amore, amore che non rivedrai mai
Una croce di ferro sul petto, il mitra stretto, due rune d'argento sopra l'elmetto,
Ma era l'Europa che moriva con te!

E mentre solo, tra l'odore del sangue, guardavi rossa in faccia la morte
La tua voce tranquilla parlava così: «Camerata, tu non sai com'è bella l'estate là in Francia,
Mentre scivola lenta la Senna, passeggiare lungo gli Champs-Élysées tra i colori e il profumo dei fiori
Il sorriso di lei ti accompagna, incorniciato tra quelle labbra dipinte di arancia
Camerata, tu non sai come è bella l'estate là in Francia!»

Una croce di ferro sul petto, il mitra stretto, due rune d'argento sopra l'elmetto,
Ma era l'Europa che moriva con te
Sei morto a vent'anni tu, Jean, la notte del trenta di aprile a Berlino
Con l'aquila e i gigli della Charlemagne, ma era l'Europa che moriva con te!

ALLA FACCIA DEI DISOCCUPATI !

 
 Stipendi manager: al top Sergio Marchionne (13 mln), poi Ghizzoni (12 mln) e Malacarne (8,5 mln)
 
. . . MA IL CONCERTONE DEI SINDACATI C'E' !
 
 
Stipendi manager: al top Sergio Marchionne (13 mln), poi Ghizzoni (12 mln) e Malacarne (8,5 mln).
 
 
 
 
 
Con più di 13 milioni di euro, Sergio Marchionne è il top manager italiano più pagato. la classifica – una graduatoria desunta dall’obbligo delle società quotate a pubblicare le remunerazioni prima dell’assemblea dei soci – vede appunto l’ad di Fiat-Chrysler in testa, seguito da Federico Ghizzoni, ex ad di Unicredit con 12,2 milioni di euro, comprensivi della ricca buonuscita da 9,5 milioni di euro. Sul podio quest’anno Carlo Malacarne, fino all’anno scorso presidente e amministratore delegato di Snam con un totale di 8,5 milioni.
Si capisce che sul valore complessivo della remunerazione conta lo stipendio ma hanno un grosso peso buonuscite, premi, azioni ecc… Di seguito la classifica completa con gli importi in euro.
Sergio Marchionne, Exxor (Fca, Cnh, Ferrari), 13,132 mln
Federico Ghizzoni, Unicredit, 12,260 mln
Carlo Malacarne, Snam, 8,553 mln
Adil Mehboob-Khan, Luxottica, 7,200 mln
Amedeo Felisa, Ferrari, 6,750 mln
Alberto Minali, Generali, 6,700 mln
Marco Patuano, Telecom Italia, 6,562 mln
John Elkann, Exxor (Fca, Cnh, Ferrari), 6,108 mln
Flavio Cattaneo, Telecom Italia, 5,256 mln
Carlo Messina, Intesa Sanpaolo, 3,682 mln

GIUSEPPINA GHERSI. NELLE SCUOLE NE PARLATE ?

 
Da decenni i "signori" dell'anpi e compagnia cantante
vanno nelle scuole
a decantare le "radiose giornate", invitando intere scolaresche
alla celebrazione della sconfitta del 25 aprile.
Di certo non raccontano ai ragazzini l'atroce e infame storia di
 
 GIUSEPPINA GHERSI
 

VIOLENTATA E UCCISA
 IL 30 APRILE 1945
PER UN TEMA CHE AVEVA RICEVUTO 
IL PLAUSO DI MUSSOLINI. 
 

Giuseppina Ghersi. Per molti, fino a qualche anno fa, questo cognome risultava sconosciuto e privo di qualsiasi collegamento ad eccezione di una copia di denuncia presentata alla Questura di Savona nel 1949. Giuseppina, una bambina di appena 13 anni, fu pestata, stuprata e giustiziata dai partigiani comunisti con l’accusa di essere al servizio del regime fascista. La famiglia Ghersi, che viveva a Savona e gestiva un negozio di ortofrutticola, non era neppure iscritta al Partito Fascista. Studentessa delle magistrali alla “Rossello” fu premiata direttamente da Mussolini per aver svolto con merito un concorso a tema. Questa la sua condanna. La mattina del 25 aprile 1945, Giuseppina fu sequestrata in viale Dante Alighieri, da tre partigiani comunisti, e portata nei locali della Scuola Media “GuidoBono” a Legino, adibito a Campo di Concentramento per i fascisti. Le tagliarono i capelli e le cosparsero la testa di vernice rossa. Fu pestata a sangue e seviziata per giorni, tutto questo sotto lo sguardo impietrito dei genitori, anche loro deportati e imprigionati. Il 30 aprile, Giuseppina, fu giustiziata con un colpo di pistola alla nuca e il suo corpo gettato, insieme ad altri, davanti al cimitero di Zinola
 
 
Giuseppina Ghersi (1931 – 30 aprile 1945) era una studentessa di 13 anni dell'istituto magistrale "Maria Giuseppa Rossello" del quartiere “La Villetta” di Savona. Una bambina accorta e diligente, figlia di commercianti ortofrutticoli abitava in via Tallone, attualmente via Donizetti. Dall’esposto del padre, Giovanni Ghersi, presentato al Procuratore della Repubblica di Savona in data 29 aprile 1949, di cui è possibile chiedere copia all’Archivio di Stato di Savona, e che consta di sei cartelle minuziosamente vergate a mano, leggiamo che: “Il 25 aprile ‘45, alle 5 pomeridiane” i partigiani, appena entrati a Savona, chiedono ai Ghersi del “materiale di medicazione” che la famiglia non esita a “fornire volentieri”. Il giorno successivo, come di consueto, i coniugi si dirigono verso il loro banco di frutta e verdura, ma in zona San Michele, poco dopo le 6.00 del mattino, sono fermati da due partigiani armati di mitra. Vengono portati al Campo di Concentramento di Legino , situato nella zona dell’odierno complesso delle Scuole Medie Guidobono, dove un terzo partigiano sequestra loro le chiavi dell’appartamento e del magazzino. Dopo circa mezz’ora viene deportata al Campo anche la cognata e i partigiani, senza testimoni, possono finalmente procedere rubando le merci dal negozio e tutti i beni della famiglia presenti in casa. Solo Giuseppina manca all’appello perché ospitata da alcuni amici di famiglia in Via Paolo Boselli 6/8.
I Ghersi, ormai detenuti da due giorni senza lo straccio di un’accusa, chiedono spiegazioni ai partigiani che rispondono rassicurandoli. Viene loro detto che si tratta di un semplice controllo e che hanno bisogno di fare delle domande alla figlioletta. Siccome Giuseppina aveva precedentemente vinto un concorso a tema ricevendo, via lettera, i complimenti da parte del Segretario Particolare del Duce in persona, trattandosi di una bonaria quisquilia, i genitori si persuadono circa le intenzioni dei partigiani e, accompagnati da uomini armati, vanno a prendere la piccola. L’intera famiglia Ghersi viene dunque tradotta nuovamente al Campo di Concentramento dove inizia il primo giorno di follia. E’ il pomeriggio del 27 Aprile 1945: madre e figlia vengono malmenate e stuprate mentre il padre, bloccato da cinque uomini, è costretto ad assistere al macabro spettacolo percosso dal calcio di un fucile su schiena e testa. Per tutta la durata della scena gli aguzzini chiedono al padre di rivelare dove avesse nascosto altro denaro e oggetti preziosi.
Giuseppina cade probabilmente in stato comatoso perché, come riferisce l’esposto al Procuratore, “non aveva più la forza di chiamare suo papà”.
Verso sera inizia a piovere e le belve, stanche di soddisfare i propri istinti, conducono Giovanni e Laura Ghersi presso il Comando Partigiano di Via Niella dove viene chiaramente detto che a loro carico non è emerso nulla. Nonostante ciò i partigiani li rinchiudono nel carcere Sant’Agostino.
Giuseppina subisce da sola un lungo calvario di sofferenze finché, il 30 Aprile 1945, viene finita con un colpo di pistola per poi essere gettata davanti alle mura del Cimitero di Zinola su un cumulo di cadaveri. Il corpo viene disteso dal personale del luogo nella fila dei riconoscimenti dove per diversi giorni. Qui viene notato dal Sig. Stelvio Murialdo per alcuni agghiaccianti particolari. Riportiamo, testualmente, dalla memoria del Sig. Stelvio Murialdo: “E proprio il primo era un cadavere di donna molto giovane; erano terribili le condizioni in cui l' avevano ridotta, evidentemente avevano infierito in maniera brutale su di lei, senza riuscire a cancellare la sua giovane eta'. Una mano pietosa aveva steso su di lei una SUDICIA COPERTA GRIGIA che parzialmente la ricopriva dal collo alle ginocchia. La guerra ci aveva costretto a vedere tanti cadaveri e in verità, la morte concede ai morti una distesa serenità; ma lei , quella sconosciuta ragazza NO!!! L' orrore era rimasto impresso sul suo viso, una maschera di sangue, con un occhio bluastro, tumefatto e l' altro spalancato sull' inferno. Ricordo che non riuscivo, come paralizzato, a staccarmi da quella povera disarticolata marionetta, con un braccio irrigidito verso l' alto,come a proteggere la fronte, mentre un dito spezzato era piegato verso il dorso della mano.”

La Sig.ra Ghersi viene rilasciata dopo 12 giorni di detenzione ed è costretta a recarsi presso al sede Comunista del quartiere Fornaci per domandare le chiavi della propria casa. Queste le vengono restituite solo il giorno successivo quando, accompagnata da un caporione del PCI, può riappropriarsi parzialmente dell’appartamento: il funzionario politico provvede infatti a sigillare tutte le camere eccetto una stanzetta e la cucina.
E’ quasi estate e il marito viene liberato dal carcere l’11 giugno senza mai essere stato interrogato per tutta la durata della detenzione. In questa circostanza apprende la notizia della morte di sua figlia e, nonostante il tremendo peso che aggrava il suo cuore, ritrova dentro casa la moglie prossima alla follia.
Il Sig. Ghersi si rivolge alla Questura dove, per via delle ruberie, gli viene corrisposto un acconto di 150.000 Lire mentre un agente si offre d’aiutarlo nella rimozione dei sigilli apposti ai locali della propria casa.
L’uomo, dovendo provvedere a moglie e cognata, viene assunto “per compassione” presso il consorzio ortofrutticolo dove riesce a percepire il minimo necessario per sopravvivere.
Sembra quasi che le cose tendano verso una certa normalizzazione, quando la notte dell’11 Luglio, a un mese esatto dalla scarcerazione di Giovanni, si iniziano ad avvertire alcuni rumori che svegliano di sobbalzo la famiglia. Un gruppo non identificato di persone cerca di forzare la porta di casa Ghersi che, fortunatamente, non cede.
Giovanni e Laura non riescono più a sostenere l’onere delle violenze subite e fuggono da Savona affrontando una vita di stenti e povertà incontrando in ogni dove il sospetto dei funzionari politici del Pci. Situazione del tutto simile a quella dei profughi istriani che, giunti in Italia, si trovano costretti a fuggire in altri paesi per via della pressione esercitata sul Governo, da parte del Partito Comunista Italiano. “Abbiamo dovuto scappare - si legge nell’esposto del Sig Giovanni - all’alba come ladri, da casa nostra, dalla nostra città , senza mezzi e senza lavoro, vivendo per anni in povertà e miseria, pur sapendo che gli assassini della mia bambina di appena 13 anni, vivevano nel lusso impuniti, onorati e riveriti, con i nostri soldi e di tutti quelli che erano morti o che erano dovuti scappare.
LA MEMORIA NEGATA
Negli anni ’50 il Sig. Stelvio Murialdo insieme ad altri amici decide di fissare un incontro periodico per cercare di dar voce alle storie negate dalla vulgata resistenziale. Nasce il primo gruppo dell’Associazione Ragazzi del Manfrei. Sono anni difficili attraversati da un filo rosso di omicidi come testimonia, ad esempio, il delitto del Commissario Salemi messo a tacere dalla misteriosa “Pistola Silenziosa”. L’unico ambiente che accoglie queste testimonianze è quello del Movimento Sociale Italiano col conseguente isolamento che ne consegue. I familiari delle vittime così come i testimoni oculari sono tacciati di essere dei nostalgici del Fascismo e né i giornali né gli autori di storia locale concedono cittadinanza a simili storie.
Passano i decenni finché, a livello nazionale, sembra aprirsi qualche spiraglio di speranza: il 2005 è l’anno del primo giorno del ricordo per i martiri delle Foibe e, timidamente, nel 2008 alcuni iniziano a chiedere alla locale sede de La Stampa di Savona la possibilità di parlare finalmente di Giuseppina Ghersi. Il Consigliere di Circoscrizione Vito Cafueri chiede, senza successo, che la piccola ottenga una targa in sua memoria nel quartiere Fornaci. Sembra comunque che il clima stia cambiando: l'ex senatore del Pci Giovanni Urbani, all'epoca commissario politico della divisione partigiana Gin Bevilacqua, dichiara: «Sono sceso a Savona proprio quel giorno ma non sapevo di questo episodio che merita di certo un approfondimento negli archivi. Non sarebbe un caso isolato. Venivamo da una guerra civile in cui era successo veramente di tutto» ma le reazioni non tardano e la Sig.ra Vanna Vaccani Artioli, per 27 anni Segretaria Provinciale e Consigliere Nazionale dell’Anpi afferma: «Mi ricordo Giuseppina Ghersi. Era poco più che una ragazzina ma collaborava con i fascisti. La sua fu sicuramente un'esecuzione». L’infondata accusa di collaborazionismo non può essere ribattuta perché, nel contempo, i parenti di uno dei partigiani probabilmente coinvolti nel fatto, denunciano La Stampa richiedendo un risarcimento che per legge spetta loro visto che il crimine in questione è stato amnistiato dalla Repubblica Italiana e a nessuno può essere imputato. I giornali scelgono di non parlare più del fatto fino all’11 febbraio 2010 quando La Stampa concede un piccolo ritaglio alla notizia dell’interpellanza del Consigliere Comunale Alfredo Remigio che, in sostegno all’iniziativa lanciata dai Ragazzi del Manfrei, chiede che sia “intitolato uno spazio pubblico o, quantomeno, istituito un Giorno del Ricordo in memoria di Giuseppina Ghersi”. Il Comune di Savona respinge la richiesta e in tutta Italia, via internet, sorgono gruppi spontanei in sostegno alla memoria di Giuseppina Ghersi. i Settori dell’estrema sinistra insorgono su vari siti e blog.
L’enciclopedia “libera” Wikipedia nega ripetutamente la possibilità di redigere una pagina a memoria dei fatti, mentre l’Anpi, alla richiesta di collaborazione avanzata dai Ragazzi del Manfrei, risponde col silenzio.
Da qui ai nostri giorni:  La Città di Savona e l’Italia del Diritto la ricorderanno mai?
Rosso, nero, bianco, azzurro. I colori della Vita diventano strumenti di odio in mano a chi si identifica in una ideologia, al di là del buon senso. Al di là del colore politico, una sola tinta si presta a connotare il racconto, il rosso del sangue dei martiri di tutti i tempi, assieme al bianco dell’innocenza, il verde della speranza. Speranza che si riscriva la storia, che sia fatta giustizia. Perché ciò che è stato è stato, ma abbiamo oggi il dovere di restituire dignità ai genitori della piccola Giuseppina e a tutti coloro che sono stati privati dei loro diritti, al di là dell’appartenenza politica. Nel viaggio finale, quello che siamo destinati a compiere tutti, non ci sono più colori e appartenenze, ma azioni, sentimenti, valori. E il colore, è quello dell’amore.
 
MINGOLINI ATTILIO UCCISO IL 26 APRILE 1945 
ZIO DI GIUSEPPINA GHERSI

LA TESTIMONIANZA AGGHIACCIANTE DI UN PADRE…

ESPOSTO DEL PADRE DELLA PINUCCIA GHERSI ASSASSINATA DA ALCUNI “GLORIOSI PARTIGIANI”

Il 29 aprile del 1949, il padre della povera Giuseppina Ghersi, Pinuccia, rapita, stuprata ed assassinata da tre partigiani comunisti nella notte del 30 aprile 45, prende carta e penna e mosso dalla rabbia e dalla disperazione per cio’ che la sua famiglia ha subito, torture, percosse, espropri, omicidi, minacce, scrive un esposto alla Procura della Repubblica di Savona.
Rappresenta uno spaccato di inferno, di storia italiana… che descrive con parole semplici, esaustive e pesantissime tutte le atrocita’ subite da egli stesso, dalla moglie e dalla piccola Pinuccia Ghersi, martirizzata dalla “polizia” partigiana.
Accaimenti ed eventi ”comuni” a tantissimi altri italiani in quegli anni dove regnava incontrastato l’arbitrio della follia e l’arroganza dei partigiani comunisti.
I valori della Resistenza non furono solo quelli degli assassini e del briganti che avevano diritto di vita e di morte su chiunque, ma è indiscutibile che parte di essa si sia macchiata di crimini orrendi e di inaudita violenza e ferocia.
Il pover’ uomo si chiamava Giovanni Ghersi, dall’aprile del 1945 dovette subire l’inferno in terra, pur non essendo un torturatore o un “rastrellatore fascista”: arrestato lui e la moglie, percosso, imprigionato nel famigerato campo di concentramento di Legino, gestito dai partigiani comunisti, spogliato di ogni avere, persino epurato e costretto ad fuggire da Savona per evitarsi la morte per lui e la moglie.
Morte atroce e disumana che non pote’ evitare alla sua piccola figlia di appena tredici anni, Giuseppina.
Ecco l’esposto , indirizzato al Procuratore di Savona e firmato dal Signor Ghersi, consta di sei cartelle, manoscritte con una grafia fitta, con delle correzioni, pieno di sofferenza:
Ne approfitto per chiedere alla attuale Procura della Repubblica, se non ritienga che sussistano gli elementi oggettivi per riaprire un caso molto spinoso che necessita di molti chiarimenti a tutt’oggi…
“…Il 25 aprile 45, alle 5 pomeridiane, sono arrivati a Savona, i partigiani, noi stavamo alla finestra, ci venne chiesto del materiale di medicazione che noi fornimmo volentieri.
Il 26 ci recammo al lavoro alle 6, al nostro ingrosso di frutta e verdure, accompagnati da un vetturino, Meriggi, abitante in Via Saredo, accanto a casa nostra.
Arrivati a San Michele, fummo fermati da due partigiani armati di mitra, uno rimase a guardia di noi e l’altro ando’ a telefonare in un garage, del Signor Filippo Cuneo. Venne un tale che si qualifico’ come tenente, della polizia partigiana.
Uno dei partigiani, De Benedetti Giuliano, volle che fossimo tradotti al campo di prigionia di Legino sotto scorta armata. Venni disarmato del coltello da lavoro che abitualmente portavo dietro.
Arrivati a campo di Legino, luogo di morte di tanti poveretti, fummo contattati da un certo Piovano, abitante a Savona in Via Valletta San Michele attualmente operaio delle FS, il quale ci sequestro’le chiavi di casa e del magazzino della nostra merce. Dopo circa mezz’ora fu tradotta al campo, anche mia cognata, coabitante con la mia famiglia. In questo modo la casa e il magazzino furono depredati di tutto senza testimoni, per portare via tutto sono stati usati camion e carretti. Anche dalla casa sparirono oro, argento e denari…”
Ora arriva il peggio, che riporto testuale dall’esposto :
“ il 27 aprile, verso le 10 del mattino, i partigiani del campo, minacciarono di morte mia moglie per sapere dove fosse la mia bambina, di appena 13 anni, terrorizzati, acconsentimmo ad accompagnarli a prenderla dove essa era, presso dei conoscenti in via Paolo Boselli 6/8 Savona. Accompagnata da un “brutto ceffo” certo Guerci, abitante a Zinola, operaio ILVA, la presero e la condussero al campo.
Nel pomeriggio cominciarono le nostre torture, presero la bambina, e ci giocarono a pallone, portandola in uno stato comatoso, perdendo tanto sangue che non aveva piu’ la forza di chiamare suo papa’, poi si sfogarono su mia moglie, malmenandola e percuotendola in modo che lascio alla vostra immaginazione, poi in cinque cominciarono a battermi con il calcio del moschetto, sulla testa e sulla schiena, tutto cio’ perche’ rivelassi dove avevo nascosto altri soldi e altro oro.
Dopo aver conciato per bene io e mia moglie, da fare pieta’, verso le sei, mentre pioveva a catinelle, fummo condotti in via Niella, dal Comando partigiano, dove ci fu detto che a nostro carico non era emerso nulla. Nonostante cio’ fummo portati al Carcere di S. Agostino arbitrariamente da tale Serra, nato a Spotorno e residente a Legino.
Mia moglie dopo 12 gg. Fu rilasciata e si reco’ presso la sede Comunista delle Fornaci, dove chiese le chiavi di casa, che dopo grandi insistenze le vennero restituite. Ma per poco, infatti arrivo’ un certo Ferro abitante in Via Bove, che per ordine della sezione del PCI delle Fornaci, le riprese.
L’indomani, mia moglie torno’ al Comando Partigiano in Via Montenotte e riebbe le chiavi di casa nostra, ma appena in casa, entro’ anche un caporione del PCI tale Peragallo, abitante in Via Tallone 9/12, il quale sigillo’ tutte le camere tranne la cucina e una cameretta.
Il giorno 11 giugno, senza mai essere stato interrogato fui liberato, appresi della uccisione della mia bambina, Pinuccia, e ebbi grande sconforto da questa notizia. Andai in questura e chiesi di far togliere i sigilli alle camere, cosa che fece un agente. A causa delle ruberie subite l’intendenza di finanza mi corrispose un acconto di 150.000 lire.
Gli animali che avevo, conigli e galline, furono venduti ad un pubblico ristorante; essendo senza lavoro ed indigente, venni assunto per compassione presso il consorzio ortofrutticolo dove percepivo il necessario per poter vivere con mia moglie e sua sorella, era un periodo quasi sereno…
Ma una notte, l’11 luglio 45, un gruppo di persone tento’ di forzare la porta di casa per prelevarmi e farmi fare la stessa fine di mia figlia e di molti altri. La porta per fortuna non cedette. E quella notte, salvammo la vita…
Per questo motivo, abbiamo dovuto scappare all’alba come ladri, da casa nostra, dalla nostra citta’ , senza mezzi e senza lavoro, vivendo per anni in poverta’ e miseria, pur sapendo che gli assassini della mia bambina di appena 13 anni, vivevano nel lusso impuniti, onorati e riveriti, con i nostri soldi e di tutti quelli che erano morti o che erano dovuti scappare.
Signor Procuratore,
mia figlia fu assassinata il 30 aprile del 45, dopo mezzanotte, alle 4 del mattino a Legino e fu portata al cimitero di Zinola, e buttata come un sacco di patate nel mucchio dei morti amazzati che tutte le notti riempivano il piazzale davanti al cimitero, assieme a lei fu ammazzata Teresa Delfino , Vico Crema 1/1 Savona. Pare che l’autore degli assassini sia stato Gatti Pino di Bergeggi.

Sono arrivato alla determinazione di sottoporre alla S.V. i fatti, affinche’ sia fatta luce su questa faccenda, e vengano puniti i responsabili del delitto commesso in persona della mia bambina oltreche’ di tutti i furti che abbiamo dovuto subire.
Nel primo dopoguerra, tra il 1945 e il 1949, molte persone, sostenitori o simpatizzanti (o sospettati di esserlo) dello sconfitto regime fascista, o di essere orientate a favore del mondo cattolico, liberale, o semplicemente danarose, furono rinchiuse in campi di concentramento. In molti casi furono rilasciate, talvolta dopo torture, o dopo aver pagato un riscatto. In altri casi vennero torturate, violentate, uccise, dalle guardie e talvolta venne concesso di dare sepoltura ai corpi, in altri casi i corpi furono fatti sparire, usando il metodo della Lupara bianca.
Per valutare la violenza diffusa e massiccia di quegli anni di terrore vi sono recenti studi resi possibili dalla aperture di molti archivi dell’ex URSS. Lo storico Victor Zaslavsky riporta nel suo libro “Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca” un rapporto dell’allora capo del PCI Palmiro Togliatti all’ambasciatore sovietico in Italia Mikhail Kostylev sul numero di persone che venivano uccise senza processo in quei tempi. Il 31 maggio 1945, l’ambasciatore si incontrò con il segretario del PCI e inviò a Mosca un rapporto sul colloquio. In questo incontro con l’ambasciatore sovietico Togliatti valutò a circa 50.000 le persone uccise con esecuzione sommaria dopo la fine della guerra. Togliatti precisò pure che molte persone rilasciate dalle autorità americane venivano poi eliminate dai partigiani.
Giuseppina Ghersi era una giovane di 13 anni, studentessa dell’Istituto Magistrale “Maria Giuseppa Rossello” della Villetta, Savona. Abitava in via Tallone, attualmente via Donizzetti. Apparteneva ad una famiglia di commercianti ortofrutticoli, il padre Giovanni Ghersi. Il corpo senza vita della ragazza fu abbandonato nel cimitero di Zinola, (Savona) nell’aprile del 1945.
Il 26 aprile i genitori si recarono al lavoro alle 6, al loro ingrosso di frutta e verdure, a San Michele, vicino alla loro casa. Arrivati a San Michele, furono fermati da due partigiani armati di mitra, successivamente venne un altro che si qualificò come tenente, della polizia partigiana. Furono tradotti al Campo di concentramento di Legino sotto scorta armata. Arrivati al campo di Legino, furono loro sequestrate le chiavi di casa e del magazzino della merce. Dopo circa mezz’ora fu tradotta al campo la cognata che viveva nella loro casa. Furono depredate la casa, di oro, e denaro, e il magazzino della merce.
Il 27 aprile verso le 10 del mattino, le guardie minacciarono di morte la moglie per sapere dove fosse figlia tredicenne. Terrorizzati i Ghersi accompagnarono le guardie a prenderla, presso dei conoscenti in via Paolo Boselli 6/8 Savona, da dove fu presa e condotta al campo. Nel pomeriggio la ragazza fu presa e le guardie ci giocarono a pallone, riducendola in uno stato comatoso, perdendo tanto sangue da non avere più la forza di chiamare il suo papà. Poi le guardie si sfogarono sulla moglie, malmenandola e percuotendola, successivamente in cinque batterono il padre con il calcio del moschetto, sulla testa e sulla schiena, chiedendogli di rivelare dove avesse nascosto altri soldi e altro oro. Verso le 18 furono condotti in via Niella, al Comando partigiano, dove fu loro detto che a loro carico non era emerso nulla. Furono tuttavia portati al Carcere di S. Agostino.
Dopo 12 giorni fu rilasciata la moglie. L’11 giugno, senza mai essere stato interrogato fu liberato il padre che apprese in tale occasione che sua figlia Pinuccia era stata uccisa.


 
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sabato 29 aprile 2017

Gli Stati Uniti uccidono molto più del morbillo

 
 
 Il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc) di Atlanta ha diffuso una nota in cui consiglia ai cittadini americani di prendere delle precauzioni quando vengono in Italia perché il nostro Paese è ad alto rischio epidemiologico. Vi infuria una pericolosissima malattia: il morbillo. Nei primi tre mesi di quest’anno il morbillo ha colpito 1.473 persone. Un’enormità, circa lo 0,0025% della popolazione italiana. Per la prima volta siamo considerati un Paese ‘a rischio’ come la Sierra Leone colpita dal virus dell’Ebola.
Il morbillo, come la varicella o la rosolia, è una di quelle classiche malattie esantematiche (le ‘malattie infantili’ come si diceva una volta) che, scarlattina a parte, non hanno mai fatto male a nessuno. Nella mia generazione, che è quella della guerra e del primo dopoguerra, tutti abbiamo preso il morbillo, eppur siam vivi. Ci facevano molta più paura (o meglio la facevano ai nostri genitori) le bombe che gli americani gettavano a man bassa su Milano senza peraltro riuscire a colpire un qualche obbiettivo militare come la Stazione Centrale. Il morbillo, come la varicella o la rosolia, è probabilmente una autoimmunizzazione. Tanto che ai tempi miei molte madri usavano mettere i loro figli sani accanto ai bambini malati di morbillo, così se lo beccavano e non ci si pensava più. Solo in casi rarissimi il morbillo –ma il discorso vale anche per una semplice influenza- può avere effetti collaterali pericolosi. Ma evidentemente gli americani lo temono come la peste. Del resto sono dei maniaci dell’igiene oltre che del controllo su tutto e su tutti. A qualcuno dei lettori sarà certamente capitato di andare a letto con qualche ragazza americana del tipo WASP. Ti chiede preventivamente di farti una doccia, poi va in bagno e si fa abluzioni per mezz’ora. Quindi esce con una camicetta (un tempo babydoll) in cui manca poco che ci sia scritto “fuck me”. E a te cade tutta la libido, ammesso che non l’avessi persa nel frattempo.
Molto attenti alla loro salute (anche se l’Aids in grande stile è partito proprio dall’America a causa di una eccessiva promiscuità omossessuale e bisessuale) lo sono pochissimo per quella altrui. E’ notizia di pochi giorni fa che hanno gettato la GBU-43 Massive Ordnance Air Blast bomb detta in acronimo Moab e in volgare la ‘madre di tutte le bombe’, di cui negli States pare che vadano molto fieri (qualche flebile protesta c’è stata solo per il costo: 314 milioni di dollari che forse potevano essere usati diversamente) un ordigno dal peso di 10 tonnellate che certo fa un po’ più male del morbillo. “Non si sa, non è ancor certo” se abbiano colpito gli jihadisti, il loro obbiettivo dichiarato, ciò che è sicuro è che i contadini afgani che abitavano nelle vicinanze dell’esplosione non ne sono usciti bene.
Gli americani hanno una vera fobia per le ‘armi di distruzione di massa’ specialmente chimiche. Non fan che disegnare ‘linee rosse’ insuperabili, quando queste armi le usano gli altri. Eppure sono i più grandi dispensatori di ‘armi di distruzione di massa’. Chi ha gettato l’Atomica su Hiroshima e, tre giorni dopo, su Nagasaki quando il Giappone era già in ginocchio? Al bilancio di 80 mila morti in un colpo solo va aggiunto quello, ancor più grave, dei bambini e degli adulti contaminati per decenni dalle radiazioni nucleari. Hanno usato il napalm in Vietnam. Hanno utilizzato proiettili all’uranio impoverito in Bosnia. Fra i soldati italiani che accompagnarono quella spedizione punitiva antiserba i morti per leucemia, al 2016, sono 333 e quelli che si sono ammalati di cancro per essersi contaminati con quei proiettili sono oltre 3.600 (dati forniti dall’Osservatorio Militare). Non si hanno informazioni precise sugli abitanti di Bosnia, ma se tanto mi dà tanto i morti e gli ammalati devono essere molti di più, visto che i nostri soldati qualche precauzione l’avevano pur presa e sul territorio ci sono stati per un periodo limitato, mentre gli abitanti hanno continuato a viverci o piuttosto a morirci.
In Afghanistan, per stanare gli uomini di Bin Laden nascosti nelle caverne di Tora Bora, hanno usato i gas tossici per stessa ammissione del segretario della Difesa Donald Rumsfeld. E poi hanno continuato imperterriti. Nel marzo del 2003 un vecchio, Jooma Khan, che viveva in un villaggio della provincia di Laghman, nell’Afghanistan nord-orientale, ha raccontato: “Quando vidi mio nipote deforme mi resi conto che le mie speranze per il futuro erano scomparse. Ciò è differente dalla disperazione provata per le barbarie russe, anche se a quel tempo persi mio figlio più grande, Shafiqullah. Questa volta invece sento che noi siamo parte dell’invisibile genocidio che l’America ci ha buttato addosso, una morte silenziosa da cui non potremo fuggire” (Robert C. Koehler, in Tribune Media Services, 2004). Del resto ai genocidi, silenziosi o meno, questi cowboy vigliacchi non sono nuovi. Parte della loro storia inizia col genocidio dei pellerossa, usando, oltre i winchester contro le frecce, l’’arma chimica’ del tempo, il whisky, per indebolire e fiaccare una popolazione altamente spirituale, poi descritta nei loro indecenti film western come tribù di barbari ‘scalpatori’. In seguito li hanno chiusi nelle riserve, ma non bastandogli continuano a farci i loro porci comodi. Nel gennaio di quest’anno Donald Trump ha deciso, nonostante la disperata opposizione dei Sioux, di far passare alcuni oleodotti nelle loro riserve del North Dakota.
Se erano vigliacchi in partenza ora lo sono diventati all’ennesima potenza. Non hanno il coraggio di scendere sul terreno, ma usano quasi esclusivamente bombardieri e droni. Affermano che l’Isis è il maggior pericolo per l’Occidente, ma per conquistare Mosul utilizzano il coraggio (quelli ce l’hanno) dei peshmerga curdi e dei pasdaran iraniani. Non c’è quasi ospedale che non abbiano colpito, in Afghanistan, in Siria e altrove.
Dal 1990, collassato il contraltare sovietico, non fanno che inanellare guerre di aggressione: prima guerra del Golfo (1990), guerra antiserba in Bosnia con l’appoggio degli europei (1992-1995), guerra alla Serbia del 1999 con la partecipazione di altri membri di quella finzione che è la Nato, ma non tutti (la piccola Grecia si rifiutò di parteciparvi, l’Italia invece si prestò nella poco nobile parte del ‘palo’, gli aerei che andavano a bombardare Belgrado partivano da Aviano), guerra all’Afghanistan (2001-?), guerra all’Iraq (2003) nonostante l’opposizione dell’Onu che si era opposta anche all’aggressione alla Serbia, guerra alla Somalia per interposta Etiopia (2006-2007), guerra alla Libia (2011) con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti quelli che ora piangono lacrime di coccodrillo. In attesa di ulteriori sviluppi della crisi nordcoreana.
Hanno un centinaio di basi militari, anche nucleari, in tutto il mondo, persino nella piccola e pacifica Islanda, e possono colpire chi vogliono e quando vogliono.
E allora chi sono i terroristi internazionali? Una bella epidemia di morbillo e magari di varicella e anche di pertosse è il minimo che gli si può augurare.
Massimo Fini
 

venerdì 28 aprile 2017

29 APRILE 1945 : ADRIANO VISCONTI, VALERIO STEFANINI, DON TULLIO CALCAGNO

 
TRE STORIE LEGATE DA UN GIORNO E DA UN' UNICA FEDE
 
ADRIANO VISCONTI
 
ADRIANO VISCONTI

 
 
Non meno di 220 furono i piloti - ufficiali, sottufficiali e allievi - caduti fra i ranghi dell'ANR nei 20 mesi della RSI. Oltre il 20% del personale navigante disponibile nella RSI si era sacrificato per adempiere al proprio dovere di aviatori e di italiani, nel tentativo forse impossibile ma generoso, di difendere l'Italia e i suoi cittadini.
Fra tutti questi indimenticabili soldati dell'onore, abbiamo scelto simbolicamente due storie legate ad altrettanti personaggi, ma tutti sarebbero a nostro giudizio meritevoli di menzione, poiché ricordare questi aviatori significa ricordarne molti altri ed onorarli tutti - i più conosciuti ma soprattutto gli sconosciuti - spesso emarginati, anonimi pur anagrafati, semplici nelle loro manifestazioni quotidiane.
La storia del primo - un giovane sottotenente pilota di nome Sergio Orsolan - si concluse tragicamente al suo esordio in combattimento con l'ANR; la storia del secondo - maggiore pilota Adriano Visconti - ebbe ugualmente tragico epilogo con una raffica di mitra alle spalle, dopo essere sopravvissuto a cento e cento combattimenti ed essersi ritrovato a fine guerra casualmente vivo ma col destino segnato da uomini vili.
La vita di aviatore di Sergio Orsolan inizia nel gennaio 1940 alla scuola di volo di Grosseto, prosegue nell'Accademia Aeronautica di Caserta da cui esce sottotenente in SPE nel febbraio 1943, continua con la scuola caccia di Gorizia e l'assegnazione al 3° Gruppo autonomo CT dislocato in Sicilia.
Il 3 marzo abbatte in combattimento un P. 38 "Lightning", lotta strenuamente alla difesa dell'isola invasa dal nemico e si ritrova nel settembre a Caselle torinese in attesa di ricostituire il suo reparto decimato e privo di aeroplani.
Rientra a casa dopo molte peripezie, si presenta nell'ANR e viene assegnato al 2° Gruppo CT nella squadriglia del capitano Drago, dove ritrova i vecchi compagni della Sicilia e rinnovato entusiasmo per tornare a combattere.
Nella primavera del 1944 il reparto può considerarsi pronto a riprendere la lotta e il 25 maggio decolla su allarme da Cascina Vaga di Pavia con altri 9 G.55 per intercettare bombardieri scortati da caccia diretti dal mar Tirreno in Lombardia: sono B. 24 "Liberator" scortati dai soliti P. 38 già conosciuti in Sicilia.
Il combattimento si accende ad oltre 5000 metri d'altezza, si fraziona in duelli e attacchi ai quadrimotori con l'abbattimento di un "Lightning" ad opera proprio di Orsolan, di un "Liberator" per attacchi di Feliciani e mitragliamenti agli altri aerei da parte di Drago, Fagiano, Mingozzi, Camerani, Luziani, Marin.
Nella mischia il "Centauro" di Orsolan rimaneva colpito e precipitava nei pressi di
Travo/Bobbiano in provincia di Piacenza distruggendosi in frammenti così minuti da rendere particolarmente difficile la pietosa opera di recupero fatta da un umile fabbro del posto - Luigi Bozzarelli. Egli raccolse in una cassettina di legno pochi resti e la seppellì poco distante dal punto in cui era caduto l'aereo. Soltanto due anni più tardi, a guerra finita, fu possibile rintracciare con fatica la cassetta e consegnarla ai familiari per una cristiana sepoltura.
Sergio, giovane eroe del cielo, moriva a 26 anni per una Italia che intendeva difendere e che non meritava il suo sacrificio, poiché 10 anni più tardi, dimostrando indifferenza e ingratitudine vergognosa, concedeva ai familiari dello sfortunato pilota, una pensione di L. 10.000. Tanto valeva la vita di un aviatore per l'Italia della resistenza e della corruzione generalizzata.
"Chiedi infinito cielo d'ogni bellezza adorno, so che a chi doni l'ali, la vita chiedi in dono" scriveva quasi come un presagio Sergio Orsolan in una delle sue ultime poesie.
La storia di Adriano Visconti ugualmente tragica, si concludeva non nel cielo, suo naturale elemento, ma nel tetro cortile di una caserma milanese il 29 aprile 1945: una fine amara, non certamente quella riservata agli aviatori, avvilente per chi a 47 anni da quei fatti, dimostra ancora, ignorandoli volutamente, viltà, grettezza d'animo, opportunismo. Visconti non fu un pilota come tanti altri, ma l'Asso indiscusso dell'Aviazione italiana nella 2^ guerra mondiale con 26 abbattimenti accreditati: pochi se rapportati a quelli degli assi più famosi, ma ottenuti però con aerei impossibili, quasi disarmati, sicuramente obsoleti anche trattandosi di MC.202, nel confronto con Spitfire, Mustang, Zero, Messerschmitt, Yakovlev con cui operarono i piloti stranieri.

Visconti potrebbe benissimo identificarsi per audacia e comportamenti con Baracca, Ruffo di Calabria, Scaroni Assi della 1a guerra mondiale - che meritarono ugualmente per il loro valore ricompense e medaglie, onori particolari, intestazioni di reparti e aeroporti, monumenti e strade cittadine con la trascrizione onorifica del loro passato sui libri di storia e nei testi ufficiali dell'Aeronautica.

Visconti, combattente della R.S.I., non ebbe niente di tutto questo se non la voluta dimenticanza del suo nome e delle sue gesta da parte dei responsabili al vertice dell'aviazione italiana con l'accurata estromissione del suo passato da ogni celebrazione ufficiale. L'ipocrita osservanza della politica manichea e la congiura imbarazzata del silenzio evitavano rischi di carriera per chi allora comandava. Eppure si consideri che alcuni dei suoi assassini sono assurti immeritatamente a rappresentanti del popolo, mentre la viltà di chi si è prestato ad una politica spregevole è stata ripagata con la vergogna e l'emarginazione: avvilente conclusione dell'omertà anche il disprezzo dei potenti di turno.
Mentre il giovane Orsolan imparava a volare Visconti iniziava a combattere volando per 1400 ore di attività bellica, partecipando a 591 missioni di guerra con 72 combattimenti, abbattendo 19 aerei prima e altri 7 dopo l'armistizio, due volte abbattuto in battaglia, ferito, menomato fisicamente per postumi; un risultato di grande rilevanza morale compendiato dall'assegnazione di 6 medaglie d'argento, 2 di bronzo, due promozioni per meriti di guerra, le croci di ferro di 1 e 2 classe e soprattutto il meritato titolo di Asso dell'Aviazione italiana nella 2^ guerra mondiale conquistato a 30 anni di età al comando del 1° Gruppo Caccia dell'A.N.R.
Una grande sala dedicata al settore aeronautico del Mall Memorial Lincoln di Washington è dedicata agli Assi della 2^ guerra mondiale, suddivisi per nazione e con a fianco il numero degli abbattimenti e le indicazioni necessarie a corredo della foto esposta. Per l'Italia figurano degnamente Adriano Visconti e Franco Bordoni-Bisleri (24 vittorie). Come tutti gli altri, sono stati selezionati e designati come rappresentanti delle singole nazioni da una commissione internazionale di piloti (l'Italia ufficiale non ebbe alcun componente nella commissione) ma la scelta di quegli aviatori stranieri non venne offuscata dal dubbio scegliendo Visconti per l'Italia.
Conosciuto e onorato all'estero, negletto ed emarginato in patria da una antistorica viltà è visto annualmente da milioni di visitatori stranieri, che ammirano gli uomini più valorosi nella guerra nei cieli.
Noi continueremo a ricordarlo e onorarlo come sempre, poiché viviamo del suo passato e delle sue gesta, sapendo che Adriano riposa finalmente in pace confuso fra conosciuti o sconosciuti combattenti dell'onore nel suggestivo campo 10 del Musocco di Milano; la città dove venne vilmente ucciso da partigiani con una raffica sparata alle spalle. Secondo il loro abituale comportamento.
Nino Arena



LE ONORIFICENZE 


Medaglia di bronzo al Valor Militare
«Ufficiale pilota di grande calma e sangue freddo, provato in numerose e rischiose ricognizioni e in audaci attacchi contro autoblinde nemiche, durante una missione bellica veniva attaccato da tre caccia nemici che danneggiavano gravemente il velivolo. Con abile manovra atterrava su un campo di fortuna organizzando subito, con spirito combattivo, la strenua difesa dell'equipaggio.»
— Cielo di Sidi Omar - Amseat - Sidi azeis, 11-14 giugno 1940


Medaglia d'argento al Valor Militare

«Pilota d'assalto, durante un'azione di spezzonamento e mitragliamento contro mezzi corazzati nemici, attaccato da numerosi velivoli, persisteva nell'azione sino al completo successo. Nonostante il rabbioso fuoco di un caccia che lo seguiva da presso, si addentrava in territorio avversario recando l'offesa contro altre autoblindo avvistate e riuscendo, con le ultime munizioni, a distruggerne una in fiamme. In successiva operazioni contro mezzi meccanizzati nemici riconfermava le ottime dote di combattente audace ed aggressivo, infliggendo al nemico gravi perdite e rientrando spesso alla base con il velivolo gravemente colpito.»
— Cielo della Marmarica, giugno - settembre 1940


Medaglia d'argento al Valor Militare

«Capo pattuglia di formazioni d'assalto lanciate, durante aspra battaglia, a mitragliare e spezzonare forti masse meccanizzate nemiche, partecipava con impetuoso eroico slancio a ripetute azioni a volo radente, contribuendo a distruggere ed a immobilizzare numerose autoblindo e carri armati avversari, più volte rientrando alla base con l'apparecchio colpito dalla violenta reazione contraerea. Alto esempio di coraggio, dedizione assoluta al dovere e superbo sprezzo del pericolo.»
— Cielo di Sidi Barrani, Bug Bug, Fayres, 9 - 12 dicembre 1940


Medaglia di bronzo al Valor Militare

«Partecipava, quale pilota da caccia, alla luminosa vittoria dell'Ala d'Italia nei giorni 14 e 15 giugno nel Mediterraneo. Durante lo svolgimento di una battaglia navale si prodigava dall'alba al tramonto in voli d'allarme, di scorta e di ricognizione abbattendo un velivolo da combattimento avversario e recando preziose notizie sui movimenti delle unità navali nemiche»
— Cielo del Mediterraneo, 14 e 15 giugno 1942


Medaglia d'argento al Valor Militare

«Valoroso pilota da caccia, già distintosi in numerose azioni di guerra, durante un volo di scorta ad un apparecchio da ricognizione fotografica operante su unità navali nemiche, attaccava da solo quattro caccia avversari e, dopo vivacissimo combattimento, ne abbatteva due in fiamme e costringeva gli altri alla fuga, permettendo al ricognitore di svolgere regolarmente la sua missione.»
— Cielo del Mediterraneo centrale, 13 agosto 1942


Medaglia d'argento al Valor Militare

«Valoroso comandante di squadriglia, già distintosi in precedenti periodi operativi, partecipava nel breve volgere di tempo durante l'attuale ciclo, a quattro violenti combattimenti nello svolgersi dei quali confermava le sue doti di abile e valoroso combattente e durante i quali abbatteva sicuramente un velivolo, uno probabile e ne danneggiava altri sei. Il 29 aprile, mentre coi propri gregari faceva parte di una nostra esigua formazione attaccante oltre sessanta velivoli nemici da caccia, di protezione a bombardieri che tentavano un'azione contro naviglio nazionale, con indomito spirito aggressivo si lanciava sugli avversari e con il fuoco delle proprie armi ne sconvolgeva la formazione collaborando all'abbattimento di numerosi velivoli nemici ed alla realizzazione di una fulgida vittoria dell'Ala Italiana che veniva citata all'ordine del giorno.»
— Cielo della Tunisia, 29 aprile 1943






MILANO CIMITERO MAGGIORE -CAMPO X- LE TOMBE DEI CADUTI DELLA R.S.I. DOVE E' SEPOLTO IL MAGGIORE ADRIANO VISCONTI



IL CACCIA DEL MAGGIORE ADRIANO VISCONTI

LA SENTENZA DI CONDANNA A MORTE


Aprile 1944, Visconti a bordo di un Macchi C.205



L'Aeronautica Nazionale Repubblicana
 
 
L'istituzione di un'aviazione per la nascente repubblica fascista risale alla nomina del tenente colonnello Ernesto Botto a sottosegretario per l'aeronautica il 23 settembre 1943, durante la riunione del consiglio dei ministri della RSI.
Botto si insediò nel suo ufficio al Ministero dell'Aeronautica il 1º ottobre e si trovò di fronte una situazione assai ingarbugliata, le cui cause erano da ricercare nella mancanza di collegamenti e nelle iniziative tedesche: il comandante della Luftflotte 2, il Feldmaresciallo Wolfram von Richthofen, aveva già iniziato a radunare il personale della Regia Aeronautica da arruolare nella Luftwaffe. Il Feldmaresciallo Albert Kesselring, a sua volta, aveva nominato il tenente colonnello Tito Falconi "ispettore della caccia italiana", con il compito di rimettere la suddetta caccia in condizione di combattere. Per di più Richtofen aveva nominato un comandante per l'aviazione italiana nella persona del generale Müller.
Tra reciproche incomprensioni, distanze e differenze di vedute, la costituzione dell'Aeronautica Repubblicana dovette attendere l'autorizzazione personale di Hitler in novembre, dopo che le proteste ufficiali di Botto avevano risalito l'intera scala gerarchica tedesca. Nel gennaio del 1944 si iniziava così la formazione dei reparti: un gruppo per ogni specialità ,caccia, su Macchi M.C.205 Veltro, aerosiluranti, su Savoia-Marchetti S.M.79 e trasporto, con una squadriglia complementare. Il tutto, per le operazioni, dipendeva dai comandi tedeschi. In aprile veniva formato un ulteriore gruppo di caccia, su Fiat G.55 Centauro.
Nel giugno dello stesso anno iniziò il passaggio ai velivoli tedeschi Messerschmitt Bf-109G-6, che avrebbero dovuto armare anche il nuovo 3º Gruppo. Questa espansione della caccia fu dovuta sia al crescente disimpegno della Luftwaffe dal settore meridionale, sia dai buoni risultati conseguiti inizialmente. Ma questi terminarono ben presto ed il tasso di perdite cominciò a farsi in breve tempo superiore al numero di abbattimenti ottenuto.
Complessivamente nel periodo tra il 3 gennaio 1944 e il 19 aprile 1945 il 1º gruppo registrò 113 vittorie sicure e 45 probabili nel corso di 46 combattimenti. Il 2º gruppo, entrato in linea nell'aprile 1944, all'aprile 1945 registrò nel corso di 48 combattimenti ben 114 vittorie sicure e 48 probabili.
L'aeronautica della RSI, che comprese anche l'artiglieria contraerea ed i paracadutisti, era costituita da tre Gruppi Caccia, che contrastarono per quanto possibile la superiorità dell'aviazione nemica, il gruppo aerosiluranti Faggioni , caduto col suo aereo durante la battaglia di Anzio, e due gruppi di aerotrasporti.
Il Gruppo Aerosiluranti "Buscaglia-Faggioni", comandato da Carlo Faggioni subì forti perdite mentre attaccava la flotta alleata che supportava la testa di ponte di Anzio. Nonostante le numerose navi colpite,  la vita operativa del gruppo fu piuttosto avara di riconoscimenti: l'unico siluro messo a segno dopo tanto impegno, fu quello che danneggiò un piroscafo britannico, colpito a Nord di Bengasi, nel periodo in cui il reparto operava da basi ubicate in Grecia, e un piroscafo al
largo di Rimini il 5 gennaio 1945. Da segnalare dopo la morte di Faggioni il raid che il gruppo fece contro la piazzaforte di Gibilterra, guidata dal nuovo comandante Marino Marini. Quanto al gruppo dei trasporti ,al quale se ne aggiunse un secondo, fu utilizzato dalla Luftwaffe sul fronte orientale e poi sciolto nell'estate del 1944.
Anche gli altri reparti, in sostanza, subirono la stessa sorte nello stesso momento: in quei mesi i rapporti fra i vertici militari della RSI e quelli tedeschi erano peggiorati notevolmente, i cui mezzi e piloti subivano un eccessivo logorio. Von Richtofen, che doveva ridurre ulteriormente la presenza aerea tedesca in Italia, pensò di risolvere la questione sciogliendo i reparti della RSI e sostituendoli con una sorta di "legione aerea italiana", strutturata secondo il modello del Fliegerkorps tedesco, il cui comandante sarebbe stato il generale di brigata aerea Tessari, che avrebbe così lasciato la carica di sottosegretario che ricopriva dopo l'esonero di Botto. Le solite rivalità interne e incomprensioni fecero bloccare il piano, lasciando la RSI di fatto senza aviazione fino a settembre, quando si riuscì a rimettere in moto il processo. Da ottobre fino al gennaio del 1945, quando il 1º gruppo tornò dall'addestramento in Germania, il 2º fu l'unico reparto di caccia disponibile per contrastare l'azione degli Alleati. Ma l'arrivo della nuova unità mutò di poco la situazione complessiva.
Le ultime missioni di volo vennero svolte il 19 aprile, quando i due gruppi intercettarono dei bombardieri e dei ricognitori, probabilmente statunitensi: uno dei ricognitori venne abbattuto, a prezzo di un caccia; quanto allo scontro con i bombardieri, questo fu disastroso e gli aerei della RSI, colti di sorpresa dalla reazione della scorta, subirono cinque perdite. Nei giorni successivi, impossibilitati a compiere decolli per mancanza di carburante e sottoposti a continui attacchi, i reparti distrussero il materiale di volo e si arresero.

BERGAMO REPUBBLICANA 13 MARZO 1944

BERGAMO REPUBBLICANA 5 SETTEMBRE 1944


 
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VALERIO STEFANINI
 

S. Ten. STEFANINI VALERIO – nato a Roma il 15 gennaio 1922.

Dopo la nomina a Sottotenente, gli ex allievi del Corso Zodiaco, nel gennaio ’45 furono distribuiti fra i vari Reparti dell’ A.N.R. Stefanini fu assegnato al 1° Gruppo Caccia, comandato dal valoroso Magg. Pilota Adriano Visconti; avendo conoscenza della lingua tedesca ed ottime qualità divenne uno degli Aiutanti del Comandante.
Dopo il 25 aprile '45 il Gruppo distrusse gli aerei e si asserragliò nel' accantonamento di Gallarate. Alle ore 10,30 del 29 aprile il 1° gruppo Caccia dell'A.N.R. venne ufficialmente sciolto ;mentre il personale veniva trasferito per altra destinazione, gli Ufficiali, ai quali era stato concesso di tenere con se la pistola, furono avviati verso Milano scortati da rappresentanti del C.L.N.
L'accordo venne firmato dal Ten.Col. Giannotti della R.A, da alcuni capi partigiani del C.L.N, dall'ing. Vismara del C.L.N. di Gallarate e dal Magg. Visconti.
Trasferiti a Milano nella caserma dell'ex " Savoia Cavalleria " gli Ufficiali vennero rinchiusi in uno stanzone. Avvenne la prima violazione: gruppi di partigiani fecero irruzione nello stanzone imponendo con la minaccia delle armi spianate la consegna della pistola individuale; in seguito gli stessi ritorrnarono nello stanzone intimando al Magg. Visconti ed al S.Ten. Stefanini di scendere a basso per interrogatorio - non ebbero il tempo di rendersi conto di cosa accadesse, poiché alcune raffiche di mitra sparate alle spalle li abbattevano. Solo Stefanini cercò con ultimo ed altruistico gesto di difendere il suo Comandante, proteggendolo col suo corpo, ma inutilmente: una raffica lo colpì in pieno, mentre Visconti, gravemente ferito, venne finito con alcuni colpi di pistola sparati a breve distanza. Il gravissimo episodio ebbe come conseguenza l'intervento del Colonnello dei carabinieri Della Bella, che prese possesso della caserma per bloccare la esecuzione di altri Ufficiali.
Il Magg. Visconti ed il S.Ten. Stefanini dello Zodiaco, riposano definitivamente al campo 10 del Cimitero Musocco di Milano, l'uno accanto all'altro



UN ASSASSINIO DIMENTICATO!

(di Aldo Stefanini)
Il Sott.Ten. Pilota Valerio Stefanini, (nato a Roma il 25 gennaio 1922) aiutante di campo del Magg. Adriano Visconti asso dell'aviazione italiana nella 2 guerra mondiale, fu assassinato, a tradimento, insieme al suo comandante, dai partigiani il 29 aprile 1945 a Milano,. Il maggiore Visconti, prigioniero, fu "chiamato" per conferire con il capo partigiano ed Egli andò senza timore.



Racconta il fratello di Valerio, Aldo Stefanini:
Da bambini, a quei tempi, 5 anni di differenza erano molti e quindi Valerio per me non poteva essere un compagno di giochi, però ricordo che molte volte mi seguiva nei compiti e quando, da parte mia, la distrazione si faceva evidente, volava qualche scapaccione.
Non c'erano rivalità infantili ma anzi un senso di protezione da parte sua, anche nei momenti più strani. Lui praticava da tempo iniziato lo sport della Scherma quando io iniziavo ad affacciarmi a questo sport. Lui stava finendo il liceo scientifico al "Cavour" di Roma quando io stavo finendo il ginnasio. Anche il tipo di scuola era diverso, quindi non potevamo completarci 1'uno con l'altro. Ricordo la mia presenza alle sue gare di scherma (foto qui sotto) e la sua presenza con incitamenti ai miei primi incontri di scherma. Avevamo lo stesso maestro e la palestra era la gloriosa "Audace" di Roma che aveva sfornato atleti olimpionici quali Gaudini, Sarocchi, Lucarelli ed altri. Mio Padre aveva praticato questo sport, e lo trasmise a tutti e tre i figli (Alberto, Valerio e Aldo).
Il suo carattere era molto deciso (lo giustifica anche il tipo di sport intrapreso), aveva un sensomolto elevato dell'amicizia e del rispetto dell'avversario, senza mai cedere a compromessi (odiava l'ipocrisia). Amava la vita sportiva che praticava anche in altri settori (nuoto e tuffi).
Parlava spesso di aeronautica e rendeva molto evidente la sua passione per il volo. Per entrare in Accademia fece sacrifici enormi, nello studio e nello stato di salute. Da giovane
aveva sofferto di asma bronchiale periodica. Quando fu vicino alla visita medica per entrare in aeronautica, si riempì di medicinali per superare così il concorso per entrare all'accademia di Caserta. Amava la divisa e la indossava con orgoglio A quei tempi, vedere in giro per Roma, un accademista in compagnia della fidanzata era uno spettacolo oggi incomprensibile.

Logicamente i miei genitori e la fidanzata Giuliana, non accolsero volentieri una scelta che a uei tempi era considerata quanto meno temeraria. Ma Valerio era così deciso che non fu possibile dissuaderlo.

Valerio aveva nella mente anche un futuro ben chiaro e precursore dei tempi, legato sempre all'Aeronautica, - "un giorno - diceva - diventerò pilota nelle linee aeree per avere un mestiere che assicuri mio futuro".
Sicuramente, entrando in Accademia, avrà anche pensato e valutato i rischi ai quali andava incontro un pilota, specialmente in tempo di guerra, ma mai avrebbe potuto immaginare quella morte alla quale sarebbe poi andato incontro.
Della vita in Accademia raccontava che era molto dura, per la disciplina e per le lunghe lezioni
in aula, ma quando poi raccontava delle esperienze pratiche sui velivoli, la sua voce si trasformava a tal punto che trasmetteva le emozioni di quel momento.
In licenza, a Roma, dedicava il suo tempo libero alla sua ragazza, poi agli amici di liceo, incontrandoli tutti con grande affetto. Non fece mai nessuna considerazione, che io rammenti, sull'esito della guerra, forse con mio padre!
Nati e cresciuti sotto quel regime dove sembrava tutto funzionare per il meglio (bonifiche, abitazioni per i lavoratori, il foro Mussolini, conquiste aeree, lavoro per tutti) a noi sembrava, non comprendendo il vero valore della libertà, di vivere in una nazione degna di rispetto di fronte al mondo intero. In verità non sentii mai considerazioni di Valerio sulla figura di Mussolini e sul fascismo anche se, come ripeto, nati in quel periodo non avevamo il confronto con altri mondi.
Il 7 luglio 1943, effettuò il primo volo da solo, senza istruttore. Credo che quello sia stato il più bel momento della sua vita, pilotare da solo nello spazio del cielo, godere della propria "libertà" così tanto desiderata. Quel giorno ci mandò una cartolina con la semplice frase, che racchiudeva tutti i suoi sentimenti ed emozioni, "finalmente solo lassù!". Si susseguirono le dure vicende di guerra, lo sbarco in Sicilia, i bombardamenti su Roma, la caduta del Fascismo. Fu allora che l'Accademia fu trasferita a Forlì per poi spostarsi ancora più a nord. Valerio voleva quel brevetto di ufficiale pilota e lo conseguì nel terzo anno di accademia trasferita al Nord d'Italia.
Valerio aderì alla Repubblica Sociale (RSI) perché era estremamente coerente e nel suo animo viveva quello spirito mai spento di amor di Patria e della parola data nel giuramento all'Aeronautica italiana. Su ciò si possono fare tutte le deduzioni più comode, ma è certamente vero che lui amava la sua terra e la sua Patria e con tale sentimento ha difeso questo ideale fino all'ultimo (vedi frase che ha voluto per ricordo della sua morte).
Valerio, insieme ad altri suoi colleghi, fu assegnato al 1 ° gruppo caccia "Asso di Bastoni" del comandante Visconti. Per il suo carattere vivace, l'intelligenza viva, e la sua ottima conoscenza della lingua tedesca, il Magg. Visconti lo volle come aiutante di campo ed egli si sentì fortemente legato al suo comandante tanto da seguirlo ovunque egli volesse, soprattutto nei colloqui con gli ufficiali tedeschi.
Purtroppo non ci pervennero sue notizie, per tutto il periodo in cui l'Italia fu divisa in due. Successivamente, in contatto con i genitori del Magg. Visconti, venimmo a conoscere la verità sul particolare legame fra Valerio e il Magg. Visconti e sulla loro morte solo ad evento concluso grazie alle testimonianze dei suoi colleghi sopravvissuti.
Dopo il 4 giugno 1944, con l'arrivo degli americani a Roma, io e i miei genitori non abbiamo più visto Valerio. Non ricordo che la mia famiglia abbia avuto sue notizie in quel periodo, qualche rara novità l'avevamo tramite la famiglia Visconti residente a Roma.
Nei giorni precedenti la morte di Visconti e Stefanini. avemmo notizie confortanti da avieri, che erano rientrati a Roma. i quali assicurarono che dopo la loro liberazione i partigiani avrebbero rilasciato anche gli ufficiali. Noi con il cuore pieno di ansia aspettavamo questo ritorno a casa di Valerio che non si verificò mai. Dopo qualche giorno venne a casa nostra il parroco della chiesa Madonna dei Monti e ci comunicò con parole. che allora ci sembravano assurde ed incomprensibili, dell'assassinio crudele di Valerio e del Magg. Visconti. A distanza di poco tempo, sempre dal parroco, ci venne recapitato un piccolo baule con gli effetti personali di mio fratello, raccolti dai compagni del 1° Gruppo e spediti da Don Botto cappellano militare del gruppo stesso. Credo che quello, specialmente per i miei genitori. sia stato il momento più terribile della loro vita. Dover rivedere attraverso indumenti e cose, la vita spezzata del proprio figlio ventitreenne. per mano di gente spregiudicata e priva di ogni sentimento cristiano.
Quell'assassinio fu un atto di estrema "vigliaccheria", contro chi non aveva mai partecipato a rastrellamenti di partigiani o violenze contro persone. Il solo compito che Valerio assolse con lealtà fu quello di contrastare in volo gli indiscriminati attacchi aerei contro la popolazione inerme di Milano e provincia; in difesa quindi della stessa popolazione civile colpita dai bombardamenti.

Dove erano allora i baldanzosi partigiani che poi si atteggiarono a eroici vincitori?
Il S.Ten. Fioroni, rientrato dal nord Italia, raccontava che, durante le ronde intorno all'aeroporto, capitava di catturare partigiani che tentavano di compiere atti di sabotaggio. Condotti al comando, per l'interrogatorio. Qui i partigiani che avrebbero dovuto essere fucilati immediatamente come sabotatori, si lasciavano andare ad accorate implorazioni di pietà, unite alla mostra di foto di mogli e figli, e venivano rilasciati in libertà dietro promessa di non commettere nuovamente in tali azioni.
Successivamente queste stesse persone dettero sfogo a odio e a un desiderio di vendetta senza alcun motivo, ben diverso dall'atteggiamento sottomesso e implorante di quando chiedevano benevolenza. Le ricerche sui motivi e i dettagli della morte dei due valorosi ufficiali d'Aviazione si sono sempre fermate davanti a un muro di omertà da parte delle autorità.
Io stesso, quando ero ufficiale dell'Aeronautica, trovai, all'ufficio del personale, il libretto con lo stato di servizio di Valerio, che terminava con queste parole "deceduto a Milano il 29/04/1945", senza altro commento!
Anche se l'armamento in possesso dei reparti e l'efficienza di alcuni aerei avrebbero consentito al gruppo Visconti di resistere ai partigiani, Visconti fu indotto a negoziare la resa, cedendo ad interventi di parroco ed altri con la scusa che era meglio arrendersi a italiani che agli Alleati. Ma non sapeva di avere a che fare con "partigiani", cioè guerriglieri senza bandiera e senza disciplina; non si aveva a che fare con soldati, ma solo "feccia umana" rabbiosa, irresponsabile e largamente coperta e protetta sia dagli "Alleati" che dalle autorità italiane del Sud.
L'odio partigiano voleva cancellare l'ideale rappresentato dal 1 ° gruppo caccia che, dimostrando coraggio e amor di patria, seppe contrastare nei cieli, combattendo uno contro cento, i bombardieri nemici. In uno dei penultimi combattimenti aerei, il Magg. Visconti fu abbattuto, salvandosi con il paracadute. Certamente il Magg. Visconti avrebbe preferito morire in leale combattimento nei cieli che tanto amava; sicuramente non avrebbe mai dovuto cedere le armi a dei sanguinari fuorilegge che consideravano la "parola data" come carta straccia.








1946: MILANO - CIMITERO DEL MUSOCCO:
 MONUMENTO VOLUTO DAI COLLEGHI DI VISCONTI E STEFANINI
 OGGI SCOMPARSO









MILANO - CAMPO X - LA TOMBA
 
 
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DON TULLIO CALCAGNO
 
 
Don Tullio Calcagno nato Terni, 10 aprile 1899 ucciso a Milano, 29 aprile 1945
 
Nato da una famiglia povera di Terni il 10 aprile 1899, entrò in seminario all'età di 10 anni e nel 1924 divenne parroco nella città natale. Dal 1915 al 1918 lasciò il seminario perché venne arruolato nell'esercito durante la prima guerra mondiale.
Fu inizialmente contrario alla firma del Concordato del 1929 da parte della Santa Sede, ma in seguito cambiò idea ritenendo che la firma di questo patto avrebbe causato un risveglio della religiosità cattolica in tutto il mondo.
Si avvicinò al fascismo in occasione della Guerra in Etiopia, divenendo un grande sostenitore del regime italiano. Nel 1940 si schiera con i favorevoli alla guerra e nel giugno del 1943 pubblica senza approvazione ecclesiastica Guerra di Giustizia, libro all'insegna della fedeltà alla Patria e all'alleato tedesco, al di sopra di ogni contingenza.
La sua scelta politica finì con il metterlo in contrasto con la Santa Sede, soprattutto dopo l' armistizio di Cassibile e la nascita della Repubblica Sociale Italiana. La Convenzione di Ginevra vietava infatti agli stati neutrali, come la Santa Sede, di riconoscere una legittimità internazionale e diplomatica agli stati nati in occasione di conflitti bellici, come nel caso della RSI; Calcagno dissentiva con questa scelta, in realtà obbligata, e cominciò a distaccarsene nei comportamenti arrivando addirittura ad aderire alla RSI.
A partire da questa frattura con le autorità vaticane, iniziò a collaborare con riviste e quotidiani fascisti, come il Regime fascista, diretto allora dal gerarca Roberto Farinacci, segnalandosi subito per i suoi articoli molto aggressivi e attirandosi l'ostilità del vescovo di Cremona, Giovanni Cazzani, che esortò i fedeli a diffidare di lui e lo sospese a divinis. Ma Calcagno, sostenuto in questo da Farinacci, anche lui in forte contrasto con il vescovo di Cremona, rispose fondando nel 1944 un nuovo giornale fascista, ancora più polemico dell'altro, cioè la Crociata Italica
Dalle colonne del nuovo quotidiano, il sacerdote attaccò violentemente la politica della Santa Sede. Lo scontro divenne talmente aspro che Calcagno fondò un'associazione con lo stesso nome della testata che si proponeva l'obiettivo, radicale e velleitario, di un'imponente riforma della Chiesa cattolica che portasse alla creazione di una Chiesa cattolica autocefala, cioè indipendente da quella romana e con un primate italiano distinto dal papa: secondo lui, infatti, il sommo pontefice rivestiva un ruolo troppo universale per difendere adeguatamente gli interessi italiani.
Questo proponimento era troppo radicale per passare inosservato alle gerarchie cattoliche e il 24 marzo 1945, con il decisivo contributo dell'arcivescovo di Milano Ildefonso Schuster, don Tullio Calcagno fu scomunicato.
Un mese dopo circa fu fatto prigioniero da un gruppo di partigiani a Milano e fucilato a piazzale Susa. Trasportata su un carretto per la spazzatura, la salma fu inizialmente tumulata nel campo dei fucilati del Musocco, campo 10 detto anche "Campo dell'Onore" e poi fu in seguito traslata nel cimitero della sua città natale Terni.

Don Tullio Calcagno, il prete che andò a morire con Mussolini

di Francesco Lamendola 
Fonte: Arianna Editrice

C'è una sorpresa in serbo, per chi legga le memorie di Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano dal 1929 al 1954, anno della sua morte (e beatificato da Giovanni Paolo II nel 1996, dopo che la sua salma è stata trovata incorrotta), relative all'ultimo atto della Repubblica Sociale Italiana, nella primavera del 1945.
Il libro, intitolato «Gli ultimi tempi di un regime» (Milano, Editrice La Via, 1946) e pubblicato a caldo, pochi mesi dopo la fine della guerra, si apre e si chiude con il nome di un prete che, oggi, dice poco alla maggior parte dei lettori, ma non così in quella arroventata stagione che va dall'8 settembre del 1943 alla fine di aprile del 1945: quello di don Tullio Calcagno. O meglio, bisognerebbe dire: dell'ex prete Tullio Calcagno, dato che il 24 marzo 1945, un mese prima della sua tragica morte, egli aveva subito il più grave provvedimento coercitivo della Chiesa cattolica: la scomunica maggiore.
Nelle prime pagine del libro di Schuster, don Calcagno viene ricordato per via dei numerosi interventi dell'arcivescovo di Milano contro il prete umbro, contro il suo giornale «Crociata Italica» e contro il movimento cattolico dissidente che portava lo stesso nome. Nelle ultime, in cui si descrive il drammatico incontro fra Mussolini e i capi della Resistenza milanese - l'avvocato Achille Marazza, Riccardo Lombardi e il generale Raffaele Cadorna -, avvenuto nel Palazzo arcivescovile di Milano, in Piazza Fontana, il pomeriggio del 25 aprile 1945, si afferma che don Calcagno fu oggetto della conversazione privata fra il Duce e il prelato ambrosiano.
Poiché i rappresentanti del Comitato di Liberazione Nazionale erano in ritardo, Schuster invitò Mussolini ad accomodarsi nel suo salottino e questi, forse per rompere l'imbarazzo della situazione, di sua iniziativa disse di essere sempre stato leale difensore dei Patti Lateranensi e di non avere approvato gli eccessi di «Crociata Italica» e di don Calcagno. Schuster, che aveva invitato Mussolini a predisporsi a un duro periodo di prigionia o di esilio, lasciò cadere l'argomento, forse per evitare inutili discussioni, in quanto sapeva bene che Mussolini aveva in qualche misura incoraggiato l'attività di don Calcagno, anche se ora lo negava.
Ma chi era, dunque, questo prete onnipresente nei pensieri del cardinale Schuster e dello stesso Mussolini; questo prete scomodissimo, talmente fascista da risultare imbarazzante e quasi impresentabile per gli stessi «repubblichini»?
Sebbene oggi la sua memoria sia andata quasi perduta, negli anni fra il 1943 e il 1945 si trovò a svolgere una parte quasi da protagonista nel corrusco panorama della Repubblica Sociale, non solo per il suo instancabile zelo bellicista e antibritannico, nonché per il suo convinto antisemitismo, ma soprattutto per il fatto che, ad un certo punto, si mise alla testa di un movimento che imboccò la strada, se non dell'eresia dottrinale, certo dello scisma, in quanto fu l'ultimo tentativo di creare una Chiesa italiana autocefala ed autonoma rispetto al Vaticano, da lui giudicato troppo acquiescente verso il nemico, vale a dire verso le Potenze alleate.
Tentativo velleitario, senza dubbio, e sproporzionato alle sue possibilità e alle condizioni storiche e culturali del momento; e tuttavia abbastanza audace a abbastanza energico da coinvolgere, in un dato momento, frange non certo secondarie del clero e dei fedeli dell'Italia settentrionale, tanto da impensierire seriamente le alte sfere del Vaticano e specialmente il vescovo di Cremona, monsignor Cazzani, e, come già detto, l'arcivescovo di Milano.
Ma chi era questo prete così politicamente scorretto, da mandare in bestia vescovi e cardinali, e che era giunto ad impensierire seriamente lo stesso pontefice, in un momento storico in cui - si sarebbe detto - ben altre parevano le priorità, fra invasioni straniere, bombardamenti, fame, guerra civile e rappresaglie d'ogni genere?
Tullio Calcagno era nato a Terni, da una famiglia povera, il 10 aprile 1899; era entrato in seminario a dieci anni e a soli venticinque, nel 1924, era già divenuto sacerdote e parroco della cattedrale della sua città natale. Questa folgorante carriera, che desta ancora maggior stupore se si considera che per l'intera durata della prima guerra mondiale, dal 1915 al 1918, egli lasciò il seminario e venne arruolato nell'esercito (era uno dei gloriosi «ragazzi del '99», gli artefici del miracolo del Piave) ci mostra, di per sé, che doveva trattarsi di una persona tenace e intelligente, altrimenti non avrebbe fatto tanta strada, senza avere appoggi in alto loco.
La posizione di don Calcagno nei confronti del fascismo non è stata coerente ed uniforme, ma, al contrario, fu caratterizzata da una serie di oscillazioni. Il Concordato del 1929 lo vide decisamente critico; solo in seguito cambiò idea e si convinse che il fascismo avrebbe potuto costituire un valido sostegno per la Chiesa cattolica. Il suo era il punto di vista di un prete che provava una crescente simpatia per il regime, non quello di un fascista che, per caso, si fosse trovato ad indossare la tonaca sacerdotale.
Ma l'accostamento pieno e definitivo al fascismo, per don Calcagno, si colloca nel 1935-36, al tempo della guerra di Etiopia. In quell'evento, egli vide la prova che il regime di Mussolini poteva e voleva mettere la sua forza al servizio della causa cattolica, espandendo i confini spirituali della Chiesa di Roma (a dispetto del fatto che l'Impero di Hailé Selassié fosse, da tempo immemorabile, cristiano). E a quanti, ragionando con il senno di poi, trovassero strana una simile presa di posizione da parte di un sacerdote, giova ricordare che Calcagno non fu certo l'unico membro del clero italiano a giungere a quelle conclusioni; e che in prima fila, tra quanti plaudirono l'impresa etiopica e benedissero le bandiere dell'esercito invasore, c'era proprio quel cardinale Schuster che, una decina di anni dopo, avrebbe visto il parroco di Terni come il fumo negli occhi.
Cattolico fortemente conservatore, don Calcagno non disapprovò nemmeno la svolta anisemita del 1938, inaugurata dal regime con le leggi razziali; su questo punto, Schuster dissentì dal regime e pronunciò alcune omelie per condannare il razzismo. Tuttavia, a pensarla come don Calcagno erano in parecchi, questo bisogna dirlo per onestà intellettuale e per esattezza di ricostruzione storica. Nella Chiesa cattolica italiana, infatti, esisteva un antisemitismo religioso (non razziale, si badi) da antica data, che tuttavia non impedì alla Chiesa, nel suo complesso, di svolgere una funzione di difesa degli ebrei perseguitati, specialmente dopo la caduta del fascismo e l'occupazione tedesca dell'Italia, anche per una precisa volontà del pontefice Pio XII. 
E - sia detto fra parentesi - sarebbe ora di finirla con la sciocchezza del «colpevole silenzio» del papa circa la tragedia del genocidio degli Ebrei; perché è documentato che egli fece tutto quanto si poteva fare senza giungere ad una rottura irreparabile con il Terzo Reich, che avrebbe reso impossibile proseguire nell'opera silenziosa di soccorso ai perseguitati; mentre non si capisce perché un tale silenzio non venga mai imputato ai capi delle Potenze alleate - Roosevelt, Churchill e Stalin - i quali, come e assai più del papa, erano informati di quel che stesse realmente avvenendo nei campi di concentramento in Germania e in Polonia.
Ma torniamo a don Calcagno e alla sua adesione sempre più entusiastica al fascismo. Fautore dell'entrata in guerra a fianco della Germania, egli chiese di essere arruolato nell'esercito, ma non fu accontentato, sebbene la sua richiesta venisse pubblicata sul giornale di Roberto Farinacci, «Regime Fascista», aprendo un rapporto umano e una collaborazione politica fra il gerarca di Cremona e il battagliero parroco di Terni, che sarebbero proseguiti sino alla fine.
Convinto che la lotta contro le Potenze democratiche e contro l'Unione Sovietica corrispondesse ad alti ideali politici, sociali e religiosi, nel 1942 don Calcagno pubblica un libro, a sue spese, intitolato «Guerra di giustizia», il cui titolo è tutto un programma e ricorda da vicino le posizioni di un Berto Ricci e, in genere, del fascismo sociale. Ma in fondo, a ben guardare, quelle posizioni altro non sono che il naturale sviluppo di premesse culturali che risalgono a nobili e insospettabili precursori, per esempio il Pascoli de «La grande proletaria si è mossa»; per non parlare di certi inediti e significativi interventi di un marxista come Labriola a favore dell'espansione coloniale italiana.
Ad ogni modo, nel suo libro don Calcagno dava sfogo ai suoi violenti umori anticapitalisti ed anticomunisti, nonché a una certa irruenza di carattere, e si spingeva sino al punto di affermare che, se in guerra è lecito uccidere, allora è anche lecito odiare il nemico. Il ragionamento è rozzamente schematico e non quale ci si potrebbe aspettare da un ministro di Dio; d'altra parte, non si può negare a questo prete umbro l'aspra franchezza di un uomo che non ama le ipocrisie e che non sa parlare per mezze parole, ma che è uso gettarsi a capofitto, con ardente passione e, forse, con imprudenza, nell'arena politica, una volta che abbia fatto la sua scelta di campo e ne abbia tratto tutte le debite conseguenze, in un contesto di guerra.
L'autorità ecclesiastica, comunque, non apprezza né il libro, né il fatto che don Calcagno lo abbia pubblicato senza richiedere il necessario «nihil obstat»; ad essere un po' maliziosi, si può anche sospettare che quel libro crei qualche intralcio alla progressiva la presa di distanza del Vaticano dal regime, che, nei primi mesi del 1943, diviene più evidente (basta scorrere, per rendersene conto, la stampa cattolica del periodo, e specialmente i periodici diocesani). Dal 1943, infatti, la linea di politica estera del Vaticano pende ormai nettamente a favore dello schieramento alleato e contro l'Asse Roma-Berlino; e, a quel punto, come si potrebbe tollerare che un prete scriva un libro per definire «santa» la guerra intrapresa da Mussolini?
Don Calcagno viene convocato a Roma, davanti alla Congregazione del Santo Uffizio - vale a dire, l'Inquisizione - e, il 30 giugno 1943 , mentre l'invasione angloamericana della Sicilia è ormai alle porte, gli viene formalmente intimato di non occuparsi più di politica attiva e di restarsene buono, attendendo al proprio ministero spirituale.
I fatti del 25 luglio e, poi, dell'8 settembre, producono una scossa fortissima nell'animo di questo prete fascista che stravede per Mussolini e che giudica la sua caduta, e l'armistizio firmato con gli Alleati, il risultato di oscure manovre del re e di un gruppo di uomini politici traditori della causa nazionale. Di lui si può dire quel che si vuole, ma non che fosse un opportunista o un timido; perché, proprio all'indomani della resa dell'8 settembre, ha inizio il capitolo più drammatico e concitato della sua vita - l'ultimo -, caratterizzato da una foga istintiva che non conosce astuzie né compromessi e che va dritta verso l'inevitabile "redde rationem".
Dopo l'8 settembre don Calcagno scrive una seria di veementi articoli per bollare di tradimento il re e Badoglio e per esortare alla riscossa contro gli Alleati, al fianco della Germania: e, questa volta, incorre nella sospensione "a divinis" da parte del vescovo di Cremona, Giovanni Cozzani. A Cremona egli si è recato dopo aver lasciato Terni, mettendosi subito in contatto con Roberto Farinacci, per il quale scrive su «Regime fascista» e, poi, fonda un nuovo settimanale da lui stesso diretto, «Crociata Italica», finanziato dal ras della città, anche perché questi è nemico personale del vescovo.
Il primo numero di «Crociata Italica» esce il 9 gennaio 1944 e, in brevissimo tempo, il giornale arriva a tirare la bellezza di oltre 100.000 copie: cifra sbalorditiva, specie considerati i tempi, e che lo pone in testa alla classifica della stampa più letta della Repubblica Sociale Italiana. Ogni numero, costituito da quattro pagine, è accompagnato dalle foto delle chiese e degli edifici distrutti dai bombardamenti aerei alleati, nonché da ironici commenti nei confronti di questi sedicenti liberatori che stanno riducendo in polvere un intero patrimonio artistico e civile. Lo stile degli articoli è aspro e intransigente; si invoca fedeltà a oltranza verso l'alleato germanico e si ribadisce che la causa fascista repubblicana è giusta e santa.
I collaboratori del giornale sono di provenienza disparata; fra essi non mancano persone assolutamente sincere e in buona fede, animate da un autentico amor di Patria e dal desiderio di lavare la vergogna dell'8 settembre con uno soprassalto di orgoglio nazionale. Sono persone qualunque, che hanno tutto da perdere e nulla da guadagnare ad esporsi in quel modo, visto che ormai non occorre essere dei profeti per intuire che la guerra, per l'Asse, è perduta, e che giungere ad una durissima resa dei conti è solo questione di tempo.
Per avere un'idea dell'atmosfera di ingenuo entusiasmo e di nobile patriottismo che animava sicuramente almeno una parte dei collaboratori di «Crociata Italica», si può prendere ad esempio il caso di una giovane maestra cremonese, Marmilia Gatti Galasi, orfana di entrambi i genitori e con due sorelle da mantenere, di cui parla Giampaolo Pansa ne «La grande bugia» (Milano, Sperling & Kupfer, 2006, pp. 255-57):
«L'armistizio dell'8 settembre ebbe su di me un effetto devastante. Com'era possibile un tradimento così? E la fede alla parola data? E la lealtà che andavo raccomandando a scuola? In che modo li avrei spiegati ai miei alunni? L'Italia era in rovina. Come potevo non prendere posizione in modo aperto? Non avevo più genitori che mi suggerissero prudenza. Ero del tutto autonoma. La mia timidezza mi spingeva più a scrivere che a parlare.
Nel gennaio 1944 uscì a Cremona un settimanale, "Crociata Italica".Lo dirigeva un sacerdote, che nel novembre dell'anno precedente era stato sospeso a divinis, cioè interdetto a celebrare i sacramenti, per i suoi scritti sui giornali della Repubblica Sociale: don Tullio Calcagno. Quando lessi "Crociata Italica", mi decisi subito al grande passo: gli mandai un articolo scritto di getto, con il cuore. Era intitolato: "Parole ai maestri". Se lo rileggo oggi, mi meraviglio di me stessa. Ma avevo 23 anni, tanta rabbia dentro, e tanto amore per la mia Patria.
Don Calcagno lo pubblicò in prima pagina, con la mia firma. Il suo settimanale stava avendo molto successo: vendeva 100.000 copie. Anche al mio paese c'era chi lo comprava per entusiasmarsi e chi per criticarlo. Uno zio sacerdote, direttore di un seminario, arrivò di corsa per tirarmi le orecchie: "Che cosa ti è venuto in mente? Non pensi alle conseguenze per te e le tue sorelle? Promettimi che non lo farai più!". E io promisi.
Ma quante lettere di approvazione ricevetti! Il Provveditore agli studi mi convocò per propormi di cambiare sede: potevo insegnare in città o almeno nel mio paese. Rifiutai: non avevo scritto l'articolo per avere dei privilegi. Nel frattempo, don Calcagno mi sollecitava. Gli spedii un articolo, "Italia, Patria mia", denso di amore per la mia terra bella e infelice. Arrivò di nuovo lo zio sacerdote: "Non mi hai dato retta! Ripensaci. Devi farlo per le tue sorelle".
Tacqui per un po'. Poi consegnai a don Calcagno una poesia dedicata ad Aldo Bormida, il primo giovane soldato della Rsi caduto ad Anzio combattendo contro lo sbarco anglo-americano. Poi niente, mi pare. Ma in paese si cominciò a dire che scrivevo sui giornali fascisti. E qualcuno mi guardò male.
Nel settembre 1944, il ministro della Cultura popolare, Fernando Mezzasoma, mi convocò a Salò. Ci arrivai, dopo un lungo viaggio in bicicletta. Fatto assieme al segretario del fascio del mio paese: un brav'uomo, quasi sordo, con un piccolo negozio di alimentari. Ero una ragazza di campagna con le trecce sulle spalle, stanchissima, sudata, desiderosa soltanto di rientrare a casa. Che cosa poteva volere da me il ministro?
Mezzasoma mi offrì un incarico al ministero, per scrivere articoli come i due che avevo pubblicato su "Crociata Italica". Gli risposi: "No, grazie. Voglio tornare alla mia scuola in mezzo ai campi: è il mio mondo. Fui contenta quando ripresi la bicicletta e mi rimisi in viaggio. Qualche giorno dopo ricominciai a insegnare. Che felicità! I miei bambini erano davvero i più belli del mondo. Come potevo pensare di lasciarli? E invece ero destinata a perderli,.
Sette mesi dopo, alla fine della guerra, venni cacciata con un decreto: "Sospesa dall'insegnamento, senza stipendio, a tempo indeterminato". Era il 29 aprile 1945. Non sapevo che, in quello stesso giorno, don Calcagno era stato fucilato dai partigiani a Milano, insieme al cieco di guerra Carlo Borsani.»
Un poco alla volta, mano a mano che si fa più aspra la polemica con Cozzani e con Schuster, intervenuto a sua volta per mettere in guardia i fedeli contro il prete sospeso "a divinis", intorno al giornale «Crociata Italica» si forma un vero e proprio gruppo di dissidenza religiosa, che, pur non toccando questioni di natura dogmatica, tende a definirsi in senso scismatico.
Due sono i punti sui quali don Calcagno e i suoi seguaci concentrano i propri sforzi propagandistici: il riconoscimento della Repubblica Sociale da parte della Santa Sede, reso però impraticabile dalle norme del diritto internazionale, che vietano agli Stati neutrali - quale è il Vaticano - di riconoscere gli Stati sorti nel corso di un conflitto armato; e, in sfumato questo obiettivo, la costituzione di una Chiesa italiana distinta dalla Santa Sede, visto che il papa, per la sua posizione di capo spirituale dell'intera cristianità, non sembra in grado di interpretare il ruolo di capo effettivo della Chiesa italiana e di agire conformemente agli interessi nazionali.
In realtà, la vicenda di questo settimanale e del movimento ad esso collegato è la testimonianza di un problema reale e di un malessere ampiamente diffuso nel clero dell'Italia centro-settentrionale e fra numerosi cattolici. Qual è il vero e legittimo governo dell'Italia: il Regno del Sud di Vittorio Emanuele III, o quello della Repubblica Sociale di Mussolini? Da che parte stanno la legalità costituzionale e, soprattutto, la giustizia e la legittimità morale? Quale dei due incarna realmente gli interessi del popolo italiano e della Chiesa cattolica? E si tenga presente, per inquadrare adeguatamente tale problematica nel preciso contesto storico, che gli Alleati avevano appena portato a termine la distruzione a freddo di un secolare e glorioso monumento della cristianità, quale l'abbazia di Montecassino; che avevano più volte bombardato Roma, spargendo la morte tutto intorno alle maggiori basiliche del cattolicesimo; che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, nazioni protestanti, e l'Unione Sovietica, ufficialmente atea, non sembravano davvero potenze amiche della Chiesa.
Che il movimento di «Crociata Italica» impensierisse seriamente i vertici del cattolicesimo, lo testimonia il fatto che non solo il giornale dell'arcidiocesi di Milano, «L'Italia», scese in campo, insieme al cardinale Schuster, per denunciare la faziosità e la non validità del movimento, costruito intorno alla figura di un prete sospeso dalla funzione sacerdotale; ma la stessa cosa fecero anche l'arcivescovo di Torino, Maurilio Fossati, e il patriarca di Venezia, Cardinale Piazza.
Don Calcagno, di tanto in tanto, mostrava segni di pentimento e chiedeva il perdono delle alte gerarchie; poi, bruscamente, di nuovo si irrigidiva sulle proprie posizioni, in una altalena che ad alcuni parve il frutto di una sapiente strategia. Sia come sia, è certo che il direttore di «Crociata Italica» aveva pochi amici anche nella Repubblica Sociale, e che molti fascisti diffidavano di lui e del suo estremismo. In pratica, il suo solo appoggio era costituito da Roberto Farinacci. Mussolini, che lo ricevette nella primavera del 1944, pare gli abbia confermato il suo sostegno, ma questo doveva essere poco convinto se, ancora nell'imminenza della fine, il Duce si scuserà con Schuster degli «eccessi» di don Calcagno.
Comunque, il 24 marzo 1945 la Santa Sede emette un decreto di scomunica che, insieme al precipitare della situazione militare, con il crollo repentino della Linea Gotica, segna la fine sia del settimanale, sia del movimento dei «crociati». 
Don Calcagno si rifugia a Crema, dapprima in casa di amici, poi nel Seminario Comboniano, con il consenso del vescovo di quella città. Scoperto dai partigiani, è arrestato e tradotto a Milano, nei sotterranei del Palazzo di Giustizia, la sera del 27 aprile. Sottoposto a processo sommario davanti a un sedicente Tribunale del popolo, il 29 è condannato a morte e fucilato a Piazzale Susa, insieme alla medaglia d'oro Carlo Borsani. Negli ultimi istanti ha chiesto i conforti religiosi, ma non vi è stato il tempo di somministrarglieli. Il suo cadavere viene trasportato, sopra una carretta della spazzatura, presso il campo dei fucilati del Musocco, e solo più tardi verrà traslato nel cimitero di Terni, la sua città natale.
Vale la pena di ricordare che non si è trattato di una rappresaglia isolata. Anche altri sacerdoti, specialmente cappellani militari, hanno subito un destino analogo, al momento della resa dei conti, a causa della loro fedeltà alla Repubblica Sociale. Fra essi possiamo ricordare Luigi Manfredi, Dante Mattioli, Aldemiro Corsi e Sperindio Bolognesi, parroci di alcuni paesi in provincia di Reggio Emilia; don Edmondo De Amicis, don Sigismondo Damiani e don Crisostomo Ceragiolo, cappellani militari. 
La tragica fine di don Calcagno è stata rievocata da Carlo Borsani jr nel suo libro dedicato alla vicenda del padre, medaglia d'oro al valor militare, cieco e presidente dell'Associazione mutilati durante la Repubblica Sociale Italiana: «Carlo Borsani. Una vita per un sogno (1917-1945)» (Milano, Mursia, 1995, pp. 24, 28-29):
«Quella sera un nuovo personaggio si aggiunge ai prigionieri: è don Tullio Calcagno che a Cremona, nella tipografia di Roberto Farinacci, stampava "Crociata Italica", un settimanale attorno al quale riuniva quei sacerdoti che avevamo aderito al fascismo repubblicano. 
I detenuti, molti dei quali temono di venir condannati a morte, gli chiedono la benedizione e l'assoluzione, ma don Calcagno, che è stato spretato, allarga mestamente le braccia: "A me non spetta benedire, spetta soltanto a Dio". Poi si siede acanto a Borsani: "Sei un cieco di guerra, una medaglia d'oro e sono sicuro che Schuster ti farà liberare". Ma Borsani non possiede la stessa certezza e ha già accettato il suo destino. […]
Alle cinque del pomeriggio cinque individui, mai identificati esattamente, si presentano al palazzo di Giustizia con documenti del CLNAI che li autorizzano a prelevare Borsani per trasferirlo "in altro luogo".
Invano il maggiore Bertòli si fa avanti offrendosi d'accompagnarlo. Alla sua proposta di poterlo fornire, almeno, di alcuni effetti personali, i partigiani rispondono che "dove va lui non servono". Fanno salire il prigioniero su un camioncino e lo portano, assieme a don Tullio Calcagno, nelle scuole di viale Romagna, vicinissime a via Fucini, dove Borsani aveva consumato l'ultimo pasto coi propri cari. 
Qui è in azione un "tribunale del popolo" che sottopone a un processo sommario i due "criminali di guerra" e, tra le urla e gli insulti di una folla scatenata, li condanna a morte, Borsani e don Calcagno vengono caricati nuovamente sul camioncino, che percorre poche decine di metri di un largo viale dritto, alberato, per fermarsi in piazzale Susa.
"Fine corsa, scendere!", urla una voce sarcastica. Borsani sente sulla schiena una mano che lo spinge verso il nulla e dei passi che s'allontanano, bacia la prima scarpetta della figlia Raffaella, che teneva stretta in pugno, alza gli occhi al sole e grida: "Viva l'Italia!".
Don Tullio Calcagno fa in tempo a dargli l'assoluzione "in extremis"; poi, a sua volta, viene assassinato.
È una domenica limpida e tiepida, la guerra è finita, l'aria sa di primavera. I milanesi oggi non vanno di fretta, passeggiano quietamente. Al centro della strada alcuni uomini col fazzoletto rosso al collo spingono un carretto della spazzatura su cui hanno caricato un cadavere. Sul petto gli hanno messo un cartello: "Ex medaglia d'oro". Molti abbassano gli occhi, fingono di non vedere, altri battono le mani, salutano col pugno chiuso quel macabro corteo funebre.»
padre Blandino della Croce, collaboratore di don Calcagno a Crociata Italica




UN FRANCESCANO PER LA CROCIATA ITALICA

DON TULLIO CALCAGNO E «CROCIATA ITALICA»
Coscienza del Vangelo e fedeltà ai valori della Patria sono i canoni morali su cui la forte idealità di don Tullio Calcagno fece leva per aprirsi al calvario 1943-45, lungo l'ascesa del quale la sua Fede cattolica e il suo amore per l'Italia furono perseguitati senza pietà, mai riuscendo però, ad indebolire la virile temerarietà della sua missione.
Il dramma degli eventi politico-militari dell'estate 1943 colsero don Calcagno in Umbria, dove era parroco della cattedrale di Terni e mentre sull'antica Interamna, trasformata dal Fascismo in grande centro industriale, i bombardieri anglo-statunitensi della Raf e dell'Usaf rovesciarono morte e distruzione. Dinanzi a così grave scempio morale e materiale, il parroco della cattedrale ternana, sentendo nell'animo la rudezza di Bernardino da Siena e conservando la mitezza di Francesco d'Assisi, si aprì alla focosità di Domenico da Guzmàn con la robustezza di fede appartenente ad Ignazio di Loyola, divenne testardo come G. Galilei di fronte al Sant'Uffizio e non si arrese ai messi papali quanto Gerolamo Savonarola, lasciò la città bagnata dal Nera e salì nella Valle Padana per trovare a Cremona - dove l'armonia dei liutai Amati, Guarnieri e Stradivari era salita in cielo più del Torrazzo - il fulgore coerentemente innovativo di Roberto Farinacci, l'incisività critica del quotidiano Il Regime Fascista, l'ardore combattivo delle Schutzstaffeln italiane per la realizzazione costruttiva ed operosa dei punti fondamentali del Pfr, sincronizzati nel «Manifesto di Verona». E qui, dopo la notte dei tradimenti, respingendo la materialità del comodo imboscamento, don Calcagno dà vita al settimanale più intrepido di religiosità e patriottismo e Crociata Italica si aprì anche all'assidua collaborazione dei Cappellani volontari della Rsi. E’ vero che per la continua incisività di Crociata Italica e per le relazioni settarie inoltrate alla Santa Sede dalla Curia cremonese e di Milano, presto don Calcagno venne sospeso «a divinis» da Bolla pontificia, ma è doveroso rammentare che il sacerdote di Terni non dissentì mai con il Pontefice Pio XII in materia di Fede, ma con il Sant'Uffizio che, appellandosi al Codice Canonico esigeva l'astensione di questo religioso dall'esercizio giornalistico della politica, mentre in quel tempo - tra i cortei schiamazzanti al seguito degli invasori «alleati» dove erano riusciti ad arrivare - si evidenziavano sempre più molti preti che, con il fazzoletto rosso al collo... celebravano la cosiddetta liberazione, cantando Bandiera rossa con i «fratelli» partigiani comunisti e alzando il braccio sinistro in alto e con il pugno della mano ben chiuso. Anticipavano di cinquant'anni l'attuale «passione» filomarxista di molti, troppi prelati altolocati.
Quando nell'aprile '45 pervenne il tracollo militare, il massacro di Dongo, il ludibrio di piazzale Loreto e la carneficina spietata di fascisti o presunti tali, nessuno dei monsignori estensori delle relazioni per la sospensione del sacerdote-direttore di Crociata Italica nutrì un po' di pietas almeno latina per impedire che venisse trascinato da Crema al carcere di San Vittore a Milano e poi buttato in piazzale Susa per rabbiosa fucilazione. Troppi non capivano che, come Petrarca, don Calcagno - in politica seppe scrivere «per ver dire, non per odio d'altrui, né per disprezzo».


FRANCESCO DAVOLIO MARANI

è medico condotto a Fabbrico (Reggio Emilia), dove è amato e stimato prima che la guerra porti la divisione fra gli italiani che desiderano la vittoria e gli italiani che, per una ragione o per un'altra, desiderano la sconfitta della Patria. Nella zona dove il dottor Francesco esercita la sua professione i più desiderano la sconfitta per il trionfo del comunismo. Il bravo e buon medico è più d'ogni altro a contatto con la popolazione e si rende conto perfettamente della realtà delle cose: ma non per questo muta la sua linea di condotta. A qualche amico che lo consiglia di modificare le sue idee e seguire l'andazzo, dice apertamente: "Io sono vecchio e debbo dare esempio di rettitudine: non condanno e non rimprovero nessuno: ma per conto mio non voglio nascondere quella che a me sembra la verità e il bene della Patria". Dopo poche settimane, precisamente il pomeriggio di un giovedì (25 maggio), mentre fa il suo giro per le visite agli ammalati, estasiato dalla festa della natura tanto in contrasto con l'umanità che si dilania ferocemente, viene ucciso con un colpo di fucile da un assassino appostato, che poi menerà vanto del misfatto. Questo resta pressoché ignorato per settimane. Crociata Italica solo il 26 giugno darà in prima pagina la dolorosa notizia, pubblicando un suo profilo e la fotografia.
Nel gennaio precedente il dottor Davolio Marani aveva scritto a don Calcagno per rallegrarsi con lui e invitarlo, come facevano tanti altri lettori, ivi compresi non pochi sacerdoti, a trasformare il periodico in quotidiano.

 
"Molto Rev. Don Tullio Calcagno,
molti anni or sono, a scuola imparai che la civiltà europea consiste essenzialmente di tre elementi: "romanesismo, cristianesimo e germanesimo". Crociata Italica difende questa nostra vita dell'anima: perciò trasformatelo in quotidiano. Secondo il voto del fratello in Francesco d'Assisi - il più italiano dei santi, il più santo degli italiani - sarà il vessillo della nostra rinascita, per la riconquista di quei valori morali senza i quali qualsiasi popolo precipita in un gregge animale.
Questo in tesi generale. In particolare poi, dallo stretto punto di vista italiano, il vostro e nostro giornale esprime in modo completo e perfetto quella vita totale religiosa e militare, civile e morale, che unica e sola può dare la personalità e la vita ad un popolo. In questo senso il nostro giornale, trasformato in quotidiano nel tempo più breve possibile, diventerà il giornale fondamentale d'Italia perché creerà finalmente quella fusione tra le forze religiose e militari. Allora soltanto sarà una realtà vera, profonda ed assoluta la Conciliazione italiana fra lo Stato e la Chiesa. Allora soltanto l'Italia cattolica, apostolica, romana potrà dire la sua parola chiarifica-trice su dò che si deve intendere per religione nella vita pratica, quotidiana dei popoli in pace e in guerra. Vostro devoto lettore e propagandista.
Dr. Francesco Davolio Marani
P. S. Vi mando per cartolina vaglia una piccola somma come testimonianza della necessità assoluta della vostra rapida trasformazione in quotidiano. Non mi abbono perché credo di ricevere il giornale con maggior sicurezza per mezzo del rivenditore.














Venezia Teatro La Fenice inverno 1944-45: Don Tullio Calcagno




Rapporto del Prefetto di Milano al Ministero dell’Interno circa l’attività del settimanale
“Crociata Italica” e del gruppo che vi faceva riferimento
 
 
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