martedì 30 gennaio 2018

QUELLA DOMENICA DI SANGUE DEL 30 GENNAIO 1972


 
30 GENNAIO 1972 : 46 ANNI SENZA GIUSTIZIA


 Doveva essere una manifestazione a sostegno dei detenuti irlandesi internati nelle carceri britanniche, contro una legge approvata dal ministro degli interni secondo cui gli irlandesi anche se solo sospettati di legami con l'ira potevano essere arrestati senza processo e internati per un tempo illimitato.Le cronache dell'epoca ci riferiscono di un numero ...di partecipanti alla manifestazione tra le 20.000 e le 30.000 persone per una città che al giorno d'oggi ne fa circa 85.000. I soldati del primo battaglione paracadutisti dell'esercito britannico , comandati dal colonnello Wilford , ricevettero l'ordine di disperdere la folla, il passo fu breve. I soldati aprirono il fuoco in maniera insensata sotto gli occhi di giornalisti e fotoreporter. Ventisei persone vennero colpite,in tredici morirono sul campo,una morì alcuni giorni dopo in ospedale per le ferite riportate, cinque di queste vennero colpite alla schiena mentre scappavano. Il 30 Gennaio 1972 per molti irlandesi segnò il punto di non ritorno. Troppi giovani uccisi a sangue freddo ( otto avevano meno di 23 anni ) , qualche padre che non sarebbe mai più tornato dai propri figli, in molti sventolavano un fazzoletto bianco prima di essere giustiziati. Ne segui' un tentativo di diffamare la manifestazione e le vittime accusandole di essere armate e di aver iniziato il conflitto per primi. Le foto della stampa dell'epoca smentirono le accuse : ERANO TUTTI DISARMATI .Dopo 46 anni di scuse, insabbiature,finte promesse e commemorazioni ancora NESSUNO ha avuto giustizia.
 

 
In memoria delle vittime della strage
 
L'immagine può contenere: 3 persone, spazio all'aperto
 
John (Jackie) Duddy (17): Ucciso con un colpo al petto nel parcheggio dei Rossville Flats (un complesso di palazzi di edilizia popolare in Rossville Street). Quattro testimoni affermarono che Duddy era disarmato e stava scappando dal reggimento di paracadutisti quando fu ucciso. Tre di loro videro un soldato prendere attentamente la mira sul ragazzo mentre correva. Era zio del pugile irlandese John Duddy.
Patrick Joseph Doherty (31): Ucciso da un colpo alle spalle mentre tentava furtivamente di mettersi al riparo nella spiazzo antistante i condomini di Rossville. Doherty fu fotografato ripetutamente dal giornalista francese Gilles Peress sia prima che dopo la sua morte. Nonostante la testimonianza del "Soldato F" che fece fuoco sull'uomo, perché a sua detta teneva in mano una pistola e stava sparando, fu constatato che le fotografie ritraevano Doherty disarmato, e i test forensi sulla sua mano per verificare resti di polvere da sparo diedero esito negativo.
Bernard McGuigan (41): Ucciso da un colpo alla nuca dopo che era andato a soccorrere Patrick Doherty. Aveva sventolato un fazzoletto bianco al soldato per indicare le sue intenzioni pacifiche.
Hugh Pious Gilmour (17): Ucciso da un proiettile che colpì il gomito entrando poi nel petto, mentre scappava dal reggimento paracadutisti in Rossville Street. Fu constatato che una fotografia scattata alcuni secondi dopo l'uccisione di Gilmour, lo mostrava disarmato, e i test per i residui di polvere da sparo diedero esito negativo.
Kevin McElhinney (17): Colpito alle spalle mentre tentava di mettersi al riparo all'entrata dei Rossville Flats. Due testimoni affermarono che McElhinney era disarmato.
Michael Gerald Kelly (17): Colpito allo stomaco mentre si trovava vicino alla barricata dei Rossville Flats. Fu constatato che Kelly era disarmato.
John Pius Young (17): Colpito alla testa mentre si trovava vicino alla barricata dei Rossville Flats. Due testimoni affermarono che era disarmato.
William Noel Nash (19): Colpito al petto vicino alla barricata. Testimoni hanno affermato che Nash era disarmato e stava correndo in soccorso di un altro mentre fu ucciso.
Michael M. McDaid (20): Colpito in faccia quando si trovava vicino alla barricata mentre si stava allontanando dai paracadutisti. La traiettoria del proiettile indicava che potrebbe essere stato ucciso dai soldati appostati sulle mura di Derry.
James Joseph Wray (22): Ferito e poi colpito nuovamente da vicino mentre si trovava a terra. Alcuni testimoni, che non furono chiamati dalla commissione d'inchiesta di Widgery, hanno affermato che Wray stava gridando che non riusciva a muovere le gambe, prima di venire colpito la seconda volta.
Gerald Donaghy (17): Colpito allo stomaco mentre tentava di scappare al sicuro verso Glenfada Park e Abbey Park. Donaghy fu portato in una casa vicina dove fu visitato da un medico. Le sue tasche vennero svuotate per poterlo identificare: una fotografia della polizia fatta più tardi del corpo di Donaghy mostrava bombe a mano nelle sue tasche. Né quelli che cercarono nelle sue tasche nella casa, né il medico ufficiale dell'esercito britannico (Soldato 138) che dichiarò la sua morte, dissero di aver trovato ordigni tra i suoi indumenti. Donaghy era membro di Fianna Éireann, un movimento giovanile repubblicano legato all'IRA. Paddy Ward, che depose all'Inchiesta Saville, affermò che aveva dato due bombe a mano a Donaghy alcune ore prima che fosse ucciso.
 
Gerald (James) McKinney (34): Ucciso subito dopo Gerald Donaghy. Testimoni affermarono che McKinney stava correndo dietro Donaghy e che si fermò alzando le mani gridando "Don't shoot! Don't shoot!" ("Non sparate! Non sparate!"), quando vide Donaghy cadere; venne quindi colpito al petto.
William Anthony McKinney (27): Colpito alle spalle mentre cercava di soccorrere Gerald McKinney (con cui, nonostante avessero il medesimo cognome, non aveva gradi di parentela).
John Johnston (59): Colpito alla gamba e alla spalla sinistra in William Street 15 minuti prima che iniziasse la sparatoria. Johnston non prendeva parte alla marcia, ma stava andando a trovare un amico a Glenfada Park. Morì 4 mesi e mezzo più tardi. La sua morte fu attribuita alle ferite riportate quel giorno: fu l'unico a non morire immediatamente quel giorno, nonché la vittima meno giovane.
 
FONTE: https://www.facebook.com/associazioneculturalefreederry/


VINCITORE BECCHI

  
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domenica 14 gennaio 2018

TIRANNIDE A NORIMBERGA

E CHI SCRIVE E'UN ANARCHICO AMERICANO

DI PAUL CRAIG ROBERTS

Il  simulacro di processo in Norimberga contro un gruppo in qualche modo arbitrario di 21 nazisti superstiti nel 1945-46 è stato uno spettacolo orchestrato dal giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti Robert Jackson, che era il procuratore capo. Poiché sono stato per lungo tempo ammiratore di Jackson, ho sempre pensato che avesse fatto un buon lavoro.

La mia ammirazione per Jackson viene dalla sua difesa della legge come scudo del Popolo piuttosto che come arma nelle mani del governo e dal suo sostegno al principio giuridico conosciuto come “Mens Rea”; ovvero un delitto (per essere considerato tale-N.d.T.) richiede la volontarietà. Cito sovente  Jackson per la sua difesa di questi principi giuridici che sono il fondamento stesso della libertà. In effetti ho citato Jackson nella mia recente cronaca del 31 luglio. La sua difesa della legge come controllo sui poteri del governo gioca un ruolo centrale nel libro che ho scritto con Lawrence Stratton, “La tirannia delle buone intenzioni”.
Nel 1940 Jackson era procuratore generale degli Stati Uniti. In una sua comunicazione ai procuratori federali li metteva in guardia contro l’idea di “scegliere un uomo e poi mettere gli investigatori al lavoro, per accollargli un reato”.  È in questo ambito -nel quale il procuratore sceglie una persona che non gli sta gradita o che vuole mettere in difficoltà, o seleziona un gruppo di persone impopolari e poi cerca un reato (da affibbiargli- N.d.T.) – che c’è il più grande rischio di abuso di potere nel corso di un’indagine giudiziaria. È qui che l’applicazione della legge diventa un affare personale, è qui che il  crimine effettivo diventa il fatto di essere impopolare all’interno del gruppo dominante o di potere, o il fatto di essere collegato a delle cattive opinioni politiche o di essere personalmente sgradito o antipatico allo stesso procuratore.
Tempo dopo, come giudice della Corte Suprema, Jackson ha ribaltato la sentenza di condanna comminata da un tribunale di grado inferiore contro una persona che non aveva idea, o alcuna ragione, di credere che avesse commesso un crimine.

Dopo aver finito di leggere il libro di David Irving “Norimberga”,  del 1996, sono stato distrutto dal venire a sapere che durante il suo lavoro di procuratore nel processo di Norimberga  Jackson ha violato tutti i principi giuridici per i quali io l’avevo ammirato per così lungo tempo. Per essere chiari, a Norimberga, Jackson perseguiva dei nazisti, ma non era che un mezzo per raggiungere un fine: stabilire il principio giuridico internazionale che cominciare una guerra, dare inizio a un’aggressione militare, era un crimine.
•    Il problema certamente era che a Norimberga gli imputati sono stati giudicati in  base a una legge promulgata dopo lo svolgersi dei fatti, che non esisteva al momento delle azioni per le quali erano stati condannati.
•    Inoltre la pena -morte per impiccagione- è stata decisa prima del processo e prima che si scegliessero gli accusati.
•    Inoltre gli accusati sono stati scelti e poi si è condotta un’inchiesta a loro carico.
•    Le prove a discarico sono state rifiutate. Le accuse per le quali gli accusati sono stati condannati si sono rivelate false.
•    Il processo è stato talmente sbilanciato a favore del procuratore dell’accusa, che la difesa era un pro forma.
•    Gli accusati sono stati maltrattati ed alcuni sono stati torturati.
•    Gli accusati sono stati incoraggiati a rendere delle testimonianze false gli uni contro gli altri, cosa che la maggior parte di essi ha rifiutato di fare, salvo Albert Speer che è stato l’unico ad accettare, in cambio di una condanna alla prigione e non alla pena di morte.
•    Le mogli e i figli degli accusati sono stati arrestati ed imprigionati. C’è da dire a favore di Jackson che questo lo ha fatto infuriare.

Il Presidente Franklin D Roosevelt, il generale Eisenhower e Winston Churchill pensavano che i nazisti sopravvissuti avrebbero dovuto essere fucilati senza processo. Roosevelt ha riso parlando di liquidare 50.000 ufficiali dell’Armata tedesca. Eisenhower ha dichiarato a lord Halifax che i dirigenti nazisti dovevano essere fucilati come se stessero tentando la fuga, l’eufemismo comune per l’assassinio. I Russi hanno parlato di castrare i tedeschi e di mettere incinte le donne tedesche per annichilire la razza tedesca. Il segretario americano al Tesoro Henry Morgenthau voleva ridurre la Germania a una società agricola e mandare dei tedeschi validi in Africa come schiavi per lavorare su un grande progetto di infrastrutture.

Robert Jackson ha visto in queste intenzioni non soltanto una criminalità di classe tra i dirigenti alleati ma anche l’occasione mancata di creare un principio giuridico che criminalizzasse la guerra, ed eliminasse quindi la catastrofe della guerra dalla storia futura. L’obiettivo di Jackson era certamente ammirevole, ma i mezzi richiedevano di aggirare i princìpi giuridici americani.

Jackson ha avuto la sua opportunità, forse perché Joseph Stalin ha messo il veto ad un’ esecuzione senza processo . Piuttosto un falso processo, ha dichiarato Stalin, per dimostrare la loro colpevolezza in modo di non fare di questi nazisti dei martiri.

Come è stata scelta la lista delle 21 o 22 persone da portare in giudizio? Ebbene sono stati scelti quelli che gli Alleati avevano in prigione! Non tutti quelli che avrebbero voluto.
Avevano il maresciallo del Reich Hermann Göring che comandava l’Aviazione. Quali che siano le accuse valide contro Göring, non sono stati considerati come attenuanti il fatto che al comando di Göring l’aviazione tedesca sia stata utilizzata principalmente contro delle formazioni nemiche sul campo di battaglia e non, come (hanno fatto) le forze aeree americane e inglesi, per dei bombardamenti massicci per terrorizzare gli abitanti di città civili come Dresda, Tokyo, Hiroshima, e Nagasaki, e neppure il fatto che nell’ultimo periodo Hitler avesse ritirato tutti gli incarichi a Göring, lo avesse  espulso dal partito e avesse ordinato il suo arresto.

Il processo di Norimberga risulta paradossale per il fatto che la legge che Jackson aveva intenzione di consolidare doveva applicarsi a tutti i paesi e non solo alla Germania. La legge “ex post-facto” (promulgata dopo gli avvenimenti da giudicare – N.d.T.) in virtù della quale i tedeschi sono stati condannati a morte e al carcere ha qualificato come ugualmente criminali i bombardamenti massicci delle città tedesche e giapponesi da parte delle forze aeree britanniche e americane. Però la legge non è stata applicata altro che ai tedeschi che erano nella gabbia degli accusati.
Nel suo libro “Apocalisse 1945 : La distruzione di Dresda” (1995), Irving cita la dissidenza del generale americano George MacDonald riguardante la direttiva che prescriveva di bombardare delle città di civili come Dresda. Il generale McDonald’s ha qualificato la direttiva di  “sterminare le popolazioni e distruggere le città” come un crimine di guerra secondo le norme di Norimberga.
Avevano il ministro degli affari esteri Ribbentrop. Avevano i marescialli Keitel e Jodl e gli ammiragli Raeder e Dönitz. Avevano un banchiere tedesco, Hjalmar Schacht che è stato salvato dall’esecuzione della condanna per l’intervento della Banca d’Inghilterra. Poi avevano un giornalista. E avevano Rudolf Hess che era in una prigione britannica dal 1941 quando era andato in Gran Bretagna con una missione di pace per mettere fine alla guerra. Volevano un industriale, ma  Krupp era troppo vecchio e malato. Mancava l’incarnazione del Diavolo. Potete leggere la lista completa nel libro di Irving.
Göring sapeva fin dall’inizio che il processo era una beffa e che la sua pena di morte era già stata decisa. Per tutto il tempo della sua detenzione aveva i mezzi per suicidarsi (una capsula di veleno), e avrebbe così privato i suoi carcerieri della umiliazione da loro pianificata. Invece ha tenuto insieme gli accusati tedeschi, ed essi sono rimasti “in piedi” (hanno conservato un atteggiamento dignitoso-N.d.T.). Col suo elevato quoziente di intelligenza ogni tanto ha fatto apparire i suoi carcerieri come degli imbecilli. Si è talmente preso gioco di Robert Jackson durante il processo che tutta la Corte è scoppiata a ridere. Jackson non ha mai digerito il fatto di essere ridicolizzato nell’aula del tribunale da Göring.

Göring non si è accontentato di far passare i suoi carcerieri per delle persone stupide e  incompetenti. Lui, i generali e gli ammiragli,  hanno chiesto un’esecuzione militare nella forma giusta e dovuta, ma per meschinità, il Tribunale voleva vederli  impiccati. Göring ha detto ai suoi carcerieri che avrebbe permesso loro di fucilarlo, ma che non l’avrebbero impiccato e qualche minuto prima che lo mettessero sulla forca davanti alla stampa riunita e alle macchine da presa, ha preso la capsula di veleno accelerando lo spettacolo propagandistico della sua esecuzione. A questo danno ne ha aggiunto un altro, lasciando al comandante della prigione, il colonnello Andrus, un appunto che gli comunicava che aveva avuto tre pillole. Una che ha lasciato agli americani perché la trovassero, per permettere loro di riflettere sul fatto che il suo mezzo per sfuggire era passato loro sotto il naso. Un’altra che ha preso alcuni minuti prima dello spettacolo della sua esecuzione e ha spiegato dove trovare la terza. Aveva facilmente aggirato le perquisizioni regolari e approfondite che gli erano state inflitte per tema del suo suicidio e per paura che potesse sottrarsi all’utilizzazione della sua esecuzione prevista dalla propaganda.

C’è stato un tempo della legge anglo-americana durante il quale le irregolarità del processo di Norimberga avrebbero avuto come conseguenza la ricusazione dei giudici e la liberazione degli accusati. Anche in forza di quella legge  “ex post facto” e dei termini extra- giudiziali ed extra legali in virtù dei quali sono stati giudicati gli accusati, almeno due delle persone condannate avrebbero meritato di essere liberate.

Non è chiaro perché l’ammiraglio Dönitz sia stato condannato a 10 anni di prigione. Il principale giudice americano del Tribunale ha dichiarato:” è a mio avviso un’offesa al nostro concetto di giustizia punire un uomo che ha fatto esattamente quello che abbiamo fatto anche noi. I tedeschi hanno fatto sul mare una guerra molto più pulita della nostra.”

Jodl, che aveva annullato molti ordini nazisti, è stato condannato a morte. L’ingiustizia della sentenza è stata definita  da un tribunale tedesco del 1953 che ha cancellato tutte le accuse fatte a Norimberga e a titolo postumo l’ha riabilitato. I giudici francesi del Tribunale di Norimberga all’epoca hanno dichiarato che la condanna di Jodl era senza fondamento e costituiva un errore giudiziario.

Tutto il processo di Norimberga puzza di scandalo. Gli imputati sono stati accusati per l’invasione tedesca della Norvegia. Ciò che è stato escluso dal processo è che gl’Inglesi stavano per invadere loro la Norvegia, e i tedeschi più efficienti, l’hanno saputo e sono riusciti ad invaderla per primi.

Gli accusati sono stati riconosciuti colpevoli di utilizzare il lavoro di schiavi, cosa paradossale se si  pensa alle pratiche abituali nel sistema sovietico. Inoltre, mentre il processo era in corso, i Sovietici hanno apparentemente radunato dei Tedeschi in forze perché servissero da schiavi per ricostruire la loro economia devastata dalla guerra.

Gli accusati sono stati riconosciuti colpevoli di esecuzioni di massa nonostante che  i Russi che facevano parte dell’accusa e del collegio dei giudici avessero trucidato 15.000 o 20.000 ufficiali polacchi e li avessero seppelliti in  una fossa comune. In effetti i russi hanno insistito  ad accusare i tedeschi durante il processo per il massacro della Foresta di Katyn. (1)

Gli accusati sono stati riconosciuti colpevoli di aggressione alla Polonia, ma Ribbentrop non è stato autorizzato a menzionare nella sua difesa il Patto Molotov-Ribbentrop che divideva la Polonia tra  la Germania e l’Unione Sovietica e senza di questo la Germania non avrebbe potuto invadere la Polonia. Il fatto è che i sovietici che erano giudici a Norimberga contro i tedeschi, avevano anche loro invaso la Polonia.

In più senza la copertura britannica concessa a poco prezzo alla Polonia, la dittatura militare polacca avrebbe probabilmente accettato di restituire i territori sottratti alla Germania con il trattato di Versailles e l’invasione avrebbe potuto essere evitata.

La più grande ipocrisia è stata l’accusa di aggressione alla Germania mentre i fatti indicano che la seconda guerra mondiale è cominciata quando gli Inglesi  e i Francesi hanno dichiarato guerra alla Germania. La Germania Ha conquistato la Francia e ha spinto gli Inglesi fuori dal continente europeo dopo che gli Inglesi  e i Francesi ebbero cominciato la guerra con una dichiarazione di ostilità contro la Germania.

Il libro di Irving evidentemente è politicamente scorretto. Tuttavia egli enumera nell’introduzione le fonti voluminose alle quali si appoggia l’opera: i documenti ufficiali di Robert Jackson e la storia verbale, i documenti ed i diari privati di Francis Biddle, i diari del colonnello Andrus, dell’ammiraglio Reder, di Rudolf Hess, gli interrogatori dei prigionieri, i colloqui con gli avvocati della difesa, con i procuratori, gli interrogatori e le lettere dei prigionieri alle loro mogli. Questo e molto altro è stato messo a disposizione da Irving su dei microfilm per i ricercatori. Ha comparato le copie dei nastri di registrazione originali del processo con le trascrizioni su carta e le trascrizioni pubblicate per essere sicuro che le parole pronunciate e quelle pubblicate fossero le stesse.

Quello che Irving fa nel suo libro è di riportare la storia raccontata dai documenti. Questa storia è diversa dalla propaganda patriottica scritta dagli storici di parte della quale noi siamo tutti impregnati. E ci pone la domanda: Irving è a favore della verità o a favore dei nazisti? Il governo nazionalsocialista tedesco è il governo più diabolico della storia. Qualunque riduzione della diabolicità è inaccettabile, dunque Irving è passibile di demonizzazione da parte di quelli che sono determinati a proteggere le loro incrollabili certezze.

I sionisti hanno bollato Irving come negazionista dell’Olocausto, è stato riconosciuto colpevole di questa accusa da un tribunale austriaco e ha passato 14 mesi in prigione prima che la condanna venisse cancellata da un tribunale di grado superiore.
Nel suo libro “Norimberga”, Irving sopprime diverse leggende propagandistiche intorno alla storia dell’Olocausto e riferisce delle osservazioni da parte di soggetti autorizzati,  che molti dei decessi nei campi di concentramento furono causati da tifo e  denutrizione, soprattutto negli ultimi giorni della guerra quando il cibo e le medicine erano scomparsi dalla Germania, ma nessun capitolo del libro nega, dice lui,  che sia effettivamente morto un grande numero di ebrei. Per come la vedo io sembra che una semplice modifica, veritiera, di un elemento della storia ufficiale dell’Olocausto sia sufficiente per marchiare una persona come negazionista dell’Olocausto.

Il mio interesse per il libro e quello per Robert Jackson. Questi aveva una nobile ragione -quella di proscrivere la guerra- ma cercando di ottenere questo risultato ha stabilito dei precedenti per i procuratori americani che trasformano la legge in un’arma per perseguire le loro nobili cause, proprio come questo è stato utilizzato contro i nazisti -condanna del crimine organizzato, abusi sui bambini, traffico di droga, terrorismo. La messa sotto accusa di Jackson dei nazisti a Norimberga, ha mmesso in dubbio gli obblighi imposti ai procuratori degli Stati Uniti, così che gli americani al giorno d’oggi non sono protetti dalla legge più degli accusati di Norimberga.

Aggiornamento del 12 agosto 2017 : ecco il racconto di David  Irving sul suo arresto, il suo processo e la sua incarcerazione in Austria. La sua condanna è stata cancellata da una corte d’Appello, ed è stato liberato.
http://www.fpp.co.uk/Banged/up.pdf

Paul Craig Roberts

 

Fonte: http://lesakerfrancophone.fr/

Link: http://lesakerfrancophone.fr/tyrannie-a-nuremberg

 

Traduzione dal francese per www.comedonchiscitte.org a cura di GIAKKI49

 

Commento del Saker Francophone
Le devastanti ripercussioni di questo processo devono ancora arrivare. Che cosa capiterà se questo processo viene attaccato e annullato sul piano del diritto, se quest’ultimo verrà un giorno ristabilito? Questo modo di negare  la giustizia è adattissimo ad alimentare tutti i tipi di fantasie dalle due parti e rinforza paradossalmente coloro che tentano di riabilitare dei personaggi  giustamente marchiati d’infamia, soprattutto se si considera che al momento del processo dei Tedeschi furono “invitati” negli Stati Uniti e che alcuni di loro avevano certamente un passato nazista.
Fare delle distinzioni non vuol dire lavare delle responsabilità. Ma la giustizia non è la morale e quel procuratore avrebbe dovuto ricordarsene. Quali tipi di menzogne si nascondono dunque dietro questo processo truccato e quali altre responsabilità compreso quelle degli alleati? Le leggi “commemorative”, certamente efficaci politicamente a breve termine per far tacere gli oppositori e gli storici, sono ancora una risposta pessima, e lasciano alle generazioni future una bomba innescata.
L’altro aspetto sconvolgente è scoprire che Paul Craig Roberts non conosceva o finge di non conoscere, neanche lontanamente, i retroscena del processo mentre invece è uno degli argomenti che vengono subito a galla quando si comincia a scavare un po’ la storia, come i retroscena della rivoluzione francese, il finanziamento dell’ascesa del nazismo in Germania… Il fatto che PCR lo scopra solo adesso, mentre invece il libro è uscito nel 1996 e vi sono anche molte altre fonti di informazione, la dice lunga sul condizionamento delle coscienze negli Stati Uniti e la mancanza di cultura delle élite americane.
E via via che le coscienze crollano negli Stati Uniti ed in Occidente in generale, la storia nascosta sotto il tappeto ricompare come un Golem e riaccende delle passioni mal sopite.

Note del Traduttore.
(1) Il massacro della foresta di Katyń, noto anche più semplicemente come Massacro di Katyń, avvenne durante la seconda guerra mondiale e consistette nell’esecuzione di massa, da parte dell’NKVD sovietica, di soldati e civili polacchi. Attualmente l’espressione denota invece l’uccisione di 21.857 cittadini polacchi (da Wikipedia)

venerdì 12 gennaio 2018

Troppo sensibile

 
 
 
un bel racconto di Charles Bukowski
 
 
 Spesso lo stato della cucina riflette lo stato della mente. gli uomini confusi e insicuri, d'indole remissiva, sono dei pensatori. le loro cucine sono come le loro menti, ingombre di rifiuti, stoviglie sporche, impurità, ma essi sono coscienti del loro stato mentale e ne vedono il lato umoristico. a volte, presi da uno slancio focoso, essi sfidano le eterne deità e si danno a metter ordine nel caos, cosa che a volte chiamano creazione; così pure a volte, mezzi sbronzi, si danno a pulire la cucina. ma ben presto tutto torna nel disordine e loro a brancolare nelle tenebre, bisognosi di pillole e preghiere, di sesso, di fortuna e salvazione. l'uomo con la cucina sempre in ordine è, invece, un maniaco. diffidatene. lo stato della sua cucina e quello della sua mente coincidono: costui, così preciso e ordinato, si è in realtà lasciato condizionare dalla vita e la sua mania per l'ordine, dentro e fuori, è solo un avvilente compromesso, un complesso difensivo e consolatorio. basta che l'ascolti per dieci minuti e capisci che lui, in vita sua, non dirà mai altro che cose insensate e noiose. è un uomo di cemento. vi sono più uomini di cemento, al mondo, che altri. sicché: se cerchi un uomo vivo, da' un' occhiata alla sua cucina, prima, e ti risparmi un sacco di tempo.
ora, la donna con la cucina sporca è un'altra questione: dal punto di vista maschile. se non lavora altrove e non ha figli, la pulizia o la sporcizia della sua cucina sono quasi sempre (con qualche eccezione) in proporzione diretta all'affetto che nutre per te. alcune donne hanno teorie su come salvare il mondo ma non sono buone a lavare una tazzina da caffé. se glielo fai ossevare ti rispondono: "lavare tazzine non è importante". purtroppo lo è. specie per un uomo che ha lavorato per otto ore filate, magari per dieci, con lo straordinario, a una fresa o a un tornio. s'incomincia a salvare il mondo salvando un uomo alla volta. tutto il resto è magniloquenza romantica o politica.
vi sono brave donne a questo mondo. io ne ho perfino conosciute due o tre. poi ci sono le altre, un altro genere.
a quel tempo avevo un lavoro così bestiale che, alla fine delle 8 o 12 ore, mi sentivo tutto il corpo indurito, una tavola, tutto un dolore. dico "tavola" perché non c'è altra parola. voglio dire, alla sera non ero più buono neanche a infilarmi la giacchetta. non riuscivo a sollevare le braccia per ficcarle nelle maniche. il movimento non mi riusciva, era troppo doloroso. qualsiasi altro movimento causava una rossa esplosione di dolore, un dolore che correva e serpeggiava, come una pazzia. mi beccavo anche un sacco di multe, in quel periodo. per lo più alle tre, alle quattro di mattina. una sera per esempio, tornando a casa dal lavoro, per non incorrere in contravvenzioni -dato che la freccia non funzionava più da un pezzo- tentai di sporgere il braccio sinistro per segnalare che svoltavo. il lampeggiatore non funzionava perché, da ubriaco. avevo divelto la levetta di comando. sicché cercai di metter fuori il braccio. riuscii solo a posare il polso sul finestrino e metter fuori il mignolo. non riuscivo a alzare il braccio più di così e il dolore era ridicolo, tanto ridicolo che mi misi a ridere, era buffo da morire, quel mignolo che spuntava in osservanza al codice stradale, la notte era fonda e le strade deserte, manco un'anima in giro e io là che facevo quel segnaluccio deficiente al vento. sbottai a ridere e a momenti andavo a sbattere contro un'auto parcheggiata, cercando di far la voltata con un solo braccio mezz'anchilosato, e ridevo. riuscii a parcheggiare in qualche modo. riuscii a arrivare fino al portone. ah, casa mia.
eccola là: a letto, a ingozzarsi di cioccolatini (mica no!) a leggere il New Yorker e la Saturday Review of Literature. sì era di giovedi, e i giornali di domenica erano ancora sparsi qua e là. ero troppo stanco per mangiare. riempii la vasca, ma solo a metà, per non correre il rischio di affogare. (meglio che sia tu a scegliere il momento, non il caso.)
uscito dal bagno, mi trascinai strisciando come un millepiedi zoppo, in cucina per tentare di bere un bicchiere d'acqua. il lavello era intasato. acqua grigia e puzzolente fino al bordo. mondezza dappertutto. da dare il voltastomaco. eppoi quella donna aveva la mania di conservare vasetti e barattoli vuoti. sicché in mezzo ai piatti sporchi e tutto il resto, galleggiavano vasetti e barattoli se coperchi, come una sorta di gentile e insensata presa in giro d'ogni cosa.
mi sciacquai un bicchiere e bevvi acqua. poi mi trascinai in camera. indicibile, il tormento per passare dalla posizione verticale a quella orizzontale sul letto. l'unica era non muoversi, quindi stavo là disteso immobile e indurito come un baccalà. la sentivo voltare le pagine e, desiderando stabilire un contatto umano, azzardai una domanda:
"allora? com'è andata al laboratorio di poesia stasera?"
"oh, sono preoccupata per Benny Adminson," mi rispose.
"Benny Adminson?"
"sì, è quello che scrive quiei racconti tanto buffi sulla chiesa cattolica. ci fa ridere tutti. non gliel'hanno mai pubblicato nessuno però. tranne uno: su una rivista canadese. adesso non le manda nemmeno più, le sue cose. secondo me è in anticipo sui tempi. però è comicobuffissimo, ci fa tanto ridere."
"qual'è il suo problema?"
"ha perso il posto, da autista. abbiam fatto quattro chiacchiere, prima della lezione. dice che non riesce mica a scrivere, quand'è senza lavoro. per scrivere, gli ci vuole d'avere un lavoro."
"buffo," dissi, "io ho scritto le mie cose migliori da disoccupato. quando morivo di fame."
"ma Benny Adminson," mi disse, "Benny Adminson non scrive mica solo di sé stesso. scrive di altra gente."
"oh."
lasciai perdere. mi toccava aspettare tre ore, lo sapevo, prima di pigliar sonno. per allora una parte del dolore se ne sarebbe andata, come assorbita dal materasso. senonché di lì a un po' era già un'altra volta ora di alzarsi e tornare al chiodo. la sentii voltare altre pagine del New Yorker. mi sentivo maldisposto, ma potevo anche sbagliarmi: forse al laboratorio di poesia c'era qualche vero scrittore. era improbabile, ma poteva darsi.
aspettavo che il corpo mi si slegasse. la sentii girare un'altra pagina e scartare un altro cioccolatino. poi mi disse:
"sì, Benny Adminson ha bisogno di un posto, d'una base, di un punto d'appoggio. noi cerchiamo di persuaderlo a mandare le sue cose alle riviste. vorrei proprio che leggessi i suoi racconti anticattolici, anche lui una volta era cattolico, sai?"
"non lo sapevo mica."
"ma gli occorre un impiego. noi tutti cerchiamo di trovargli un lavoro, perché possa scrivere."
seguì una pausa di silenzio. francamente, neanche ci pensavo a Benny Adminson e al suo problema. poi cercai di pensarci un momentino.
e dissi: "senti. lo so io, come risolvere il problema di Benny Adminson."
"davvero?"
"sì."
e come?"
"cercano gente, alle poste. assumono gente a destra e a manca, si presenti là domattina. così, dopo sarà buono a scrivere."
"alle poste?"
"sì, sì."
voltò un'altra pagina, prima di parlare. poi:
"Benny Adminson è troppo SENSIBILE per lavorare alle poste."
"oh."
silenzio. e per un pezzo non sentii più né voltar pagina né scartare dolcetti. in quel periodo, a lei piaceva molto un autore di racconti a nome Choates o Coates o Chaos o qualcosa del genere. costui scriveva in modo deliberatamente monotono (plumbee colonne piene di sbadigli fra le inserzioni pubblicitarie per liquori e crociere) ma nel finale non mancava mai un tizio, appassionato di Verdi e bevitore di Bacardi, che, mettiamo, strangolava una bambina di tre anni in tutina blu, in qualche vicoletto di Nuova York, alle 4 e 13 del pomeriggio. ecco il concetto, infregnacciato e subnormale, che i redattori del New Yorker hanno dell'avanguardia raffinata: cioè, la morte vince sempre e tutti abbiamo le unghie sporche di fango. tutto ciò è stato già fatto, 50 anni fa, da un tale a nome Ivan Bunin in un racconto intitolato Il signore di San Francisco. da quando è morto James Thurber il New Yorker svolazza come un pipistrello intronato tra postumi di sbornia e guardie rosse. vale a dire: hanno chiuso.
"buonanotte," le dissi
seguì una lunga pausa. poi si decise a ricambiare.
"Buonanotte," disse alla fine.
con urla livide e tam-tam di strazio -ma senza un lamento- in silenzio- mi rigirai da supino a bocconi (un lavoro di cinque minuti buoni) per attendere l'alba e il nuovo giorno.
forse sono stato scortese verso questa donna, forse ho trasceso, per colpa della cucina e per spirito di vendetta. c'è un bel po' di morchia nelle nostre anime, specie nella mia. e ho le idee confuse, sulle cucine come su molte altre cose. la donna di cui parlo ha molto coraggio, lo dimostra in molti modi. non era la serata buona, ecco, né per lei né per me.
e spero che quel fregnone dei racconti anticattolici abbia trovato un lavoro idoneo alla sua sensibilità e che tutti quanti saremo remunerati dal suo genio, finora inedito (tranne in Canada).
nel frattempo, io scrivo di me stesso e bevo troppo.
ma questo lo sapete
.


Storie di ordinaria follia - Henry Charles Bukowski
 
Fonte:http://web.tiscali.it/cbukowski/Tropposensibile.htm

giovedì 11 gennaio 2018

Cosa c’è dietro lo schiaffo di Ahed Tamimi?

 Il cranio di suo cugino distrutto da un proiettile israeliano

Mezza testa.
La parte sinistra della faccia è storta, gonfia, frantumata, deturpata; c’è sangue secco che gli esce dal naso, punti di sutura sulla faccia; un occhio è chiuso, una fila di punti gli corre lungo tutta la testa. Un volto di ragazzo diventato lo Sfregiato. Con un’operazione, gli sono state anche rimosse alcune ossa del cranio, che non verranno risistemate prima di sei mesi. Mohammed Tamimi ha solo 15 anni ed è già una vittima disabile di arma da fuoco e un ex detenuto.

Questa è la vita sotto occupazione a Nabi Saleh, dove la gente è impegnata nella lotta. Circa un’ora dopo che Mohammed era stato colpito alla testa da un colpo sparato a distanza ravvicinata da un soldato dello IOF (o da qualcuno della Border Police), la sua più nota cugina, Ahed Tamimi, è andata nel cortile di casa e ha tentato di mandare via i due soldati che avevano invaso il suo territorio, mentre la telecamera girava. E’ ragionevole pensare che abbia tentato di sfogare la sua ira contro i soldati anche perché avevano sparato a suo cugino un’ora prima.
Solo poche decine di metri dividono il luogo in cui hanno sparato a Mohammed e la casa di Ahed; solo un’ora separa i due episodi. I suoi familiari raccontano che Ahed, 16 anni, è scoppiata a piangere quando ha saputo che suo cugino era stato colpito e versava in gravi condizioni. Dalla finestra di casa sua, alla periferia di Nabi Saleh, piccolo villaggio vicino a Ramallah, si può vedere il muro di pietra che circonda l’edificio di lusso, in costruzione, che Mohammed aveva scalato per osservare i soldati che vi si trovavano all’interno. A quel punto, è stato colpito alla testa da un proiettile sparato a bruciapelo ed è caduto a terra, sanguinante, da un’altezza di tre metri (circa 10 piedi).
Adesso Ahed è detenuta e Mohammed sta guarendo dalla sua devastante ferita alla testa. Questa settimana, Mohammed ancora non sapeva dell’arresto della cugina, che è diventata un simbolo. Viste le sue condizioni, la sua famiglia non gli ha detto nulla.
Lo abbiamo incontrato a casa di suo zio, che confina con la sua. Parla sottovoce, a volte si passa la mano sulle suture che ha in testa, di tanto in tanto si stende sul divano per riposare.

Frequenta la quinta ginnasio alla scuola del villaggio, in cui Ahed gli è un anno avanti. Suo padre, Fadel, fa il tassista; sua madre, Imtisal, è casalinga. L’anno scorso ha passato tre mesi in un carcere israeliano.

Alle 2 di notte del 24 aprile 2017, i soldati hanno fatto irruzione in casa, sono entrati nella stanza dei bambini, hanno strappato Mohammed dal suo letto, l’hanno ammanettato e arrestato. Lui voleva vestirsi prima di essere portato in prigione; i soldati inizialmente avevano rifiutato, ma poi hanno acconsentito, ci dice. Tamimi era accusato di lancio di pietre contro una jeep dell’esercito che, pochi giorni prima, si era rotta vicino alla pompa di benzina all’ingresso del villaggio. E’ stato portato alla stazione di polizia di Etzion per l’interrogatorio, condotto senza la presenza di un avvocato, come prevede la legge. Dopotutto, cos’ha a che fare la legge con l’interrogatorio di un ragazzino palestinese di quattordici anni (sua età di allora)? E non gli hanno neanche detto che aveva il diritto di rimanere in silenzio. Ad un certo punto, chi lo stava interrogando gli ha chiesto anche di firmare un modulo scritto in ebraico. Visto che lui non parla ebraico, si è rifiutato. Dice che non aveva paura durante l’interrogatorio.
Dopo tre mesi di interrogatori e udienze, Mohammed è stato condannato, con patteggiamento, a tre mesi di detenzione e una multa di 3.000 shekel (circa 860 dollari). L’accusa aveva chiesto un anno di detenzione e una multa di 15.000 shekel. Tamimi è stato rilasciato due giorni dopo, perché in quel momento aveva già passato tre mesi in carcere. Durante quel periodo, i suoi genitori non hanno mai avuto il permesso di fargli visita. L’hanno visto solo in aula, a distanza, ma non potevano parlare con lui, nemmeno per chiedergli solo come stava. Normale amministrazione.
Mohamed è stato rilasciato il 19 luglio. Gli abbiamo chiesto qual è stata la cosa più difficile, per lui, in carcere. La cosa più difficile per lui, ci ha risposto, è stata il non riuscire a dormire la notte perché era preoccupato per la sua famiglia. L’IDF e le truppe della Border Police conducono raid a Nabi Saleh praticamente ogni giorno e ogni notte, e Tamimi era preoccupato per i suoi genitori e suo fratello. Sharef, suo fratello, 24 anni, e il padre sono stati arrestati piuttosto spesso e anche feriti. Nel 2015, per esempio, si è presentato a casa un manipolo di persone che si sono spacciate per dipendenti della società elettrica. Era giorno. Si sono poi rivelati essere mista’arvim, soldati in borghese. Hanno chiuso in una stanza tutti quelli che erano in casa. Mohammed è riuscito a scappare a casa dello zio, alla porta a fianco, e a raccontare che sconosciuti avevano invaso la casa. Suo cugino, che si chiama anche lui Mohamed Tamimi – a quanto pare, ci sono circa 100 persone a Nabi Saleh che si chiamano così – dice che all’inizio nemmeno loro sapevano chi fossero gli intrusi. Erano venuti per arrestare Sharef, che non era a casa. I soldati lo hanno aspettato. Sharef è stato condannato a due mesi di carcere. L’episodio del rapimento del fratello fa parte dei ricordi d’infanzia di Mohammed. A questo punto, vuole stendersi e riposare ancora un po’.
Dopo il rilascio, Mohammed è tornato a partecipare alle manifestazioni del villaggio, “perché ci rubano la terra”, ci spiega. La maggior parte della terra di Nabi Saleh è stata confiscata per costruire l’insediamento di Halamish, dall’altra parte della strada, o semplicemente non è accessibile a causa della presenza dell’insediamento.
Negli ultimi tre mesi, le forze di sicurezza israeliane hanno avuto la mano sempre più pesante, nel villaggio. Secondo Iyad Hadad, ricercatore sul campo di B’Tselem, organizzazione israeliana per i diritti umani, negli ultimi tre mesi l’IDF e la Border Police hanno condotto raid a Nabi Saleh 70 o 80 volte. A volte i soldati sparano contro il ponte di ferro giallo che porta al villaggio, in modo che i residenti non possano raggiungere la strada principale. Lo fanno più spesso nelle prime ore del mattino, quando ci sono gli abitanti che devono andare a lavorare, i pazienti che vanno a curarsi e gli studenti che vanno a scuola. Il villaggio attribuisce tale politica al nuovo comandante dell’esercito nella regione, conosciuto semplicemente come “Eyal”.

Venerdì 15 dicembre era un’altra giornata movimentata a Nabi Saleh. Una settimana dopo la dichiarazione del presidente USA Trump su Gerusalemme. Come ogni venerdì, era in programma una marcia di protesta. Tamimi racconta che quella mattina era andato con un gruppo di amici a vedere se ci fossero soldati appostati in agguato davanti al corteo, come succede di solito tra la torretta di controllo fortificata delll’IDF e l’ingresso al villaggio. Erano in cinque o sei ragazzi. Poco dopo, hanno visto arrivare da sud una decina di soldati che cercavano di appostarsi per l’agguato. Mohammed e i suoi amici hanno gridato: Vi abbiamo visto! I soldati hanno sparato lacrimogeni contro i ragazzi. Nel frattempo, i manifestanti si avvicinavano.
Le forze militari si erano posizionate nella “villa”, un edificio meraviglioso ma ancora incompiuto, circondato da un muro, alla periferia di Nabi Saleh, fatto costruire da un influente esiliato palestinese che vive in Spagna. Dovrebbe diventare un centro di medicina alternativa, ma la sua inaugurazione è stata rinviata, vista la situazione. Decine di abitanti hanno circondato la “villa”, sapendo che al suo interno c’erano i soldati.
Mohammed Tamimi si è avvicinato al muro dell’edificio, quindi si è arrampicato. Voleva vedere se c’erano ancora soldati all’interno, sull’onda di voci che dicevano che se ne fossero andati. Ma, quando si è sporto dalla sommità del muro, è stato colpito alla testa da un proiettile rivestito di gomma sparato da distanza ravvicinata. Tamimi dice di essere riuscito a vedere il soldato che mirava contro di lui, ma questo è tutto quel che ricorda. E’ caduto a terra e gli altri giovani si sono precipitati da lui.
Non era cosciente quando è stato caricato su una macchina e portato all’ospedale del villaggio di Beit Rima. Suo cugino Mohammed Tamimi, uno studente di 20 anni, era con lui. Il cugino racconta che il suo omonimo ha ricevuto lì le prime cure, ma il personale ha suggerito che venisse portato all’ospedale della città di Salfit. Il cugino aveva rifiutato, pensando che, a causa della gravità delle ferite, quell’ospedale non sarebbe stata in grado di curarlo adeguatamente. L’autista dell’ambulanza palestinese li aveva avvisati che, se avessero incontrato un checkpoint dell’IDF, i soldati avrebbero potuto arrestare l’adolescente ferito.

I soldati al checkpoint in uscita da Nabi Saleh hanno ordinato all’ambulanza di fermarsi, Tamimi cugino ricorda che erano aggressivi ed estremamente nervosi, e gli hanno puntato le armi contro. Hanno visto le condizioni del ragazzino; il cugino ha detto loro: “Avete 30 secondi per decidere: o lo portate in un ospedale israeliano, oppure ci fate passare”.
Ci racconta anche che c’era un’ambulanza militare parcheggiata vicino al checkpoint. Uno dei soldati si è consultato con qualcuno via radio, e quindi ha dato l’ordine all’ambulanza di dirigersi verso Ramallah, rifiutando di dare il permesso al paziente di entrare in Israele per le cure. “Circolare!” ha sbottato il soldato al tentativo di Tamimi di convincerlo a lasciare che suo cugino venisse trasferito in un ospedale israeliano.
L’ambulanza è schizzata verso l’Istishari Hospital, una nuova struttura privata a Ramallah. I genitori di Mohammed, che nel frattempo erano andati al checkpoint di Nabi Saleh in preda al panico, sono stati rispediti indietro dai soldati con le armi puntate, anche dopo aver provato a spiegare che il loro figlio era stato gravemente ferito. Hanno dovuto prendere una strada secondaria per l’ospedale.
Le condizioni di Tamimi sono apparse subito gravi; aveva un’emorragia cerebrale. Sia suo cugino che suo padre dicono ora che erano sicuri che non ce l’avrebbe fatta. Sono stati convocati degli specialisti che hanno deciso di operarlo. Nessuno sapeva quale fosse la portata del danno cerebrale. Grazie a un appello su Facebook per donare sangue, molta gente è arrivata in ospedale. L’operazione è durata sei ore, di notte. Immagini del ragazzino disteso incosciente all’ospedale, intubato, sono state diffuse sui social il giorno seguente. Circa 24 ore dopo, Tamimi ha iniziato a riprendere conoscenza ed è stato in grado di riconoscere chi aveva vicino. Oggi tutti ne parlano come di un miracolo.
Mohammed Tamimi è stato dimesso dopo una settimana. Per quanto ne so, non ha riportato alcun danno motorio o cognitivo.
Il portavoce dell’IDF ha dichiarato questa settimana ad Haaretz: “Venerdì 15 dicembre, nei pressi del villaggio di Nabi Saleh, sono scoppiati disordini che hanno coinvolto circa 200 palestinesi che hanno lanciato copertoni incendiati e pietre contro le forze dell’IDF. Le truppe hanno utilizzato metodi di dispersione per interrompere la manifestazione. Sappiamo dal rapporto del District Coordination and Liason Office che, nel villaggio, un palestinese è stato ferito e trasferito per le cure mediche”.
Tamimi adesso se ne sta raggomitolato vicino a suo padre, che è tornato dal lavoro e coccola suo figlio. Il ragazzino si addormenta dopo poco. La vicina casa sulla collina, quella di Ahed Tamimi, è deserta. Ahed e sua madre Nariman sono detenute. Il padre, Bassem, è con loro in tribunale, per far loro forza durante la lettura della pesante incriminazione.

 GIDEON LEVY E  ALEX LEVAC

Versione originale:
Gideon Levy e Alex Levac
Fonte:  www.haaretz.com/
Link: http://www.haaretz.com/israel-news/.premium-1.833157
5.01.2018
 
Versione italiana:
Fonte: www.bocchescucite.org
Link: http://www.bocchescucite.org/gideon-levy-e-alex-levac-cosa-ce-dietro-lo-schiaffo-di-ahed-tamimi-il-cranio-di-suo-cugino-distrutto-da-un-proiettile-israeliano/
7.01.2018
Traduzione di Elena Bellini
https://comedonchisciotte.org/cosa-ce-dietro-lo-schiaffo-di-ahed-tamimi-il-cranio-di-suo-cugino-distrutto-da-un-proiettile-israeliano/
 

martedì 9 gennaio 2018

SPARASTI AD ALBERTO, UN RAGAZZO BIONDO


10 GENNAIO 1979
"Ed Alberto che è finito dentro l'occhio di un mirino,
 la democrazia mandante, un agente è l'assassino!"
 

Alberto Giaquinto: l'ultima vittima della strage di Acca Larentia

Vi raccontiamo cosa vuol dire morire per mano di un "tutore" dell'ordine

Ecco la storia del giovane (di 17 anni) ucciso da un poliziotto a Centocelle, mentre commemorava l'eccidio dell'Appio Latino. Per la sua morte, non ha mai pagato nessuno. Ma contro di lui è stata costruita una campagna mediatica vergognosa, così come era stato fatto per Stefano Recchioni
“Avete inventato un mondo di storie/perché voi volete una cosa sola,/volete la fine dei camerati,/vi siete sbagliati,/proprio sbagliati./Celerino uomo di paglia/ vile assassino, sporca canaglia/ sparasti alla nuca come in battaglia/ Sparasti ad Alberto un ragazzo biondo…”
Castel Camponeschi. Abbruzzo. Luglio del 1980. Terzo “Campo Hobbit”.  Ad un anno di distanza dalla morte di Alberto Giaquinto, i ragazzi del Fronte della Gioventù lo ricordano così, cantando con la voce rotta dalla commozione e dal dolore, una canzone che racconta la sua storia. Ad ammazzarlo è stato un poliziotto. Gli ha sparato alla nuca. Come solo i vigliacchi osano uccidere. Era alla manifestazione per il primo anniversario della strage di Acca Larentia, Alberto. A Roma, quartiere Centocelle.
Il 1978 è un anno maledetto. Di quelli che fanno da spartiacque nella storia d’Italia. Un anno che si apre con una lunga scia di sangue che sembra destinata a non interrompersi mai. Il 7 gennaio, sull’asfalto dell’Appio Latino, cadono Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, ammazzati senza pietà dai NACT, gruppo semisconosciuto di terroristi comunisti. La sera stessa, Eduardo Sivori, un ufficiale dei Carabinieri, spara ad altezza d’uomo sulla folla che si è radunata per rendere omaggio ai due missini uccisi. Stefano Recchioni, un militante di 19 anni di Colle Oppio, non ha scampo. Un proiettile calibro nove lo colpisce in piena fronte. Si spegnerà, dopo due giorni di agonia, al “San Giovanni”. È la terza vittima di Acca Larentia, ma non è l’ultima. Il 9 Maggio di quello stesso, dannato, anno, le Brigate Rosse fanno ritrovare in via Caetani il cadavere di Aldo Moro. Nel frattempo, a destra, sono nati i NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari). Cominciano i primi morti per mano dei “neri”. Si parte con le pistole, poi si passa agli assalti alle armerie, alla fine si arriva direttamente ad usare le bombe a mano.
 La pioggia dell’inverno del ’78 ha lavato via le pozze di sangue di Franco, Francesco e Stefano davanti alla sezione del MSI di Acca Larentia. Ma nei cuori dei camerati, il ricordo dell’eccidio è ancora indelebile. Nessuno dei responsabili è stato punito. I “compagni” che hanno sparato, non sono mai stati individuati. Sivori, invece, è stato fatto allontanare da Francesco Cossiga in persona per “evitare eventuali rappresaglie”. In molti, proprio per questo motivo, hanno lasciato il partito. Si sono sentiti abbandonati. Dai dirigenti e da Giorgio Almirante in particolar modo, si aspettavano molto di più. Tanti di quelli che hanno militato nel MSI decidono che il gioco al massacro, messo in piedi dai comunisti, va fronteggiato con le loro stesse armi e passano con i NAR. 
Alberto Giaquinto no, lui non ci pensa nemmeno ad entrare in un gruppo eversivo. Ha solo 17 anni in quell’inverno del 1979. È poco più di un ragazzo. Studia al liceo “Peano”. È bello. Ha i capelli biondi. Si veste già da adulto, in giacca e cravatta, ma ha ancora il sorriso pulito di un bambino. Abita all’Eur. Va spesso al “Bar del Fungo”, noto nella zona perché frequentato da Franco Anselmi (l’estremista dei NAR ucciso nell’assalto all’armeria Centofanti). Ha una moto, una Honda, di cui va orgogliosissimo, la tiene come un gioiellino. Suo padre è proprietario di una farmacia ad Ostia. La famiglia è benestante e di questo, dopo la sua morte, si riuscirà a farne una colpa. Sono gli anni assurdi degli opposti estremismi, della lotta di classe ed essere “borghese” è un aggravante. O meglio, una scusante, se vieni ammazzato. Anche se a farlo è un poliziotto.
È di destra, Alberto. Per l’età che ha, fa ancora parte del Fronte della Gioventù. Ma ha amici più grandi, del Fuan, gli universitari del MSI. Sono alcuni di loro, ad organizzare per il 10 gennaio, una manifestazione non autorizzata in ricordo della strage di Acca Larentia. Il problema non è il corteo, ma la zona che è stata scelta, quella di Centocelle, uno dei quartieri più “rossi” di Roma. Chiunque vada, rischia grosso. I “compagni” non aspettano altro che l’ennesimo scontro. Sì, perché solo ventiquattr’ore prima,  i NAR hanno fatto irruzione a “Radio città futura”, un’emittente dichiaratamente di sinistra. I conduttori avevano scherzato sul cognome di uno dei due missini uccisi all’Appio Latino, proprio nel giorno dell’anniversario: “Poracci, i ‘fasci’ so’ rimasti senza ‘na ciavatta”. I “neri” non perdonano. Entrano alla Radio, dove nel frattempo stava andando in onda una trasmissione femminista. Rovesciano una tanica di benzina nel locale. Danno fuoco a tutto. Bruciano. Sparano anche. Non muore nessuno, ma è comunque un gesto eclatante.
Roma, quel giorno, non aspetta altro che il regolamento dei conti tra “fasci” e “compagni”.
 Alberto e molti altri ragazzi vogliono andare alla manifestazione. Non hanno intenti violenti. Solo l’imperativo, morale, categorico, di ricordare i loro camerati caduti un anno prima, esprimere la rabbia per un’indagine che non è mai decollata, senza colpevoli né sospetti. E con Sivori al sicuro, all’estero. Aspettano indicazioni dai quadri del partito. Nel primo pomeriggio, Gianfranco Fini (che, all’epoca, è il segretario nazionale del Fronte della Gioventù), dà il nulla osta. La rievocazione si farà, a Centocelle. Chissenefrega se rischia di scapparci il morto.
È una vittima annunciata, Alberto Giaquinto. Ciò che nessuno si aspetta, però, è che il piombo sotto il quale cadrà è quello di un agente di pubblica sicurezza.
In via dei Castani, Alberto, ci va in autobus. La moto la lascia a casa, non è il caso di rischiare di rovinarla. Ci va insieme ad Massimo Morsello (oggi scomparso anche lui, per un cancro, chiamato il “De Gregori Nero”, l’autore di Canti Assassini). Nessuno dei due conosce il quartiere. Quando arrivano, c’è un aria strana. La tensione è palpabile. Dall’altra parte della via c’è un corteo di donne che sta sfilando per protesta al raid dei Nar del giorno prima. All’improvviso, la situazione precipita. Alberto e un altro centinaio di ragazzi del MSI sono davanti alla sezione della DC, quando qualcuno prova ad assaltarla. Alla centrale operativa della questura arriva una chiamata: “sbrigatevi, che qui sfasciano tutto!”. Invece di una volante, arriva di corsa una Fiat 128 “civile”. Dentro ci sono due agenti in borghese. Uno dei due scende dalla macchina. Ha la pistola in mano. Vede distintamente che Giaquinto, Morsello e gli altri stanno scappando, in preda al panico. Sono di spalle. Nessuno lo aggredisce. Ma lui spara lo stesso. Ad altezza d’uomo. Il proiettile colpisce Alberto alla nuca. Cade a terra, in un lago di sangue. Alberto come Franco, come Francesco, come Stefano.
La polizia impiega più di mezz’ora per far arrivare l’ambulanza che lo porterà al “San Giovanni”. Quando i medici si chinano su di lui, respira ancora. Ma per poco. Alle 9 di quella stessa sera del 10 gennaio, dopo due ore di agonia, muore fra le braccia di sua madre.
Dal giorno dopo, come avevano fatto per Recchioni, tutti i giornali mettono in atto una campagna denigratoria contro Giaquinto. I più “teneri” diranno che l’agente ha sparato solo ed esclusivamente per legittima difesa, perché Alberto impugnava un P38 (il vero scandalo è che questa tesi verrà accolta nel processo contro l’assassino di Giaquinto, puntualmente prosciolto da ogni accusa). Stessa scusa usata per infangare Stefano e scagionare Sivori. I “pennivendoli” più fantasiosi racconteranno che “nella giacca del ragazzo sono stati rinvenuti diversi proiettili”. Anche stavolta, come per il missino di Colle Oppio, nessuno avrà il coraggio di ammettere che gli  erano stati messi in tasca per “giustificare” il ferimento.
Ma le parole più vergognose sono quelle scritte (e non firmate) in un articolo di Lotta Continua del 16 gennaio: “Quelli dell’Eur sono figli della ricchissima borghesia romana, questi rampolli da galera che hanno come loro ritrovo bar e locali. Questi assassini hanno vita facile nei loro quartieri. Possono permettersi di pestare, sfregiare, sparare”. Non basta, c’è di peggio. L’attacco è mirato e diretto: “La vicenda di Alberto Giaquinto è esemplare. Figlio di un ricchissimo farmacista, viveva in una lussuosissima villa al Fungo. Qui si incontrava con i suoi amici, che raccontano della sua passione per i film  pornografici (pura invenzione, ndr). Quando è stato ucciso, aveva una Walter P38, ma non ha fatto in tempo ad usarla. Studente per bene la mattina, terrorista la sera”. È bene ricordare che, quando muore, Giaquinto non ha neppure compiuto 18 anni. La pistola non è mai stata trovata. Chi era con lui, ha giurato che Alberto non ha mai tenuto in mano un’arma. Tanto meno quella sera maledetta. Non ha imparato niente, Adriano Sofri, dall’omicidio di Luigi Calabresi. Il suo modo di fare “giornalismo”, a distanza di sette anni, è rimasto lo stesso: raccogliere e diffondere false informazioni sulla vittima designata. Farne un mostro. Fomentare l’odio contro i “nemici del proletariato” scelti a caso, nel mucchio. Anche se il bersaglio è un ragazzino. Morto ammazzato. Da un poliziotto. Mentre era in strada per ricordare una strage contr i suoi camerati.
Se quella di Acca Larentia fosse stata una macabra partita fra “compagni” e “guardie”, sarebbe finita in parità. Due morti a testa ed un unico popolo, quello di destra, a piangere i suoi caduti.
La storia di Alberto Giaquinto è tragicamente simile e collegata a quella di Stefano Recchioni. Come se la morte, con un orribile gioco di coincidenze, avesse voluto proseguire quella sequenza di giovani, poco più che ragazzini, ammazzati da chi avrebbe dovuto proteggerli. Accusati, da morti, di essere criminali.
“Alberto non era armato di nulla,/di nulla lo giuro, proprio di nulla/quel che avete detto, son tutte balle/
sparaste alle spalle senza pietà/ sol perché credeva che è primavera/ e un sole di vita presto verrà/ e se t’hanno ucciso Alberto Giaquinto/ ti giuro, ti giuro, non hanno vinto!”
Alberto è l’ultima, innocente, vittima della Strage di Acca Larentia.
“Avete inventato un mondo di storie/perché voi volete una cosa sola,/volete la fine dei camerati,/vi siete sbagliati,/proprio sbagliati./Celerino uomo di paglia/ vile assassino, sporca canaglia/ sparasti alla nuca come in battaglia/ Sparasti ad Alberto un ragazzo biondo…”Castel Camponeschi. Abbruzzo. Luglio del 1980. Terzo “Campo Hobbit”.  Ad un anno di distanza dalla morte di Alberto Giaquinto, i ragazzi del Fronte della Gioventù lo ricordano così, cantando con la voce rotta dalla commozione e dal dolore, una canzone che racconta la sua storia. Ad ammazzarlo è stato un poliziotto. Gli ha sparato alla nuca. Come solo i vigliacchi osano uccidere. Era alla manifestazione per il primo anniversario della strage di Acca Larentia, Alberto. A Roma, quartiere Centocelle.
Il 1978 è un anno maledetto. Di quelli che fanno da spartiacque nella storia d’Italia. Un anno che si apre con una lunga scia di sangue che sembra destinata a non interrompersi mai. Il 7 gennaio, sull’asfalto dell’Appio Latino, cadono Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, ammazzati senza pietà dai NACT, gruppo semisconosciuto di terroristi comunisti. La sera stessa, Eduardo Sivori, un ufficiale dei Carabinieri, spara ad altezza d’uomo sulla folla che si è radunata per rendere omaggio ai due missini uccisi. Stefano Recchioni, un militante di 19 anni di Colle Oppio, non ha scampo. Un proiettile calibro nove lo colpisce in piena fronte. Si spegnerà, dopo due giorni di agonia, al “San Giovanni”. È la terza vittima di Acca Larentia, ma non è l’ultima. Il 9 Maggio di quello stesso, dannato, anno, le Brigate Rosse fanno ritrovare in via Caetani il cadavere di Aldo Moro. Nel frattempo, a destra, sono nati i NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari). Cominciano i primi morti per mano dei “neri”. Si parte con le pistole, poi si passa agli assalti alle armerie, alla fine si arriva direttamente ad usare le bombe a mano. La pioggia dell’inverno del ’78 ha lavato via le pozze di sangue di Franco, Francesco e Stefano davanti alla sezione del MSI di Acca Larentia. Ma nei cuori dei camerati, il ricordo dell’eccidio è ancora indelebile. Nessuno dei responsabili è stato punito. I “compagni” che hanno sparato, non sono mai stati individuati. Sivori, invece, è stato fatto allontanare da Francesco Cossiga in persona per “evitare eventuali rappresaglie”. In molti, proprio per questo motivo, hanno lasciato il partito. Si sono sentiti abbandonati. Dai dirigenti e da Giorgio Almirante in particolar modo, si aspettavano molto di più. Tanti di quelli che hanno militato nel MSI decidono che il gioco al massacro, messo in piedi dai comunisti, va fronteggiato con le loro stesse armi e passano con i NAR. Alberto Giaquinto no, lui non ci pensa nemmeno ad entrare in un gruppo eversivo. Ha solo 17 anni in quell’inverno del 1979. È poco più di un ragazzo. Studia al liceo “Peano”. È bello. Ha i capelli biondi. Si veste già da adulto, in giacca e cravatta, ma ha ancora il sorriso pulito di un bambino. Abita all’Eur. Va spesso al “Bar del Fungo”, noto nella zona perché frequentato da Franco Anselmi (l’estremista dei NAR ucciso nell’assalto all’armeria Centofanti). Ha una moto, una Honda, di cui va orgogliosissimo, la tiene come un gioiellino. Suo padre è proprietario di una farmacia ad Ostia. La famiglia è benestante e di questo, dopo la sua morte, si riuscirà a farne una colpa. Sono gli anni assurdi degli opposti estremismi, della lotta di classe ed essere “borghese” è un aggravante. O meglio, una scusante, se vieni ammazzato. Anche se a farlo è un poliziotto.È di destra, Alberto. Per l’età che ha, fa ancora parte del Fronte della Gioventù. Ma ha amici più grandi, del Fuan, gli universitari del MSI. Sono alcuni di loro, ad organizzare per il 10 gennaio, una manifestazione non autorizzata in ricordo della strage di Acca Larentia. Il problema non è il corteo, ma la zona che è stata scelta, quella di Centocelle, uno dei quartieri più “rossi” di Roma. Chiunque vada, rischia grosso. I “compagni” non aspettano altro che l’ennesimo scontro. Sì, perché solo ventiquattr’ore prima,  i NAR hanno fatto irruzione a “Radio città futura”, un’emittente dichiaratamente di sinistra. I conduttori avevano scherzato sul cognome di uno dei due missini uccisi all’Appio Latino, proprio nel giorno dell’anniversario: “Poracci, i ‘fasci’ so’ rimasti senza ‘na ciavatta”. I “neri” non perdonano. Entrano alla Radio, dove nel frattempo stava andando in onda una trasmissione femminista. Rovesciano una tanica di benzina nel locale. Danno fuoco a tutto. Bruciano. Sparano anche. Non muore nessuno, ma è comunque un gesto eclatante.Roma, quel giorno, non aspetta altro che il regolamento dei conti tra “fasci” e “compagni”. Alberto e molti altri ragazzi vogliono andare alla manifestazione. Non hanno intenti violenti. Solo l’imperativo, morale, categorico, di ricordare i loro camerati caduti un anno prima, esprimere la rabbia per un’indagine che non è mai decollata, senza colpevoli né sospetti. E con Sivori al sicuro, all’estero. Aspettano indicazioni dai quadri del partito. Nel primo pomeriggio, Gianfranco Fini (che, all’epoca, è il segretario nazionale del Fronte della Gioventù), dà il nulla osta. La rievocazione si farà, a Centocelle. Chissenefrega se rischia di scapparci il morto.È una vittima annunciata, Alberto Giaquinto. Ciò che nessuno si aspetta, però, è che il piombo sotto il quale cadrà è quello di un agente di pubblica sicurezza.In via dei Castani, Alberto, ci va in autobus. La moto la lascia a casa, non è il caso di rischiare di rovinarla. Ci va insieme ad Massimo Morsello (oggi scomparso anche lui, per un cancro, chiamato il “De Gregori Nero”, l’autore di Canti Assassini). Nessuno dei due conosce il quartiere. Quando arrivano, c’è un aria strana. La tensione è palpabile. Dall’altra parte della via c’è un corteo di donne che sta sfilando per protesta al raid dei Nar del giorno prima. All’improvviso, la situazione precipita. Alberto e un altro centinaio di ragazzi del MSI sono davanti alla sezione della DC, quando qualcuno prova ad assaltarla. Alla centrale operativa della questura arriva una chiamata: “sbrigatevi, che qui sfasciano tutto!”. Invece di una volante, arriva di corsa una Fiat 128 “civile”. Dentro ci sono due agenti in borghese. Uno dei due scende dalla macchina. Ha la pistola in mano. Vede distintamente che Giaquinto, Morsello e gli altri stanno scappando, in preda al panico. Sono di spalle. Nessuno lo aggredisce. Ma lui spara lo stesso. Ad altezza d’uomo. Il proiettile colpisce Alberto alla nuca. Cade a terra, in un lago di sangue.
 
 
 
 
Alberto come Franco, come Francesco, come Stefano.La polizia impiega più di mezz’ora per far arrivare l’ambulanza che lo porterà al “San Giovanni”. Quando i medici si chinano su di lui, respira ancora. Ma per poco. Alle 9 di quella stessa sera del 10 gennaio, dopo due ore di agonia, muore fra le braccia di sua madre.Dal giorno dopo, come avevano fatto per Recchioni, tutti i giornali mettono in atto una campagna denigratoria contro Giaquinto. I più “teneri” diranno che l’agente ha sparato solo ed esclusivamente per legittima difesa, perché Alberto impugnava un P38 (il vero scandalo è che questa tesi verrà accolta nel processo contro l’assassino di Giaquinto, puntualmente prosciolto da ogni accusa). Stessa scusa usata per infangare Stefano e scagionare Sivori. I “pennivendoli” più fantasiosi racconteranno che “nella giacca del ragazzo sono stati rinvenuti diversi proiettili”. Anche stavolta, come per il missino di Colle Oppio, nessuno avrà il coraggio di ammettere che gli  erano stati messi in tasca per “giustificare” il ferimento.Ma le parole più vergognose sono quelle scritte (e non firmate) in un articolo di Lotta Continua del 16 gennaio: “Quelli dell’Eur sono figli della ricchissima borghesia romana, questi rampolli da galera che hanno come loro ritrovo bar e locali. Questi assassini hanno vita facile nei loro quartieri. Possono permettersi di pestare, sfregiare, sparare”. Non basta, c’è di peggio. L’attacco è mirato e diretto: “La vicenda di Alberto Giaquinto è esemplare. Figlio di un ricchissimo farmacista, viveva in una lussuosissima villa al Fungo. Qui si incontrava con i suoi amici, che raccontano della sua passione per i film  pornografici (pura invenzione, ndr). Quando è stato ucciso, aveva una Walter P38, ma non ha fatto in tempo ad usarla. Studente per bene la mattina, terrorista la sera”. È bene ricordare che, quando muore, Giaquinto non ha neppure compiuto 18 anni. La pistola non è mai stata trovata. Chi era con lui, ha giurato che Alberto non ha mai tenuto in mano un’arma. Tanto meno quella sera maledetta. Non ha imparato niente, Adriano Sofri, dall’omicidio di Luigi Calabresi. Il suo modo di fare “giornalismo”, a distanza di sette anni, è rimasto lo stesso: raccogliere e diffondere false informazioni sulla vittima designata. Farne un mostro. Fomentare l’odio contro i “nemici del proletariato” scelti a caso, nel mucchio. Anche se il bersaglio è un ragazzino. Morto ammazzato. Da un poliziotto. Mentre era in strada per ricordare una strage contr i suoi camerati.Se quella di Acca Larentia fosse stata una macabra partita fra “compagni” e “guardie”, sarebbe finita in parità. Due morti a testa ed un unico popolo, quello di destra, a piangere i suoi caduti.La storia di Alberto Giaquinto è tragicamente simile e collegata a quella di Stefano Recchioni. Come se la morte, con un orribile gioco di coincidenze, avesse voluto proseguire quella sequenza di giovani, poco più che ragazzini, ammazzati da chi avrebbe dovuto proteggerli. Accusati, da morti, di essere criminali.“Alberto non era armato di nulla,/di nulla lo giuro, proprio di nulla/quel che avete detto, son tutte balle/sparaste alle spalle senza pietà/ sol perché credeva che è primavera/ e un sole di vita presto verrà/ e se t’hanno ucciso Alberto Giaquinto/ ti giuro, ti giuro, non hanno vinto!”
Alberto è l’ultima, innocente, vittima della Strage di Acca Larentia.
 
Micol Paglia
 
TRATTO DA:
 
 

lunedì 8 gennaio 2018

LA PAURA, TOTEM DELLA NOSTRA EPOCA

 
Pazzesco: quest'anno d'inverno fa freddo e ti buschi l'influenza
 
 
I giornali hanno scoperto che c’è in giro l’influenza. Oh bella, ma da che mondo è mondo d’inverno c’è l’influenza. Sul Corriere Margherita De Bac, giornalista scientifica che di solito si occupa, e bene, di questioni importanti, si prodiga in consigli per prevenire e curare il terribile morbo, anche se c’è una massima, popolare ma pure diffusa fra i medici, che dice che “un raffreddore ben curato dura una settimana, uno non curato una settimana”. Per la prevenzione c’è naturalmente il vaccino, se poi, vaccino o no, ci si ammala: riposo, letto, bere molta acqua, cibi leggeri. Chiedo scusa alla De Bac ma sono cose che tutte le mamme sanno perché i bambini sono il veicolo più comune del terribile morbo.
Un consiglio mi permetto di darlo anch’io: uscite più scoperti che potete. Da ragazzo, con una madre russa che si curava poco del freddo e, per la verità, anche di me, io d’inverno uscivo scamiciato, senza golf, con i calzoncini corti fino all’inguine. I miei vicini Mosca, quattro figli del famoso umorista più o meno della mia età, uscivano coperti fino al collo, sciarpe, cappotti pesanti, cappelli e, quel che è più grave, in una famiglia snob e un po’ parvenu (si trattava pur sempre di giornalisti) calzoni corti sì ma fino al ginocchio “perché così li porta Carlo d’Inghilterra”. Bene, in tutti quegli anni io non ho mai beccato un’influenza, i Mosca se ne facevano una mezza dozzina a stagione e più si coprivano e più si ammalavano.
Del terrorismo da influenza è compare quello meteorologico, invernale ed estivo. C’è un temporale come ne abbiamo visti mille volte? No, è “una bomba d’acqua”.
Cade finalmente sulle montagne la neve a lungo sospirata da sciatori e albergatori. Possiamo essere contenti? Eh no, c’è “l’allerta 3 su 5”, pericolo valanghe che sui monti ci sono sempre state e sempre ci saranno.
Straripano i fiumi come sono sempre straripati. No, “esondano” parola di nuovo conio che evoca disastri.
C’è una tempesta che arriva dal Nord e, come quasi sempre, coinvolge buona parte dell’Europa. Non è una tempesta, è la Supertempesta Eleanor che ha fatto in tutto un morto, altri dicono tre, comunque meno di un incidente stradale. Allarme rosso: la gente non deve uscire di casa.
E’ estate, fa caldo, dovrebbe essere normale. Ma i notiziari non si limitano a darti le temperature, troppo semplice, ti forniscono anche quelle “percepite” e così tu che fin lì non ci avevi fatto troppo caso prendi paura, cominci a sudare come se fossi nella sala macchine di una nave, ti manca il respiro e chiami il 118.
La nostra è una società dell’esagerazione. In tutto. Anche nel calcio.
 Il portiere fa una parata un po’ difficile, è “un salvataggio miracoloso”. Uno tira una punizione a palombella che si insacca, come ne faceva a caterve tanti anni fa l’interista Mario Corso, è “un gol strepitoso, il più bello della stagione”.
Ma di tutti i terrorismi il più temibile è quello diagnostico e preventivo. Dovresti palpeggiarti e auscultarti in ogni momento (e un’extrasistole è già un infarto), fare una mezza dozzina di esami clinici l’anno. Eppoi, va da sé, niente fumo e niente alcol. Ma jogging per inspirare a pieni polmoni l’aria inquinata che ci circonda. Poiché la tecnica ci ha sollevato da ogni fatica fisica siamo costretti a rifugiarci nelle palestre e in queste stronzate (mai visto un contadino fare jogging). C’è poi il subterrorismo del colesterolo su cui marciano la pubblicità e le case farmaceutiche. Sei lì tranquillo, seduto in poltrona e irrompe l’annuncio sinistro e sibillino: “Avevo il colesterolo a 235. Dicevo: non è importante. Mi sbagliavo”. E la glicemia? C’è gente che se la misura, con speciali macchinette, ogni mattina e se supera il limite “consentito” si tormenta tutto il giorno prima di correre dal medico di base che naturalmente gli farà fare una quantità infinita di esami dai quali verranno fuori altri superamenti dei limiti “consentiti” e così via in una spirale che non dà tregua e ti avvelena la vita. C’è quindi il terrorismo auditivo per cui, anche se ci senti benissimo, o così almeno ti pare, sei invitato, più o meno perentoriamente, a fare un controllo presso centri specializzatissimi, ultratecnologici, da medicina nucleare, per cui un difetto te lo trovano di sicuro. Insomma dovremmo vivere da vecchi fin da giovani. Tutto può essere pericoloso. E’ logico: è vivere che ci fa morire.
Abbiamo paura anche della nostra ombra, dell’ombra di un’ombra, di un petardo anzi della sensazione di un petardo come si è visto nell’indecoroso panico di piazza San Carlo a Torino: un morto e 1500 feriti, per un nulla.
E’ la paura l’autentico totem dell’epoca. E a tutti questi terrorismi da caga io, lo confesso, preferisco quello vero. Mi sembra più vitale.
Massimo Fini