Un racconto inedito
Le stelle brillano come piccoli diamanti sul panno nero del gioielliere sopra alla golena destra del fiume Brenta, subito oltre il ponte di Stra. Giù, in mezzo ad afa, zanzare e sentori di marcio portati da un vento caldo ci sono tre uomini: due seduti su sedie di legno, uno in piedi vicino ad una Volvo 850 Station Wagon nera. L’autoradio in funzione manda “Vincent” di Don McLean. Ad un paio di metri dall’auto una pala è piantata nel terreno. A venti centimetri da questa c’è una fossa scavata di fresco. Un buco nel terreno largo circa due metri e profondo, sì e no, uno e mezzo.
L’uomo in piedi è Franco Pagnin, detto Franco “Cartòn”. Un metro e novanta per un quintale e venti di muscoli, sorriso cirrotico (che alcuni sospettano essere una paresi facciale) e sudore diffuso. Veste una lisa maglietta di Topolino, chiazzata di crema pasticcera e calcestruzzo rappreso, jeans corti. Quarant’anni, forse.
Uno dei due uomini seduti, quello che impugna la Sig-Sauer P226 in calibro 40 S&W, è Luciano Barzon, detto “Ciano Cina”. Un metro e ottanta per ottantatre chili: fisico tonico e asciutto, capelli neri corti e il setto nasale da pugile. Il viso dice che di botte, e non solo, ne ha prese parecchie. Le sue mani dicono che ne ha date anche di più. Porta al collo una catenina d’oro con una medaglietta della Santa Vergine Maria. Siede a gambe divaricate, braccia sullo schienale della sedia, Sig-Sauer colpo in canna e sicura inserita nella mano destra, appoggiata sopra il gomito sinistro.
Ciano scruta ad occhi stretti l’uomo che gli sta di fronte mentre batte ritmicamente l’indice destro sul castello della pistola. L’uomo seduto di fronte a lui è Fabrizio: ha meno di cinquantacinque anni, smilzo, sul metro e settanta, indossa pantaloni grigi ed una camicia hawaiiana. Porta un baffo castano, tinto, e i pochi capelli che la calvizie ha risparmiato, sono lunghi e aderenti al cranio. Fabrizio è sudato, i vestiti sporchi di terra, l’espressione stravolta e il viso gonfio per le botte. I polsi, ora liberi, recano i segni delle manette. Sulle mani si intravedono alcune piaghe: scavare fosse con una pala non è una delle sue occupazioni abituali. Ha il battito accelerato e la bocca impastata, ma la paura, finora, lo ha fatto comunque parlare svelto.
La giornata è stata calda. Calda e umida. Sulla golena del Brenta si sente il brusio confuso e distante dei mezzi in transito sulla A-13, l’incessante verso dei grilli e, di tanto in tanto, il rumore delle grosse nutrie che si tuffano nelle acque del fiume. Intorno ai tre, per molte centinaia di metri, l’argine e campi di granturco. Il tutto, infestato da qualsiasi specie di insetto volante, esistente sul territorio Veneto.
«Ho pensato che potrei anche star qui a spiegarti perché siamo arrivati a questo punto, ma a che servirebbe?» Dice Ciano Cina con voce lenta, tormentando il ponticello della Sig-Sauer.
«Ma… ma come… i soldi li avete avuti no?», risponde Fabrizio con voce incerta.
«Si, i soldi li abbiamo avuti. Anche se non tutti».
«Ti ho detto che gli altri te li porto domani».
«Punto primo, si era detto: il resto dei soldi a lavoro finito. Il lavoro è finito e il “resto” dei soldi non c’è. Andiamo male. Punto secondo…»
«Si ma ti ho spiegato…»
«Non mi interrompere, cazzo. A me e al mio amico Franco non ce ne sbatte un cazzo delle tue spiegazioni e, cosa molto più importante, il signor 40 S&W non ha orecchie, e sai perché? Perché non è fatto per sentire storie. Quindi a nessuno qui interessano le tue spiegazioni. Però ti darò la mia, di spiegazione…».
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La Trattoria-Bar “Al Pozzo” si trova sulla strada che attraversa Noventa Padovana. Duecento metri prima della Chiesa sul lato della Tabaccheria, trecento dopo il centro commerciale, di fronte alla Cassa di Risparmio. La Trattoria-Bar “Al Pozzo” è un locale di circa trecento metri quadri che odora di pesce fritto, sugo di pomodoro, pane tostato vino e caffè. Ma soprattutto: vino. Entrando, nella parte sinistra c’è la sala bar, con quattro tavoli da otto posti e due più piccoli da quattro, in noce massiccio. Un frigo dell’Algida che ronza imperterrito estate e inverno e una televisione che trasmette partite di calcio trecentosessantacinque giorni l’anno. La parte destra del locale è riservata ai tavoli per il servizio ristorante: specialità pesce. Dalla parte opposta dell’ingresso principale, oltre la sala del bar, c’è il bancone. Un banco in marmo e legno di quasi sei metri che, nella parte sinistra, curva di novanta gradi nel punto in cui sono situate le spine della bevande alla mescita e prima che cominci il banco dove, sudati, riposano gli affettati. Dietro il bancone, esattamente tra le spine e il banco dei salumi c’è uno sgabello. Sopra quello sgabello c’è, ogni giorno che Dio manda sulla terra, Renato. Stuzzicadenti in bocca, gazzetta dello sport in mano e, sempre a portata di mano, una doppietta cal.12 Sauer & Son, a cui sono state mozzate le canne e segato parte del calcio, caricata con cartucce 10/0.
Renato Caldon sessantacinque anni, un metro e settantotto per ottantacinque chili di baffi, addome e braccia tatuate. Renato è un uomo pragmatico e generoso, di quelli a cui nessuno penserebbe mai di fare un torto… soprattutto per non doverne pagare le conseguenze.
Sono passati quasi dieci anni da quando, alle h 13.14 di un venerdì di maggio Claudio varcò la soglie dell’osteria per la penultima volta. Il ragazzo, noto tossicodipendente, aveva una storia tormentata con Lucia, la figlia di Renato.
«Dov’è tua figlia?» Biascicò Claudio appoggiando un pacchetto di Merit sul bancone, prima di accendersene una.
«La Gà dito che no la vòe più vederte» rispose Renato senza alzare gli occhi dalla Gazzetta.
«Ma io devo…»
«Ti te ghe da ‘ndare in figa de to mare, e anca de corsa, scarpe da ginnastica e tutto».
«Ma no, lascia che…»
«No cossa? A chi!? Oh, mago! Pènsito che no a gabia vista che altra sera rivar casa co un ocio nero?! Eh! Pensito che semo tutti immattonìi come ti. Testa da caxo! Ringraxia el to dio che… Và… và fòra da che a porta… e no sta gnanca sognarte de metteghe pìe de novo finche so vivo mi, parchè te butto via a testa!» sbraitò Renato che paonazzo in volto, aveva abbandonato la Gazzetta dello Sport e brandiva minaccioso il suo stuzzicadenti, con una vena sulla fronte che sembrava voler esplodere.
Claudio si voltò e senza dire una parola uscì. Renato ricominciò a leggere la Gazzetta e a masticare nervoso il suo stuzzicadenti. Dopo nemmeno un minuto Claudio rientrò nel locale. Quando Renato lo vide afferrò la Sauer & Son, armò entrambi i cani, la puntò e premette entrambi i grilletti, contemporaneamente. Claudio fece appena in tempo ad alzare le braccia e urlare: «Prendo le sigar…» Le due canne fecero fuoco, l’arma s’impennò con un ruggito mostruoso, emettendo una vampa di almeno quaranta centimetri. Una grandinata di piombo investì Claudio. Il corpo viene proiettato indietro di quasi un metro, schiantandosi dentro al frigo dei gelati, tra cremini e cornetti all’amarena. Sangue e brandelli umani sulle pareti.
Il boato era stato tremendo, nel locale l’odore della polvere da sparo si mischiava al fumo di sigarette e a bestemmie sommesse d’incredulità e spavento. Poi, pian piano, silenzio.
Renato scese dallo sgabello, con la flemma di chi pensa “uno stronzo che mi vola dentro al frigo dei gelati, oggi, non ci voleva proprio, cazzo”. Trascinò le ciabatte fino al cadavere con la lupara ancora fumante in mano. Lo guardò un istante. La parte sinistra del volto non c’era più e della materia organica colava dal cranio scoperchiato sopra i calippi alla coca cola. Renato tornò dietro il bancone, poggiò la doppietta “da banco” aprì un cassetto e ne estrasse una vecchia pistola Bernardelli modello 60 in calibro 9mm corto con la matricola abrasa. Le vecchie abitudini sono dure a morire. Ritornò al frigo dei gelati, cercò di sollevare il cadavere, dopo poco ci rinunciò, mollando la presa sul corpo e facendolo ripiombare tra i gelati. Strinse le dita del morto attorno al calcio della Bernardelli ed urlò: «Tenti. Stròpève e rèce!» Gli avventori prontamente si portarono le mani alle orecchie. Renato fece in modo che l’indice del cadavere premette sul grilletto. Esplosero due colpi di pistola, che si conficcarono novanta centimetri sopra il suo sgabello dietro al bancone. Renato lasciò cadere l’arma bestemmiando perché si era reso conto che il frigo era da buttare.
«Lo avete visto tutti: questo xe entrà sìgando come un matto el nome de me fiòea, probabilmente era drogato, gha tirà fora a pistoea el gha taccà sparare. Io mi sono difeso».
Dopo un istante di sconcerto si levò un coro di: «…sì beh, potrebbe anche essere andata così…», «…sì, sì è andata così…», «…sì, come che te dìxi ti Renato…». Per poco non scattò l’applauso con tanto di standing-ovation quando Renato, dirigendosi verso il bancone disse, a voce alta rivolto ad uno dei camerieri: «Oggi offre la casa, Francesco porta da bere a tutti».
Poi, dirigendosi verso il telefono accartocciò un pacchetto di Merit che raccolse dal banco e, gettandolo nel cestino, alzò la cornetta e compose il 113.
Osteria “Al Pozzo” Noventa Padovana. Lunedì 13Luglio, h 16.15.
Ciano Cina, Franco Cartòn e Fabrizio sono seduti ad un tavolino. Fa un caldo infernale. A parlare è Fabrizio.
«Mi hanno detto che voi, di mestiere, risolvete problemi».
«Dipende. A volte i risolvemo, a volte i femo saltar fora», risponde Franco tergendosi con il dorso della mano della crema pasticciera dal labbro inferiore.
«Dipende sempre dai punti di vista», conclude Ciano con un ampio sorriso.
«Ecco vedete…io ho un problema» dice Fabrizio appoggiando le mani ingioiellate sul massiccio tavolo marrone, e protendendosi in avanti col busto.
«Chi non ne ha?» risponde Ciano.
«Ma questo credo che voi lo possiate risolvere, se è vero ciò che mi hanno detto sul vostro conto».
«Mettiamo il caso che quelle che ha sentito sono tutte stronzate. Facciamo che lei ci dice di cosa si tratta, e noi le diciamo cosa possiamo fare».
«Beh, ecco, mi manda il mio… si, il mio capo».
«Che si chiama?»
«Beh…il mio capo preferisce mantenere l’anonimato, sa per ovvie ragioni… mettiamo che voi rifiutate e corriate dalla polizia…»
Cina e Cartòn si scambiano un occhiata. Cartòn sorride ancora, e Fabrizio ha già ripreso a parlare.
«Ecco il mio capo vuole che voi preleviate delle cassette di sicurezza che saranno in transito giovedì mattina».
«Io non ho mai visto una cassetta di sicurezza che “transita”, e tu Franco?» chiede Ciano, poi rivolto a Fabrizio
«Che cazzo vuol dire “saranno in transito” si spieghi meglio».
«Beh, ecco vedete la cassa di risparmio di Noventa, sta per essere trasferita nella nuova sede di Padova, in Zona Fiera. Quindi hanno cominciato a trasferire tutta la roba, cassette di sicurezza incluse. Le spostano con i furgoni blindati. Al mio capo interessano due cassette di sicurezza: la 2011 e la 2012. Voi le prendete e vi beccate diciamo… ventimila euro, in contanti».
«Prendere delle cassette blindate, da un furgone blindato, eh? Non credo che basterà accostarsi e tendere la mano per averle, giusto?» Dice Cina, e Franco, sorridendo, borbotta qualcosa tra le briciole di una brioche alla crema.
«Già – riprende Fabrizio – è per questo che vi paga il mio capo».
«Cosa c’è dentro le cassette numero 2011 e 2012?»
«Non è necessario che voi sappiate neanche questo».
Ciano Cina si apre in un sorriso smagliante rivolto a Franco Cartòn, il quale però non sorride più ma poggia la brioche sul tavolo. Poi scatta e molla due schiaffoni violentissimi a mano aperta a Fabrizio che di fronte a quella violenza gratuita e del tutto inaspettata resta quasi sotto shock.
«Sentimi bene brutto figlio di puttana, ti sei seduto da tre minuti e mi hai già fatto girare i coglioni due volte. Se ce ne sarà una terza ti ritrovi al Creatore con tanto di braghe piene di merda addosso, entiende? “corriate dalla polizia”? “Non è necessario che voi lo sappiate”? Oh Bello, ma con chi cazzo credi di aver a che fare?! Pensi di poterci dare degli infami così, a gratis?!?!?!? Ti presenti con questa faccia da frocio pompinaro e ci proponi di assaltare un cazzo di un furgone blindato così, come se stessimo parlando di andare a comprare le pizze, e fai anche lo stronzo?! Vaffanculo. Da adesso in poi quando ti faccio una domanda, mi dai la cazzo di risposta che voglio. Tu non dici stronzate, io non dico stronzate: nessuno è scontento. Se invece mi fai scontento ridipingo sta cazzo di baracca con il tuo cervello di merda. Allora, cosa c’è in ste cazzo di cassette di sicurezza del cazzo?»
Fabrizio è ancora inebetito dagli schiaffi e dal tono di Franco Cartòn, ma nonostante tutto riesce a mantenere quel tanto di lucidità che gli serve per rispondere: «Dei filmati… il mio capo a letto con una donna… cioè con una donna che non è sua moglie. La moglie del mio capo lo ricatta con quei filmati: se lui non fa quello che vuole la mogliettina lei chiede il divorzio, presenta i filmati al giudice e lo lascia in mutande».
«Come si chiama il tuo capo?»
«Gianni, Gianni Contin»
«Capisco. Ventimila euro, hai detto?»
«Sì, in contanti a lavoro finito».
«In contanti sì, a lavoro finito: sto cazzo. Domani a quest’ora voglio diecimila euro in contanti, più il materiale che ti chiedo».
«Materiale?»
«Armi, mezzi…non possiamo mica presentarci con il cappello in mano e chiedere se per cortesia ci danno un paio di cassette di sicurezza, no?»
«Si beh, ma armi io non saprei dove…»
«Ho capito, allora domani me ne porti quindicimila, cinquemila conto spese, e diecimila quando ti consegniamo le cassette. Questa è la mia unica e ultima offerta».
Lunedì 13 Luglio, h 18.14. Statale del Santo.
La Volvo 850 Station Wagon procede in direzione Camposampiero a settanta chilometri l’ora oltre il limite di velocità consentito, Franco Cartòn al volante.
«Ma… Sergio Contin, non ha un figlio?»
«Già».
«E non si chiama Gianni?»
«Già, già. Il farmacista che s’è comprato mezzo ippodromo».
«E te lo vedi a scopare un’altra donna?»
«Perché, tu te lo vedi a scopare una donna? Lo sanno tutti che è frocio come il male e che s’è sposato solo perché se no il vecchio non gli avrebbe lasciato una lira in eredità. Tutto ai frati del Santo voleva dare… e poi te lo vedi a mandare qualcuno a chiederci se gli assaltiamo un furgone blindato?
Mmh…».«Cosa dici Franco, quando abbiamo preso i ferri dal Santone passiamo in farmacia per un aspirina e due chiacchiere?». «Mejo xè!»
I due arrivarono a destinazione. Un silo per lo stoccaggio dei cereali che un sedicente Santone aveva trasformato nella sua residenza. Non che ganglio di un traffico di armi, droga e lettura dei tarocchi alle vecchie della zona.
— —
Da Il Mattino di Padova: Il letame và a ruba nel Piovese.
Singolare furto ai danni di un imprenditore di Piove di Sacco. La scorsa notte alcuni malviventi hanno sottratto dal piazzale dell’azienda “Suppio Trina” Di Trina Daniele (57 anni) un mezzo pesante adibito alla rimozione ed al trasporto delle acque fognarie. La rimozione e il trasporto di acque nere è infatti il campo d’attività dell’azienda del piovese. La cosa singolare, a detta degli inquirenti, è che dalle modalità di attuazione del furto pare che i ladri abbiano accuratamente scelto “quella” cisterna, che aveva l’unica particolarità di essere essere la sola delle ventitré presenti sul piazzale, ad avere la cisterna piena di liquami. Sono state avviate le indagini senza escludere nessuna ipotesi, dicono gli inquirenti».
Giovedì 16 Luglio h 10.42 Padova, Via Venezia.
Uno, due, tre, volte la mano di Antonio si schianta sulla plastica nera, è grondante di sudore, gli occhi iniettati di sangue, ha deciso: «a questa fetusa ci sparo!» porta la mano destra alla fondina, mentre la sinistra continua a picchiare.
«Sta bon’ Teròn, cossa xe che te ghe? Lo sai che è rotta l’aria condizionata!»
«Questi minchia di furgoni blindati! Blindati? Dei minchia di forni sono, vafanculo questo caldo di merda… ci sparo a questa aria condizionata di merda!»
«Dèi, dèi, sta bon…. anzi fai una bella cosa – dice Alberto mettendo la freccia a destra e sterzando il volante del furgone blindato parcheggiandolo così nei posteggi riservati ai clienti di McDonald’s. – Vai a prendermi due panini, e prenditi quello che vuoi…» Alberto allunga al collega una banconota da venti euro, Antonio, che ha rinunciato a sparare al condizionatore del furgone blindato su cui monta servizio, lo guarda con respiro affannoso e occhi sbarrati, afferra i venti euro e scende dal furgone imprecando. Alberto segue con gli occhi il collega e sbuffa in un sorriso scuotendo la testa mentre cerca nel taschino della divisa il pacchetto di Marlboro.
«Perché minchia non siamo passati per il McDrive?» bercia Antonio rimontando in furgone e lanciandovi dentro il sacchetto unto con i panini
«Perché così ti facevi due passi, prendevi un po’ d’aria condizionata». Alberto getta la cicca dal finestrino, mette in moto, fa manovra ed è già nel traffico.
Il tempo di arrivare all’incrocio della Stanga e Alberto stà già azzannando il terzo cheeseburger, mentre una buona parte degli altri due sono disseminati per la sua barba. Antonio, dopo due morsi al suo hamburger, cerca refrigerio nella bibita ghiacciata. Il semaforo diventa verde il serpente di vetture sobbalza e si dirama pesante e puzzolente nella calura. «Che minchia di caldo!» latra Antonio espirando, ed appoggiandosi al finestrino mentre la parte destra della divisa si appiccica al corpo.
Poi lo vede, anzi lo percepisce con la coda dell’occhio. Antonio capisce che da destra arriva un’ombra. Si sente sbalzare e il sotto diventa il sopra e il sopra diventa il sotto, due volte almeno, gli pare. Poi un impatto e tutto si ferma. Il blu della divisa e il duro freddo del parabrezza sul viso, finalmente un po’ di fresco, fa appena in tempo a pensare Antonio prima di perdere i sensi.
Quando riprende conoscenza sente in bocca sapore di sangue e merda. Ancora prima di aprire gli occhi capisce che il sangue in bocca è il suo, ma il gusto di merda è un odore che gli ha invaso il palato. Apre gli occhi e si trova aderente al parabrezza lato guida con l’addome che schiaccia il volante, dolori ovunque. Oltre il parabrezza c’è nebbia.
«Ma come minchia guidi Albè’…» biascica Antonio prima di accorgersi che il suo collega si è spezzato il collo contro il montante del furgone. Qualcosa gli ha urtati e si sono fermati contro il palo che sta al centro dell’incrocio. Il furgone ora è ribaltato sul fianco sinistro, muoversi è un casino. Antonio non capisce però la puzza di merda e la nebbia all’esterno. Da fuori arrivano anche claxon in lontananza e qualche schiamazzo, lontano. Dopo pochi istanti vede, attraverso il parabrezza, un bipede con tuta da lavoro, cappuccio e maschera anti-gas che fa rotolare al suolo una serie di fumogeni manco fossero biglie sulla spiaggia. Non riesce però ad individuare la fonte del fetore di merda, deve venire dall’esterno.
Una mano sbatte sul parabrezza due volte, un altro bipede con maschera anti gas e tuta blu, questo però, a differenza del primo tiene a tracolla, sul davanti, un fucile Colt M4, sulla schiena a modi zaino ha un altra arma, un fucile sembra, strano però… in mano tiene dei fogli formato A4, ne piazza uno sul parabrezza, c’è una scritta: “buttate le chiavi fuori dal finestrino senza fare stronzate e vi lasciamo in pace”.
Antonio legge e latra un “ma vafanculo” poi estrae la Beretta sta per sparare al bipede ma… si ricorda che il vetro è blindato e che forse non sarebbe una buona idea. Allora prende la sua copia delle chiavi e tenendole tra pollice ed indice le mostra al soggetto con il cartello e le armi e, sempre pensando che il vetro è blindato, mostra il dito medio. Poi prende la radio e… e si accorge che è muta. Prende il cellulare e… non da segnale. L’uomo davanti al parabrezza cambia cartello e batte sul vetro per attirare l’attenzione di Antonio: “cellulari e radio fuori uso nel raggio di cento metri”. L’uomo con la tuta agita quello che sembra ad Antonio un congegno elettronico e pare sorridere sotto la maschera antigas. «Figli di bottana» pensa Antonio, madido di sudore.
Maschera antigas cambia cartello: ho con me un Barret cal.50 se non gettate le chiavi vi butto via la testa. Antonio legge il cartello, poi accartoccia il viso in segno di incomprensione e fa un gesto con la mano a significare «e che minchia me ne fotte a me di quello che tieni tu», e portandosi l’altra mano ai genitali mima «io tengo sta minchia se voi poi sucarla». Maschera sbuffando, fa cenno di levarsi di mezzo ad Antonio, si fa scivolare sul davanti il fucile strano e fa fuoco in direzione dell’abitacolo. Un frastuono violentissimo, quasi peggio del cappottamento.
Quando Antonio tira fuori la testa da sotto il volante vede che c’è un foro d’entrata nel parabrezza, che è ancora in fiamme, il foro continua sul sedile passeggero. Antonio chiude un occhio e ci guarda dentro. Il proiettile ha forato il furgone in tutta la sua lunghezza uscendo da dietro e facendo esplodere il motore di una Ford focus che giace in fiamme. Antonio si raddrizza, per quanto la posizione dell’abitacolo glielo consente, deglutisce e suda. Poi quasi scavalcando il cadavere di Alberto abbassa il finestrino, viene investito da una zaffata di merda, e lancia fuori le chiavi. Maschera, ricomparso dopo il boato, si porta due dita alla fronte in cenno di saluto, appoggia un altro cartello sul parabrezza: «Grazie» e sparisce. «Vafanculo» pensa Antonio.
Giovedì 16 Luglio h. 11.29 Campagna Lupia (Ve) Casolare ricovero attrezzi agricoli.
«Hai capito il nostro pompinaro cosa ci combina?» dice Ciano a Franco mentre estrae il dvd dal lettore, spegne la tv lcd sopra la cassetta degli attrezzi e la falciatrice, e lo rimette nella custodia.
«Già, Già».
«Che dici, diamo un occhio alle altre?» Chiede Ciano gettando lo sguardo ad un cumulo di cassette di sicurezza stipate nel bagagliaio di una Land Rover parcheggiata nel capanno.
«Ovvio! Però non ho mica capito, perché hai voluto che spargessi tutta quella merda all’incrocio? Che senso ha c’erano già i fumogeni a creare scompiglio…»
«La merda è sempre merda», rispose Ciano in tono solenne accendendo la fiamma ossidrica ed accostandola ad una cassetta di sicurezza.
Giovedì 16 Luglio h 23.48. Argine Fiume Brenta.
«La mia spiegazione è che tu hai pensato di prenderci per il culo. Dice Ciano a Fabrizio»
«Ma no io…»
«Tu un cazzo! Ti avevo detto di non dire stronzate, che mi avevi gia fatto girare i coglioni due volte e la terza sarebbe stata l’ultima ma tu niente… cosa ti costava dirci: ragazzi, mi scopavo la moglie del mio capo e lei adesso mi ricatta, se non faccio il suo cagnolino mi fa spellare vivo. Noi ti avremmo detto: e che problemi ci sono, caccia i soldi e ti risolviamo la cosa!»
«Ma tu no, hai voluto infamare il tuo capo, il buon Gianni, che lo conosco da una vita sai… ha voluto raccontare balle. Perché? Perché sei un vigliacco di merda e non hai il coraggio delle tue azioni. Io dico va bene, cazzi tuoi, ma non mi prendi per il culo tre volte. Non posso lasciartela passare tre volte, perché essere buono tre volte da noi vuol dire essere “mona”».
Ciano alzando al Sig-sauer fa fuoco due volte, il primo proiettile apre un buco in piena fronte a Fabrizio, il secondo va ad indagarne il ventricolo destro.
Sangue, pochi rantoli e il cadavere stramazza al suolo con qualche spasmo e un espressione d’orrore in viso.
Franco e Ciano afferrano il cadavere e lo trascinano nella buca.
«Cazzo, potevi farlo mettere in piedi davanti alla buca, però» sbuffa Franco.
«E non stare a lamentarti» replica Ciano.
«Dì, ma veramente ti sei incazzato perché ti ha dato del mona?»
«Vecchio – dice Ciano cominciando a spalare terra sul cadavere – con quelle cazzo di cassette di sicurezza, cioè non quelle dove c’era il filmato, tutte le altre che abbiamo preso… abbiamo beccato trecentoventi mila euro, più o meno. Sono SEICENTO milioni di lire, cioè dico SEI-CENTO! L’unica cosa che collega noi all’assalto al furgone della stanga era sto tizio qui. Uno che si scopa la moglie del suo capo, si fa prima filmare e poi ricattare da lei. Così, quando si trova nella merda fino al collo pensa bene di entrare in osteria e assoldare due come noi per recuperare i filmati assaltando un blindato. Insomma: sarebbe stata una grossa stronzata lasciarlo vivo!»
«Già, una grossa stronzata».
«Poi del mona, a me non l’ha mai dato nessuno».
«Nessuno che sia ancora vivo, intendi».
Ciano, fece un sorriso all’amico e gettando l’ultima palata di terra disse:«Birretta da Renato?»
Ora soffiava un alito di brezza, calda, che portava effluvi ed odori marcescenti e sinistri più che mai dalle acque del Brenta.
di Marco Busatta
FONTE:http://sugarpulp.it/tre-volte-buono-vuol-dire-mona/
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