mercoledì 28 febbraio 2018

1 MARZO 1968: "NOI" A VALLE GIULIA


1 Marzo 1968- Roma, Battaglia di Valle Giulia, nelle prime file militanti di Avanguardia Nazionale "Nella foto si riconoscono diversi militanti della Caravella tra cui tre dei dieci consiglieri dell'Orur, (1) Maurizio Giorgi, (2) Guido Paglia, (3) Franco Papitto, (4) Stefano Delle Chiaie. (5) Ugo Gaudenzi, (6) Stefano Bettini, (7) Adriano Tilgher, (8) Roberto Palotto, (9) Adriano Mulas, (10) Mario Merlino, (11) Tonino Fiore 





 





1 Marzo 1968
E’ una giornata primaverile. A Piazza di spagna ci siamo tutti. L’ accordo è fatto : i compagni non portano né alzano bandiere rosse. Caravella non alza simboli o bandiere. Il nostro diritto a partecipare è sancito senza prevaricazioni di sorta. Anche gli slogan devono essere quelli e solo quelli : “Castro, Mao, HO Chi Min” per loro, “ Fascismo, Europa, Rivoluzione” per noi, “Che-Che-Guevara” per chi piace.
Al PCI tutto questo non piace.(1)
Gli attivisti cinesi bloccano chi tenta slogan provocatori, Caravella fa altrettanto. Sandro Saccucci futuro deputato, viene zittito pesantemente da un camerata quando, preso da improvviso “raptus” grida : morte ai rossi”.
Gli attivisti del PCI, guidati dal responsabile della federazione romana Trivelli, cercano di dirottare il corteo, di oltre quattromila persone, verso il centro. Li seguiranno in pochi : è la crisi, dopo poco la Federazione Giovanile Comunista sarà costretta a sciogliersi per infiltrare tutti i suoi rimanenti quadri nel Movimento Studentesco e tentare di monopolizzarlo.
Il grosso del corteo giunge a Valle Giulia, la polizia, che presidia la facoltà, carica. Questa volta gli studenti non fuggono. Dà loro entusiasmo la forza attivistica della Caravella. Sandro un camerata dei Castelli, oggi funzionario in un ente di stato, viene ferito ad un occhio da un sasso lanciato dai poliziotti. Lo soccorre una compagna : tra i due, poi, nascerà una storia d’amore.
I giovani entusiasti perché la polizia è fuggita, entrano nelle facoltà; è un errore che la Caravella non commette.
I rinforzi di celere e carabinieri schiacceranno e picchieranno selvaggiamente questi giovani, mentre tutto intorno a Valle Giulia proseguono sconti cruenti, dove i giovani fascisti si distinguono per la loro generosità. Anche le donne dei “cinesi” si buttano nella mischia con coraggio spronando a gran voce i propri compagni a non restare indietro.
Molti episodi meriterebbero di essere ricordati.
Il camerata Tizio che picchia contemporaneamente un carabiniere ed un compagno che voleva impedirglielo: il camerata Caio che ferma un gruppo urlante di giovani scatenati per consentire a due carabinieri giovanissimi, con le mani alzate, tremanti ed impauriti, di ritirarsi senza danni; altri camerati che a mani nude, afferrano i fumogeni lanciati dalla polizia e li rilanciano a braccia. La celere tenta a più riprese attacchi con tutti i suoi mezzi: ma la natura dei luoghi e la compattezza giovanile riescono ad avere la meglio ed a respingere i vari tentativi.
E’ una giornata d’ autentica battaglia e di vittoria per le nostre tesi: non limitarsi a rivendicazioni “sindacali” nell’ Università, ma uscire dall’ Università per contestare il sistema. Sarà questa scelta a meritarci il titolo di “provocatori”.
Il periodico di sinistra “Quindici”, qualche tempo dopo, pubblicherà un poster gigante che sarà sui muri delle stanze della maggioranza dei giovani del 68 : il suo titolo è “La Battaglia di Valle Giulia”
I volti che vi si riconoscono sono volti noti: sono i giovani della Caravella : Adriano Tilgher, Antonio Fiore, Guido Paglia, Stefano delle Chiaie, Mario Merlino, Maurizio Giorgi, Pierfranco Di Giovanni, Roberto Paolotto, Roberto Raschetti, Domenico Pilolli…..
A chiusura della cronaca di quella giornata e giusto rileggere le dichiarazioni dell’ epoca di due giovani della Caravella, tratte dall’ Orologio del 15/03/1968: “ In un primo momento ci facevamo sotto solo noi. I comunisti se ne stavano sulle gradinate a gridare : “polizia fascista”. Noi gli gridavamo vigliacchi, fatevi sotto! Borghesi!. Allora i cinesi hanno cominciato a muoversi. Poi anche i comunisti hanno presso qualche manganellata e così hanno perso la testa. Me lo immagino il loro stato d’ animo. Si facevano sotto per puntiglio, per non rimanere dietro a noi. Una pena indescrivibile. A ripensarci mi viene da ridere. Ci facemmo sotto insieme ai comunisti, ma loro gridavano “polizia fascista!” noi cantavamo “all’ armi!”. Nei m omenti di tregua allungavo qualche sveglia a quelli che stavano a gridare : “polizia fascista”.



(1)Scrive l’ Orologio del 15/03/1968 a pag. 8 “ alle Botteghe Oscure regnava una costernazione non minore. I dirigenti della federazione giovanile venivano duramente rimproverati da Paietta e Valori per “essersi lasciati strumentalizzare dai fascisti”…..Due giorni dopo infatti, i comunisti inscenarono una dimostrazione nella stessa Valle Giulia. Nel corso di tale manifestazione si deploravano gli incidenti del venerdì che venivano attribuiti ai “picchiatori fascisti”.


DAL LIBRO “A VALLE GIULIA”
Pag. 15-16-17
EDIZIONI PUBLICONDOR


APRILE 1967
 
 
ROMA UNIVERSITA' "SAPIENZA" VIALE REGINA MARGHERITA









Dopo che, nel mese di febbraio 1968, la facoltà era stata sede di numerose iniziative politiche, molte delle quali coordinate da docenti dello stesso ateneo, ed essendosi giunti all'occupazione della facoltà da parte degli studenti, il 29 febbraio la stessa era stata sgomberata dalla polizia, chiamata dal rettore Pietro Agostino D'Avack, e restava presidiata.
Il 1º marzo 1968, un venerdì pieno di sole, circa 4000 persone si radunarono in Piazza di Spagna. Da lì il corteo si divise in due: una parte mosse verso la città universitaria, mentre la maggioranza degli studenti si diresse verso Valle Giulia con l'intento di occupare la facoltà precedentemente sgombrata dalla polizia. Giunti sul posto, gli studenti fronteggiarono un imponente cordone di forze dell'ordine. Un piccolo gruppo di poliziotti, staccatosi dalla fila, prese uno studente e iniziò a picchiarlo; la reazione degli studenti fu immediata e iniziò un lancio di sassi ed altri oggetti contundenti.
Solo gli ufficiali di presidio disponevano di armi cariche (la versione istituzionale affermò che ciò fu ordinato gerarchicamente per evitare il degenerare della situazione che si prevedeva incandescente, mentre "radio caserma" affermò - ripresa da fonti giornalistiche della destra estrema - che questa era una condizione ordinaria delle forze di polizia, dovuta alla carenza di fondi per l'acquisto delle munizioni). Gli scontri presto degenerarono in tutta l'area universitaria e, sorprendentemente, gli studenti mostrarono di essere in grado di reggere l'urto con le cariche della polizia, a differenza di quanto era accaduto in altri scontri accaduti nei mesi precedenti. A guidare l'attacco contro la polizia furono gli esponenti del movimento Avanguardia Nazionale, guidati da Stefano Delle Chiaie. Avanguardia Nazionale era inoltre supportata da alcuni esponenti del FUAN e del MSI.. Tra i partecipanti agli scontri di Valle Giulia vicini al movimento studentesco ritroviamo molte figure che avranno in seguito percorsi tra i più svariati: il regista Paolo Pietrangeli (che all'episodio dedicò la famosa canzone "Valle Giulia" divenuta un simbolo del movimento sessantottino), Giuliano Ferrara (che rimase ferito), Paolo Liguori, Aldo Brandirali, Ernesto Galli della Loggia, Oreste Scalzone. 
Al termine degli scontri i fascisti guidati da Delle Chiaie e il FUAN occuparono la facolta di Giurisprudenza, mentre gli studenti di sinistra occuparono Lettere. Si registrarono 148 feriti tra le forze dell'ordine e 478 tra gli studenti. Ci furono 4 arrestati e 228 fermati. Otto automezzi della polizia furono incendiati. Cinque pistole furono sottratte agli agenti.
Da questo momento si creò una frattura tra i giovani di destra e il MSI che per bocca del segretario Arturo Michelini sconfessò i propri militanti: "A chi avesse per caso delle perplessità a questo proposito, diciamo francamente che non ha capito che cosa significa militare nel MSI". La crisi, tutta interna alla destra, raggiunse l'apice il 17 marzo quando i Volontari Nazionali, inviati da Michelini e guidati da Giorgio Almirante e Massimo Anderson si recarono presso l'Università occupata. Il tentativo di coinvolgere gli studenti di destra arroccati nella Facoltà di Giurisprudenza non ebbe effetto, anzi alcuni militanti missini defezionarono quando ne constatarono la presenza all'interno della facoltà occupata. Il
successivo tentativo, effettuato dai Volontari Nazionali, di penetrare all'interno di Lettere provocò duri scontri con gli studenti. Notando gli scontri gli studenti di Avanguardia Nazionale guidati da Delle Chiaie uscirono dalla facoltà di Legge e si disposero sui gradini del Rettorato. Ad essi si aggiusero anche i militanti del FUAN.


« Volevamo in questo modo manifestare la nostra estraneità a quell'iniziativa e non partecipare agli scontri. In effetti non me la sentivo di schierarmi con nessuno dei due contendenti, mentre Primula Goliardica andò a Lettere a difendere i comunisti. E anzi furono i suoi militanti a sostenere il primo assalto. »


(Stefano Delle Chiaie.)
I missini furono rapidamente respinti dagli studenti, rafforzati dall'arrivo di attivisti comunisti, e furono costretti a ritirarsi rifugiandosi all'interno di Giurisprudenza. Fu travolta anche la squadra di Giulio Caradonna che era arrivata nel frattempo e che si rifugiò anch'essa dentro Giurisprudenza. A questo punto furono coinvolti anche gli studenti del FUAN che, rimasti estranei agli scontri, si barricarono nella Facoltà.


La componente neofascista della contestazione si allontanò dal movimento studentesco in seguito ai fatti di Valle Giulia, nel corso dell'assalto della facoltà di Lettere dell'Università La Sapienza del 16 marzo da parte di un gruppo di militanti del Movimento Sociale Italiano
























 
 











VISITA IL SITO
 
 

TOMASO STAITI DI CUDDIA DELLE CHIUSE, IN MEMORIAM

   
1 MARZO 2017 - 1 MARZO 2018
 
LE COMUNITÀ AVANGUARDISTE RICORDANO,
A UN ANNO DALLA SCOMPARSA
IL CAMERATA TOMASO STAITI DI CUDDIA
UOMO LIBERO E CORAGGIOSO
 

martedì 27 febbraio 2018

QUANDO UCCIDERE UN FASCISTA NON ERA REATO

L'INFAMIA NON VA IN PRESCRIZIONE.

ONORE A MIKIS MANTAKAS

 
LOTTA CONTINUA 12 MARZO 1977
 


MIKIS MANTAKAS, PRESENTE !

IL "SOCCORSO ROSSO DEL TERZO MILLENNIO"

 
«Gli autori hanno commesso il fatto con scarpe da tennis e non con calzature (come scarponi) che avrebbero potuto comportare ben più gravi lesioni e l’esito fatale»



È questa una delle motivazioni addotte dal gip di Palermo che ha portato alla liberazione dei picchiatori del segretario provinciale di Forza Nuova Massimo Ursino. Le scarpe, insieme alla mancanza di armi, sono state il motivo della derubricazione del reato da tentato omicidio a lesioni gravi e quindi della scarcerazione dei due antagonisti accusati

 FONTE: http://www.ilgiornale.it/news/cronache/i-picchiatori-dirigente-forza-nuova-liberi-perch-avevano-1498525.html

 
 
OGGI COME IERI LE ZECCHE DEI COSIDDETTI CENTRI SOCIALI SI STANNO DIMOSTRANDO PROVOCATORI AL SERVIZIO DEL SISTEMA,
CHE LI UTILIZZA PER CERCARE DI COLPIRE GLI UNICI VERI NEMICI DI QUESTO STATO CORROTTO.
SONO TROPPO STUPIDI PER CAPIRE IN CHE MODO VENGANO STRUMENTALIZZATI.
I POLITICANTI DI SINISTRA - BOLDRINA IN PRIMIS - LI DIFENDONO,
I GIUDICI SERVI NON LI INQUISCONO, MA LI PROTEGGONO.
CAMERATI, QUESTO SISTEMA CHE SI E'AUTODISTRUTTO SOTTO OGNI PUNTO DI VISTA, VORREBBE RIUTILIZZARE UNA RI-EDIZIONE DELLA
 "TEORIA DEGLI OPPOSTI ESTREMISMI"E DELLA "STRATEGIA DELLA TENSIONE"
CON SERVIZIE SEGRETI PRONTI AD ORGANIZZARE STRAGI
-DA APPIOPPARE A NOI- PER DISTRUGGERCI DANDOCI IN PASTO ALL'OPINIONE PUBBLICA.
LO HANNO GIA' FATTO, E POTREBBERO RIFARLO.
IL NEMICO E' UN ANIMALE FERITO GRAVEMENTE
-DALLE METASTASI DEL SUO STESSO CANCRO-,
CHE UTILIZZA LA CARTA DELL' "ANTIFASCISMO"
PER GLI ULTIMI COLPI DI CODA.
IL NEMICO E'SUBDOLO.
STIAMO ATTENTI, MOLTO ATTENTI
 
  
RIBADIAMO LA NOSTRA PIU' PIENA E TOTALE SOLIDARIETA'
AL CAMERATA MASSIMO URSINO
 
 
 

lunedì 26 febbraio 2018

MIKIS MANTAKAS, PRESENTE !

Miki “Il Greco”         
 
 28 febbraio del 1975 durante l’assalto a una sezione di partito, fu assassinato con un colpo di pistola un giovane studente greco. Quando appresi la notizia, pur trattandosi di un avvenimento successo nella capitale, rimasi molto scossa perché di quel ragazzo avevo già sentito parlare qualche anno prima a Bologna.
 
 
 
 MIKI "IL GRECO"
 
 
 
 

Mikaeli Mantakas, detto Miki, era nato nel 1952 ad Atene, era venuto in Italia per studiare e si era iscritto proprio alla facoltà di Medicina di Bologna. In città aveva uno zio che esercitava la professione di medico in una clinica privata e che gli forniva anche supporto logistico. In quegli anni in Grecia vigeva il regime dei “Colonnelli”, all’Università di Bologna invece, vigeva il regime non dichiarato, ma praticato, del comunismo stalinista, dunque quando Miki si trovò coinvolto in alcuni disordini fuori dall’Università venne tacciato di essere un provocatore, spia del regime ellenico. L’equazione era presto fatta se si trovava in Italia e non era antifascista, secondo gli spiccioli canoni della massa di studenti bolognesi di sinistra, doveva essere un fascista che sosteneva il regime greco e dunque andava punito. Miki subì una vigliacca aggressione davanti all’istituto di Biologia e fu ricoverato in ospedale con quaranta giorni di prognosi.

Oramai aveva la nomea dell’infiltrato e non c’erano tanti posti dove sentirsi al sicuro dalle nostre parti, così scelse di cambiare città e approdò a Roma. Forse all’epoca non era nemmeno certo di avere idee politiche precise, ma quella gratuita punizione e le conseguenze subite, lo portarono sicuramente a sposare la causa contraria. Arrivato a Roma, iniziò a frequentare il bar di Via Siena, vicino alla Facoltà, lì conobbe e prese confidenza con i giovani del FUAN, ragazzi come lui, che la pensavano allo stesso modo.

Entrò a far parte di una comunità affiatata, con spirito cameratesco, un po’ di goliardia, un po’ di politica, un po’ di gioco, un po’ di vita vera, quello che ci voleva per lui lontano da casa e in cerca di affetti. Miki era giovane e si era anche innamorato di una ragazza del gruppo, Sabrina Andolina, bella, di qualche anno più piccola e che lo ricambiava, forse sognò anche di sposarla e di non lasciare mai più la città dove si sentiva felice e accettato. Era un bel ragazzo biondo con gli occhi azzurri e il naso diritto come nel più classico dei profili delle statue greche. Non gli rende giustizia la foto che è divenuta poi per tutti la sua icona, dove è ritratto con i capelli corti e il ciuffo anni cinquanta oramai fuori moda. Era quella del passaporto, di quando era arrivato in Italia e vecchia ormai di cinque anni. All’epoca dei fatti Miki aveva ventitré anni, i capelli lunghi, portava la riga a sinistra con una pettinatura moderna che ricordava uno dei caschi lisci dei Beatles, aveva coltivato folti baffi e barba. Indossava camicie di jeans e pantaloni a zampa di elefante come tutti i suoi coetanei e portava un foulard al collo. Miki a detta dei suoi amici era un ragazzo posato, gentile, amante della libertà, e contrario a ogni forma di violenza. La sua Sabrina lo definiva estremamente educato e rispettoso: “un ragazzo d’oro, meraviglioso, come qualunque ragazza avrebbe voluto avere…era davvero tanto dolce e premuroso”.

“Il greco”, come lo avevano soprannominato, era sempre un po’ a corto di denaro perché viveva con la rimessa dei suoi genitori ai quali era consentito per legge, mandargli ogni mese dalla Grecia la cifra massima di 157.000 lire. Con quei soldi riusciva a pagare l’affitto di una stanza in un appartamento che divideva con altri tre ragazzi, le telefonate che regolarmente faceva alla madre in Grecia, comprava qualche libro e raramente gli restava qualcosa per uscire a divertirsi. Forse fu per gli occhi dolci di Sabrina chissà, Miki, a Roma fece anche quello che non aveva fatto a Bologna, firmando in calce, diede il suo aperto sostegno alla lista “anticomunista” per il consiglio di Facoltà di Medicina e Chirurgia alle elezioni universitarie de La Sapienza e prese la tessera del Fuan, ironia della sorte, solo pochi mesi prima di venire ucciso dai nemici giurati di quel movimento. La sua fidanzata lavorava come segretaria nella sede nazionale dell’MSI di via Quattro Fontane, 22, lui andava spesso a Palazzo del Drago a trovarla e insieme pranzavano coi buoni pasto della segreteria, commettendo anche una piccola frode. Infatti lei era la sola avente diritto, ma con l’aiuto di una fotocopiatrice, i buoni si moltiplicavano e a mangiare erano spesso in quattro o cinque, gli amici più stretti: Miki, Umberto, Stefano e Sabrina, tutti militanti. Nella trattoria scherzavano, come fanno i giovani della loro età, ma parlavano anche di progetti e di politica. Fu proprio in una di quelle occasioni, il giorno prima che Miki morisse, che Umberto Croppi lo rimproverò bonariamente di essere presente solo quando si trattava di mangiare e di defilarsi invece al momento di agire. Miki diede la sua disponibilità, come sempre e, l’indomani andarono insieme davanti al tribunale dove si stava tenendo il processo contro gli assassini dei fratelli Mattei.

In quei giorni a Roma era in atto una vera e propria guerriglia urbana fra gli studenti di sinistra e quelli di destra. L’apertura del processo “Mattei” aveva surriscaldato gli animi, quel frangente era diventato motivo di scontro tra due mondi, tra due eserciti. Imputati dell’eccidio erano Manlio Grillo, Marino Clavo, latitanti e Achille Lollo che invece era alla sbarra, tutti e tre militanti di potere operaio.

I due fratelli arsi vivi e la loro immagine apparsa su tutti i giornali per i giovani di destra era una ferita che bruciava ancora, andava placata con la presenza alle udienze e il sostegno alla famiglia. Si sentiva il bisogno di prendere possesso dell’aula del tribunale, del territorio circostante per cercare di trovare respiro da quel fumo che nel ricordo recente, ardeva e bruciava le narici e nasceva nei cuori di tanti ragazzi l’impellenza di vendicare quegli sguardi imploranti di Virgilio e Stefano in agonia.

Di contro la campagna fatta dalla stampa volutamente cieca e faziosa e da Soccorso Rosso, nelle persone di Franca Rame e Dario Fò, voleva gli imputati vittime innocenti e scaldava gli animi di chi si lasciava manipolare dalle falsità raccontate di “faide interne” all ‘MSI. Lotta Continua con veementi articoli di Adriano Sofri, inneggianti la mobilitazione, accusava addirittura Avanguardia operaia di aver abbassato la tensione e chiedeva a gran voce, di scendere in piazza per la liberazione del compagno Lollo. Il risultato fu che si era pronti a tutto, sia a destra che a sinistra.

Dopo tre giorni di processo fra scontri in piazza, molotov e sprangate, si contavano diversi feriti fra entrambi le fazioni, e qualche fermato dalle forze di Polizia. Le colluttazioni avvennero anche in tribunale, quando fu chiamata a intervenire la signora Annamaria Mattei che, subito dopo aver invocato il nome dei figli, svenne in aula colta da malore e fu portata fuori a braccia. Nonostante questo clima, Miki con i suoi camerati, continuava la vita di ogni giorno, lontano anni luce dall’odio che attanagliava e ottenebrava le menti dei suoi assassini. La sera del 27 febbraio era al cinema con alcuni universitari del FUAN a vedere “Mondo candido”, un film liberamente tratto dal Candido di Voltaire e che nonostante il successo che stava riscuotendo, veniva giudicato da molti “un guazzabuglio di luoghi comuni”. A lui invece piacque e gli amici ricordano di averlo sentito dire “ Per me è giusto morire per il proprio ideale. Almeno è coerente”. Come fosse una profezia di quello che gli sarebbe accaduto il giorno dopo.

La mattina successiva, la giornata di battaglia cominciò alle sei mezza del mattino con lanci di pietre, bulloni, e mentre la sassaiola mandava in frantumi i vetri del Palazzo di Giustizia, gli scontri iniziavano anche sulle strade, nelle piazze e in via Suore della carità venne esploso un colpo di pistola contro un dirigente del Fronte della Gioventù. Davanti al tribunale alcuni ragazzi schiacciati dalla pressante onda d’urto dei “compagni” che arrivavano da tre direzioni diverse convergendo verso le gradinate, dove loro si trovavano in attesa di entrare, vennero aggrediti e feriti.

Uno sarà ricoverato per la frattura a un braccio provocata dal lancio di un mattone, un altro invece per una ferita da arma da fuoco a un ginocchio. I tafferugli continuarono anche quando si aprirono i portoni e i giovani si ammassavano all’interno. Proprio nel vestibolo del Tribunale quella mattina due ragazzi vennero alle mani, furono fermati e identificati.

Uno era un giovane di destra proveniente da Reggio Calabria che, per aver colpito l’altro con un pugno al volto, tre anni più tardi, sempre secondo il metodo dei “due pesi e due misure” che la giustizia usava con i contendenti, fu regolarmente condannato. Il secondo era un certo Alvaro Lojacono e verrà invece rilasciato alle undici della stessa mattina, per il pronto e pressante intervento degli avvocati del collegio di difesa. Quello che potrebbe sembrare un irrilevante avvenimento in mezzo ai tanti, acquisisce importanza se visto alla luce dei fatti avvenuti successivamente. Alvaro Lojacono risultò infatti essere l’assassino di Miki Mantakas: se le forze dell’ordine lo avessero trattenuto, forse il giovane studente greco non sarebbe morto.

In quei momenti anche Miki e i suoi amici erano in tribunale, ma l’incontro fatale avverrà più tardi quando all’una, rinviata l’udienza, lui e altri giovani di destra si diedero appuntamento alla sezione di via Ottaviano. Gli appelli di Lotta Continua erano stati accolti, fuori una marea di giovani in assetto di guerra era pronta a caricare i ragazzi che uscivano. I giovani di destra si organizzarono, per sottrarsi al linciaggio, qualcuno li faceva salire in macchina, quattro a quattro, e li portava a destinazione. Miki fu tra i primi a lasciare la zona del Tribunale e a sottrarsi ai disordini in atto, forse pensò anche di essere stato fortunato, così all’una e un quarto era già in via Ottaviano, quando iniziarono a piovere le bombe molotov all’interno della sezione.
L’aria si era fatta irrespirabile nei corridoi, il timore era quello che rintanandosi dentro si potesse fare la fine dei topi, allora un gruppo, con un atto di coraggio decise di uscire da una porta posteriore, per attaccare alle spalle gli aggressori, nella speranza di allontanarli, ma la trappola era stata preparata nei dettagli e appena i giovani usciti girarono l’angolo del palazzo, li accolse una pioggia di fuoco. Miki Mantakas, armato solo di una cintura arrotolata sul pugno, venne raggiunto da un proiettile che gli perforò il cranio e cadde.

La pioggia di molotov continuava, furono momenti di autentico terrore, gli amici con la forza della disperazione, rientrarono dal portone ancora aperto e, nell’angosciante tentativo di salvarlo, lo portarono dentro un garage del palazzo. A confortarlo nei suoi ultimi momenti di vita, Franco Anselmi, che per anni conservò, come una reliquia il suo passamontagna intriso del sangue del camerata.

Quello che successe dopo nelle concitate ore successive fu un susseguirsi di sparatorie e inseguimenti, assalti, fumo, fiamme, i portoni dei garage dove era ricoverato Miki vennero crivellati di colpi e un altro missino cadde ferito nel cortile, e in quella che fu una vera e propria guerriglia anche alcuni passanti subirono ferite da arma da fuoco.

Quando tutto finì Miki Mantakas, “il greco”, era morto. E come sempre succedeva, ebbe inizio la danza delle menzogne, dei mistificatori che ne fecero un “truffatore” ucciso dai suoi stessi camerati. Una certa stampa inzuppò il pane anche nelle dichiarazioni della madre del giovane che professava lui e la sua famiglia come “antifascisti”. Il meccanismo ineffabile di dietrologia era stato innescato e Mantakas fu dipinto vittima di bieche vendette interne all’ MSI, come già era stato per i fratelli Mattei.

La fortuita cattura di Fabrizio Panzieri uno dei criminali con la pistola, da parte di un appuntato di passaggio, libero dal servizio, e l’arresto di Lojacono, riconosciuto da molti testimoni anche esterni alla sezione, diedero il via comunque a un processo che si concluse in primo grado con l’assoluzione di quest’ultimo e la condanna del primo a nove anni e sei mesi. Si scatenò l’ennesima campagna innocentista portata avanti dai soliti di Soccorso Rosso e da decine di intellettuali di sinistra che si prodigarono in una prolifica stesura di articoli e libri e di cui si fece portavoce persino la scrittrice Natalia Ginzburg che si diceva “turbata” ritenendo che i giudici avessero voluto in quel giovane innocente “condannare un’astratta idea di violenza”.

Astratta capite? Ancora oggi, dopo tanti anni, mi riesce impossibile immaginare come si possa essere così volutamente ciechi per definire violenza astratta quella che lasciò sull’asfalto un giovane di ventitré anni.

In Appello, nonostante la “minacciosa” e intimidatoria presenza di alcuni giudici di Magistratura democratica, che parlottavano col collegio di difesa, la sentenza fu di sedici anni per entrambi gli imputati, ma nelle more tra un ricorso in Cassazione e la condanna definitiva i “bravi” giovani fuggirono e si dettero alla latitanza. Lojacono, per tutti coloro che avevano sostenuto la sua causa, si fece onore negli anni a venire militando nelle Brigate Rosse, facendo parte del commando che rapì Aldo Moro, partecipando al rapimento Cirillo, fu accusato dell’omicidio dell’assessore Delcogliano e condannato all’ergastolo per l’assassinio del magistrato Tartaglione, del consigliere Schettini e di altri rappresentanti delle forze dell’ordine: carabinieri, marescialli di Polizia e non so chi altri dimentico nell’elenco, per un curriculum di tutto rispetto degno di un vigliacco che mai affrontò la giustizia italiana. Condannato solo in Svizzera, dopo nove anni era in libertà e dal 1999 è a tutti gli effetti un uomo libero.

Miki Mantakas però sopravviverà ai suoi assassini nel ricordo di chi non dimentica, di chi ha valori in cui credere che non tramonteranno mai. Una generazione di ribelli, di sognatori forse, o forse solo di incoscienti che hanno rischiato e osato sempre con onore. Una generazione di uomini e donne che anche nel ricordo di chi è caduto ha giurato di non arrendersi, di mantenere vivi i propri sogni e gli ideali che li rendono liberi “lanciando sempre il cuore oltre le stelle.”
 Franca Poli
 
 

LE -TROPPE- FAKE NEWS SULLA resistenza


Che vanno corrette per costruire una storia credibile

Sul tema ritorna Giampaolo Pansa con il suo ultimo libro Uccidete il partigiano bianco


Il sangue dei vinti, il libro edito Sperling & Kupfer con cui Giampaolo Pansa cominciò appassionatamente a riscrivere la storia della «guerra di liberazione», sta per compiere 15 anni, essendo uscito nel 2003. Da allora il giornalista monferrino, classe 1935, che ha attraversato la grande stampa italiana col suo peregrinare professionale (oggi il suo celebre Bestiario si legge su La Verità), da allora, dicevamo, Pansa è tornato spesso sul tema della memoria degli sconfitti o sulle pagine oscure, buie, della Resistenza.
Lo fa anche col libro che esce oggi per Rizzoli: Uccidete il partigiano bianco. Un mistero nella Resistenza, sulla fine di Aldo Gastaldi, mitico comandante genovese. Resistente cattolico dentro una divisione della Garibaldi e quindi di inquadramento comunista, Bisagno, questo il suo nome di battaglia, si scontrò col Pci e morì in un singolare incidente stradale nel Gardesano, a guerra da poco finita. Pansa gli aveva già dedicato un capitolo in Bella ciao. Controstoria della resistenza, uscito nel 2014, anch'esso per Rizzoli.
Domanda. Pansa lei aveva scritto di Bisagno nella sua recente Controstoria. Perché addirittura farne un libro?
Risposta. È vero. Le dirò di più, si parla di lui nel mio primissimo libro, la mia tesi di laurea, che mi valse il premio Einaudi e che fu pubblicata anni dopo da Laterza, Guerra partigiana fra Genova e il Po.
D. Certo, il personaggio aveva il suo fascino: sottotenente del genio che, subito dopo l'8 settembre 1943, sale in montagna e pensa che si debba combattere. Uno con le idee chiare.
R. La complessità del personaggio mi ha sempre appassionato. Un giovane bellissimo, che giocava a rugby, un pilone, un cattolico, morto ancora vergine, perché mai fuggito dentro il sesso che non fosse consacrato.
D. Non sarà stato un po' mitizzato?
R. Ma che dice? Lui comandava più di 500 uomini in Val Trebbia nell'estate del 1944, la divisione Cichero. E a notte fonda, inforcava la moto e spariva.
D. Andava a trovare la morosa?
R. Scendeva giù a valle in una parrocchia dove, d'accordo col prete, prendeva la messa, si confessava, faceva la comunione. E all'alba risaliva all'accampamento. Pensi un po'.
D. I suoi nemici, dissero che era un omosessuale.
R. Ne dissero tante. Perché, a un certo punto, per i piani egemonici del Pci, quel comandante bello, intelligente, coraggioso, militarmente preparato e con tanti partigiani che gli volevano bene, era un problema serio. Figuriamoci quando, insieme ad altri due comandanti non-comunisti, scrisse al comando generale di Milano che era ora di abolire le figure dei commissari politici, perché si preoccupavano solo di fare propaganda per il partito.
D. E lì, lei ipotizza, firmò la sua condanna a morte.
R. Sì, secondo me, quello di Bisagno fu un omicidio.
D. Non si tratta di un libro giallo e quindi non c'è il rischio di «spoilerare» il finale. Ricordiamo cosa avvenne.
R. Successe che Bisagno, nel maggio del 1945, volle onorare un impegno, ossia di riportare a casa loro alcune decine di alpini della Monterosa, precisamente del battaglione Vestone, che avevano lasciato al Repubblica sociale per passare alla Resistenza. Temeva che potessero essere oggetto di rappresaglie a casa loro, perché li si sapeva arruolati coi repubblichini.
D. Come? La diserzione e la militanza partigiana non li mettevano al sicuro?
R. Eh, caro Pistelli, ma quelli furono giorni terribili, un po' ovunque.
D. Lei infatti dedica un uno degli ultimi capitoli a ripercorrere il «carnaio» genovese.
R. A Genova, in pochi giorni dopo la liberazione, furono uccise per vendetta quasi 800 persone, di cui oltre la metà civili. Fascisti, si disse. Li trovavano al mattino con una mela in bocca e c'era un tram requisito dai partigiani che si incaricava di recuperare i cadaveri. Altri finirono scaraventati in mare.
D. Sono le stime di un'associazione di destra, «Gli amici di fra Ginepro», dedicata a un cappellano militare fascista.
R. Ma è un lavoro attendibile, tre volumi, dedicati ai caduti della Rsi. E poi di queste cose mi sono occupato. Le ricordo: ben 456 furono i civili, 76 le donne, in pochi giorni.
D. E Bisagno dov'era?
R. Lo tennero sapientemente lontano da Genova, sapevano che si sarebbe opposto alle esecuzioni sommarie. Ma torniamo alla sua fine.
D. Torniamoci.
R. Sulla via del ritorno succedono cose strane: Bisagno, uomo rigoroso, di poche parole, che portava sempre con sé una cartella di cuoio con alcuni documenti, comincia a farli leggere ad alcuni dei quattro partigiani che viaggiano con lui. Poi si mette a regalare i soldi che aveva con sé.
D. Una singolare ebbrezza, si direbbe.
R. Infatti, uno dei sospetti, che è anche la tesi della vox populi, è che abbia bevuto da un borraccia avvelenata. E anche l'epilogo mortale di quel viaggio è legato a un altro episodio pazzesco: Bisagno, a un certo punto, decide di viaggiare sopra il tettuccio di quell'autocarro Fiat 666. Se lo immagina? Con quelle strade, un viaggio lunghissimo. Forse voleva lenire i sintomi di quell'avvelenamento.
D. Infatti, a un certo punto, per evitare una colonna di uomini per strada, l'autista sbanda, e il comandante vola giù, finendo sotto le ruote del camion.
R. Così.
D. Una cosa strana, in effetti. Ma lei scrive che c'è anche un verbale dei carabinieri di Desenzano (Bs).
R. Perché morì in quell'ospedale. Senza un'autopsia, ovviamente, perché forse mancava anche un anatomopatologo.
D. E poi perché la guerra era appena finita, non si andava certo per il sottile. Mi chiedo però perché avrebbero dovuto ucciderlo, se gli altri due comandanti partigiani che, con lui, firmarono il documento contro i commissari comunisti, non subirono ritorsioni?
R. Perché nessuno si era duramente scontrato con l'apparato comunista come Bisagno. Fu lui, quando riuscì finalmente ad arrivare a Genova dopo la liberazione, a proporre che l'ordine pubblico fosse affidato agli americani, per fermare la mattanza in corso. Anche perché quella non era semplicemente vendetta, era chiaro.
D. Lei lo scrive: erano prove di colpo di Stato.
R. E Bisagno, col proprio prestigio e col proprio coraggio, con molti uomini in armi, era un ingombro. Da rimuovere, costasse quel che costasse. E poi, come spiegare le voci che si propagarono immediatamente dopo la sua morte e cioè che fosse stato ucciso, forse drogato sin dalla partenza da Genova?
D. Lei continua imperterrito a fare Il Revisionista, come titolò uno dei suoi moltissimi libri, dopo che col Sangue dei vinti aveva fatto infuriare un bel po' di sinistra.
R. Pensavano di offendermi e invece non è certo un'etichetta negativa, siamo nella storia contemporanea che non è certo un oggetto sacro da mettere sotto una teca di vetro, ma un cammino che non finisce mai, sul quale si aprono continuamente strade nuove da battere e che hanno bisogno di essere verificate. E mi faccia aggiungere una cosa...
D. Prego.
R. Mi convinco sempre di più di una cosa: la storia della Resistenza va riscritta. È una storia falsa, che così come è ricade in quella orrenda parola che va di moda adesso: fake news. Hanno riempito quella storia di notizie false, propalate, negli anni, dalla propaganda rossa.
D. Riscrivere una storia, non è cosa da poco. Serve ancora?
R. Ma che dice Pistelli? Ma non li ha sentiti quelle del corteo di Macerata? «Che belle le foibe a testa in giù»
D. Per la verità era «da Trieste in giù», perché si riferivano alla foiba di Bassovizza, che sta proprio nel comune giuliano, e perché poi la cantavano sull'aria della canzone di Raffaella Carrà, Tanti auguri, che comincia con «Come è bello far l'amore da Trieste in giù»
R. Beh, questi sono i nipotini politici di quei partigiani comunisti. Quelli che dicevano Bisagno è un rompicoglioni, non scopava neppure, era amico dei preti, voleva difendere la Patria con le armi.
D. Non c'è un pericolo di un nuovo fascismo?
R. Ma dove, Pistelli? Suvvia.
D. Beh, quel tizio a Macerata ha sparato.
R. Quello? Quello era un pazzo, come quelli che ti fanno le corna in macchina. Era pazzo della povera Pamela Mastropietro, la ragazza uccisa e fatta a pezzi, fatto per il quale si sospettano dei nigeriani. E chi lo dovrebbe fare, oggi, il fascismo? Francesco Storace?
D. Non credo che lui sarebbe d'accordo.
R. No guardi, non c'è fascismo che torni. Piuttosto, a quel corteo, quello delle foibe, ho visto tornare dei personaggi del G8 di Genova del 2001. Quelli sono sempre pronti.
 
D. E io torno al punto: serve provare a ricercare la verità?
R. Ma le pare possibile che, nel 2018, continuiamo a raccontarci delle balle? La gente, inevitabilmente, ci ride dietro, non tollera ascoltare dei Dottor Dulcamara.
D. Il ciarlatano dell'opera buffa di Donizetti.
R. Certo. Guardi, se si va a fondo nella ricerca delle verità, la Resistenza, la guerra civile ci apre per quello che è, spogliata di orpelli retorici, insinuanti. Se si approfondisce, viene fuori che nessuna guerra è giusta, tutte le guerre sono ingiuste. Sono diventato un pacifista tranquillo.
D. E quindi, il 4 marzo, per chi voterà?
R. Ah, le do una notizia: non vado a votare.
D. Come non va votare? Non ci credo.
R. E perché dovrei andare a votare per questi cialtroni di partiti? Ma figuriamoci. Quelli più vergini di tutti, i grillini, promettevano quattrini per il fondo del microcredito, che poi non versavano. Mi pare che lo dissi proprio con lei: qui ci può salvare solo un generale dei Carabinieri.
D. Sì lo disse in un'intervista, ma quella del colpo di Stato mi pareva una boutade.
R. Ma cosa le pare di un Paese dove un alunno sfregia con un coltello la sua insegnante, dove un padre malmena un professore solo perché ha rimproverato suo figlio? L'Italia avrebbe bisogno di essere un po' messa in riga, dia retta a me.
D. Però mi spieghi una cosa, Pansa. La sua tesi sulla Resistenza viene pubblicata nel '67, il Sangue dei vinti arriva nel 2003: ci sono più di trent'anni in mezzo. Perché non se ne è occupato prima.
R. Avevo un chiodo fisso, in testa: lavorare nei grandi giornali, ma ne ho scritto. Solo che ora
D. Solo che ora?
R. Solo che ora mi sono stufato di questo mito della sinistra, una delle tante sinistre, che ci ha fatto vivere una storia falsa, fasulla. E, da antifascista liberale, lo voglio dire. A 82 anni, anzi se il buon Dio mi ci fa arrivare, il 1 ottobre di quest'anno saranno 83. Se sto zitto ora, quando parlerò? Da morto, evocato da un medium?
D. Come vorrebbe essere ricordato, fra cent'anni?
R. Ci pensavo l'altro giorno, scorrendo la mia rubrica telefonica, diventata negli anni enorme. È sfogliandola che mi rendo conto di quanto lavoro sia passato. È piena di gente che è sparita e, badi bene, non è detto che sia morta. Spesso sono persone che hanno smesso di scrivere, di dire. Io la mia traccia l'ho lasciata, ma scrivo ancora. Scrivere è la mia assicurazione contro la dimenticanza: non voglio essere dimenticato. Anzi, spero che mi si ricordi con un gran rompicazzo. «Quel rompigcoglioni di Pansa».
twitter @pistelligoffr

Fonte italiaoggi.it 20/02/2018

Autore Goffredo Pistilli

FONTE: http://www.arcsanmichele.com/index.php/storia/54-storia-ditalia/10334-sulla-resistenza-troppe-fake-news

domenica 25 febbraio 2018

Perché l'astensione preoccupa i "padroni del vapore"


Quel che conta, come ha chiarito magistralmente Max Weber, è che il potere sia creduto legittimo da coloro che vi sono sottoposti, o, quantomeno, da una buona parte, per assicurare una certa stabilità al sistema e al potere stesso. Ma nell’Italia democratica, e anche in molte altre democrazie occidentali, questa credibilità è venuta meno in fasce sempre più larghe della popolazione.
  
In vista della fatidica data del 4 marzo Peter Gomez ha pubblicato un interessante libretto, Il vecchio che avanza, che è una sorta di ‘avviso ai naviganti’ per un voto se non ‘utile’ almeno consapevole, mentre si moltiplicano gli inviti, istituzionali e non, anche larvatamente minacciosi, a recarsi alle urne come sacro diritto/dovere del cittadino democratico.
Ma cosa sia la democrazia, e in che senso si differenzi da qualsiasi altro sistema di potere nessuno ce lo spiega, dandolo per scontato.
Partiamo dalle cose più divertenti. Noi paghiamo della gente perché ci comandi. Un masochismo abbastanza impressionante che, come notava già Jacques Necker nel 1792, “dovrebbe lasciare stupiti gli uomini capaci di riflessione”. Evidentemente noi contemporanei questa capacità di riflessione l’abbiamo perduta e che ci sia un potere sopra le nostre teste lo diamo come irreversibile, ma farebbe inorridire o sbellicare dalle risa un Nuer. I Nuer sono un popolo nilotico che vive, o meglio viveva, nelle paludi e nelle vaste savane dell’odierno Sudan meridionale. Un Nuer non solo non paga nessuno perché lo comandi, ma non tollera ordini da chicchessia. I Nuer infatti non hanno capi e nemmeno rappresentanti. “E’ impossibile vivere fra i Nuer e immaginare dei governanti che li governino. Il Nuer è il prodotto di un’educazione dura ed egalitaria, profondamente democratico e facilmente portato alla violenza. Il suo spirito turbolento trova ogni restrizione irritabile; nessuno riconosce un superiore sopra di sé. La ricchezza non fa differenza…Un uomo che ha molto bestiame viene invidiato, ma non trattato differentemente da chi ne possiede poco. La nascita non fa differenza…Ogni Nuer considera di valere quanto il suo vicino”. Così li descrive l’antropologo inglese Evans-Pritchard che, negli anni Trenta, visse fra loro a lungo e li studiò. Un miracolo? O, quantomeno, un’eccezione? Non proprio. Si tratta infatti di una di quelle “società acefale”, di quelle “anarchie ordinate” nient’affatto rare nel Continente Nero prima della dominazione musulmana con le sue leggi religiose incompatibili con la libertà e, soprattutto, prima che arrivassimo noi con la nostra democrazia teorica, in salsa liberale o marxista, funzionale alla nostra economia, che ha completamente distrutto l’equilibrio su cui si sostenevano le popolazioni africane e l’Africa stessa. Queste società erano riuscite a coniugare libertà e uguaglianza, due poli apparentemente inconciliabili su cui i figli dell’Illuminismo, i liberali e i marxisti, si accapigliano da un paio di secoli facendo elaborazioni raffinatissime ma senza cavare un ragno dal buco. Il fatto è che i Nuer, o tutte le società consimili, pensano, proprio come Locke uno dei padri della democrazia liberale, che gli uomini nascano, per natura, liberi, indipendenti e uguali. Ma questo nel mondo liberale o marxista non è mai avvenuto e tuttora non è.
Il nocciolo della questione è che nessun potere, qualsiasi potere, è legittimo. Si tratta solo di finzioni. Conviene Stuart Mill: “Il potere stesso è illegittimo, il miglior governo non ha più diritti del peggiore”. Nessun potere è di per sé legittimo per la semplice ragione che si deve rifare a un punto di partenza concettuale che è, per forza di cose, del tutto arbitrario. Quel che conta, come ha chiarito magistralmente Max Weber, è che il potere sia creduto legittimo da coloro che vi sono sottoposti, o, quantomeno, da una buona parte, per assicurare una certa stabilità al sistema e al potere stesso. Ma nell’Italia democratica, e anche in molte altre democrazie occidentali, questa credibilità è venuta meno in fasce sempre più larghe della popolazione. Da qui il fenomeno crescente dell’astensione che preoccupa i ‘padroni del vapore’, in particolare i partiti, perché capiscono benissimo che se si estendesse ulteriormente la sarebbe finita una volta per tutte col loro potere illegittimo e prevaricatorio. E noi torneremmo a essere liberi, indipendenti e uguali. Come i Nuer.
 
 
Massimo Fini