Pavia, 22 dicembre 1871 – Udine, 6 luglio 1942
Mori, uomo scomodo come tanti, morì dimenticato dalle istituzioni
ma il suo operato,al servizio della società civile
non si potrà mai dimenticare:
ma il suo operato,al servizio della società civile
non si potrà mai dimenticare:
fu capace di stroncare le ali alla mafia e tenerla a bada per almeno dieci anni.
Chissà cosa sarebbe oggi l'Italia
se ai vertici avessimo avuto tanti Cesare Mori
se ai vertici avessimo avuto tanti Cesare Mori
Cesare Primo Mori -Pavia, 22 dicembre 1871 – Udine, 6 luglio 1942-
Nei primi anni di vita crebbe nel brefotrofio di Pavia con i nome e cognomi provvisori Primo Nerbi (in quanto fu il primo orfano ad essere accolto: Primo resterà comunque il suo secondo nome); fu riconosciuto dai suoi genitori naturali nell'ottobre del 1879. Studiò presso l'Accademia Militare di Torino, ma avendo sposato una ragazza, Angelina Salvi, che non disponeva della dote richiesta dai regolamenti militari dell'epoca, dovette dimettersi. Passò quindi in polizia, operando prima a Ravenna, poi, nel 1904, a Castelvetrano, in provincia di Trapani.
A Castelvetrano, nel trapanese, Mori cominciò subito ad agire energicamente, usando quegli stessi metodi decisi, inflessibili e poco ortodossi che riprenderà - con un'autorità ed una libertà di azione incomparabilmente superiori - molti anni dopo in tutta la Sicilia. Compì numerosi arresti e sfuggì a vari attentati: fu infinite volte denunciato per Abuso di potere ma sempre assolto; una volta fu anche rinviato a giudizio ma fu fatta una particolare amnistia.[senza fonte]
Scrisse il Procuratore Generale di Palermo:
« Finalmente abbiamo a Trapani un uomo che non esita a colpire la mafia dovunque essa si alligni. Peccato, purtroppo, che vi siano sempre i cosiddetti "deputati della rapina" contro di lui... »
Mori fu poi trasferito a Firenze nel gennaio del 1915, con la carica di vicequestore. In seguito ad un inasprimento della situazione in Sicilia, coincidente con l'inizio della guerra, vi fu rimandato al comando di squadre speciali mirate ad una campagna contro il brigantaggio le cui file si erano ingrossate con i renitenti alla leva. Nel corso dei suoi rastrellamenti, Mori si distinse ancora una volta per i suoi metodi energici e radicali. A Caltabellotta, in una sola notte, fece arrestare più di 300 persone; nel complesso, ottenne risultati molto positivi. Quando i giornali parlarono di "Colpo mortale alla mafia", Mori dichiarò ad un suo collaboratore:
« Costoro non hanno ancora capito che i briganti e la mafia sono due cose diverse. Noi abbiamo colpito i primi che, indubbiamente, rappresentano l'aspetto più vistoso della malvivenza siciliana, ma non il più pericoloso. Il vero colpo mortale alla mafia lo daremo quando ci sarà consentito di rastrellare non soltanto tra i fichi d'india, ma negli ambulacri delle prefetture, delle questure, dei grandi palazzi padronali e, perché no, di qualche ministero. »
Promosso e decorato con medaglia d'argento al valore militare, Mori passò successivamente a Torino come questore, poi a Roma e a Bologna.
Con la carica di Prefetto di Bologna dall'8/2/1921 al 20/8/1922, Cesare Mori fu - da ligio servitore dello Stato deciso ad applicare la legge in modo inflessibile - tra i pochi membri delle forze dell'ordine ad opporsi allo squadrismo dei fascisti.
Il crescendo della tensione politica avvenne in seguito al ferimento di Guido Oggioni, fascista e vicecomandante della "Sempre Pronti", mentre tornava da una spedizione punitiva contro i "rossi", e all'uccisione di Celestino Cavedoni, segretario del Fascio. Mori si oppose alle rappresaglie violente e alle spedizioni punitive dei fascisti, inviando contro di loro la polizia, e fu per questo ampiamente contestato. Ad un ufficiale che gli confessava di supportare la "gioventù nazionale" di Mussolini, Mori avrebbe risposto equiparando i fascisti ai "rossi":
Si ritirò in pensione nel 1922 a Firenze, assieme alla moglie.
Per la sua fama di uomo energico e di uomo non siciliano (non in contatto con la mafia locale) ma conoscitore della Sicilia, fu richiamato in servizio all'inizio di giugno del 1924 dal ministro dell'Interno Federzoni. Fu nominato prefetto e inviato a Trapani, dove arrivò il 2 giugno 1924 e dove rimase fino al 12 ottobre 1925. Come primo provvedimento ritira subito tutti i permessi d'armi, e nel gennaio 1925 nomina una commissione provinciale che provvede ai nullaosta che rende obbligatori per il campieraggio e la guardianìa, attività tradizionalmente controllate dalla mafia.
Dopo l'ottimo lavoro in provincia di Trapani, il 20 ottobre 1925 Benito Mussolini nomina Mori prefetto di Palermo, con poteri straordinari e con competenza estesa a tutta la Sicilia, al fine di sradicare il fenomeno mafioso nell'isola. Questo il testo del telegramma inviato da Mussolini: «vostra Eccellenza ha carta bianca, l'autorità dello Stato deve essere assolutamente, ripeto assolutamente, ristabilita in Sicilia. Se le leggi attualmente in vigore la ostacoleranno, non costituirà problema, noi faremo nuove leggi».
Mori si insediò quindi a Palermo il 1 novembre dello stesso anno e vi rimase fino al 1929. Qui attuò una durissima repressione verso la malavita e la mafia, colpendo anche bande di briganti e signorotti locali, anche attraverso metodi extralegali (fra cui la tortura, la cattura di ostaggi fra i civili e il ricatto), con l'esplicito appoggio di Mussolini, otterrà significativi risultati e la sua azione continuerà per tutto il biennio 1926-27. Secondo Saverio Lodato e Marco Travaglio "spesso, al prefetto di ferro scivolava la mano anche nei confronti degli oppositori politici - socialisti e comunisti - nell'illusione che la lotta alla mafia desse la possibilità di fare due servizi con un viaggio solo", sebbene Mori "arrestava anche fascisti, se per questo: convinto che la mafia sin da allora fosse trasversale agli schieramenti politici". Il 1º gennaio 1926 compì quella che è probabilmente la sua più famosa azione, e cioè l'occupazione di Gangi, paese roccaforte di numerosi gruppi criminali. Con numerosi uomini dei Carabinieri e della Polizia passò quindi al rastrellamento del paese casa per casa, arrestando banditi, mafiosi e latitanti vari.
I metodi attuati durante quest'azione furono particolarmente duri e Mori non esitò ad usare donne e bambini come ostaggi per costringere i malavitosi ad arrendersi. Fu proprio per la durezza dei metodi utilizzati che venne soprannominato Prefetto di Ferro.
Anche nei tribunali le condanne per i mafiosi cominciarono a essere durissime. Fra le "vittime eccellenti" iniziano a figurare anche personalità del calibro del generale di Corpo d'Armata, ed ex ministro, Antonino Di Giorgio, il quale chiede il sostegno, in un colloquio riservato, di Mussolini, cosa che non impedirà né il processo né il pensionamento anticipato dell'alto ufficiale e le dimissioni da deputato nel 1928. Ben presto però circoli politico-affaristici di area fascista collusi con la mafia riescono a indirizzare, tramite attività di dossieraggio, le indagini di Mori e del procuratore generale Luigi Giampietro sull'ala radicale del fascismo siciliano, coinvolgendo anche il federale e deputato del PNF Alfredo Cucco, uno dei massimi esponenti del fascio dell'isola. Cucco nel 1927 viene addirittura espulso dal PNF e dalla Camera "per indegnità morale" e sottoposto a processo con l'accusa di aver ricevuto denaro e favori dalla mafia, venendo assolto in appello quattro anni dopo, ma nel frattempo il fascio siciliano è stato decapitato dei suoi elementi radicali. L'eliminazione di Cucco dalla vita politica dell'isola favorisce l'insediamento nel PNF siciliano dei latifondisti dell'Isola, talvolta essi stessi collusi o quantomeno contigui alla mafia.
A questa azione si aggiunge quella delle "lettere anonime" tempestano le scrivanie di Mussolini e del ministro della Giustizia Alfredo Rocco, avvisando dell'esasperazione dei palermitani e minacciando rivolte se l'operato eccessivamente moralistico di Giampietro non si fosse moderato. Contestualmente il processo a Cucco si rivela uno scandalo, nel quale Mori viene dipinto dagli avvocati di Cucco come un persecutore politicoe nel 1929 Mussolini decide di porre a riposo il prefetto Mori facendolo cooptare nel Senato del Regno. La propaganda fascista dichiara orgogliosa che la mafia è stata sconfitta: tuttavia l'attività di Mori e Giampietro aveva avuto drastici effetti soltanto su figure di secondo piano, lasciando in parte intatta la cosiddetta "cupola" (composta da notabili, latifondisti e politici), la quale riuscì a reagire attraverso l'eliminazione di Cucco, e così addirittura installarsi all'interno delle federazioni del fascio siciliane.
Ancora oggi si discute sui metodi impiegati da Mori nella sua lotta al fenomeno mafioso. È indubbio che la sua azione fu vigorosa ed efficace: ebbe la fama di personaggio scomodo per la sua capacità di colpire molto in alto, senza curarsi dell'opposizione di molti fascisti della prima ora.
Alla fine degli anni venti, il "prefetto di ferro" era un personaggio estremamente noto ed alcune sue imprese, che la macchina propagandistica del regime copriva di consensi plebiscitari, erano giunte a rasentare la popolarità di Mussolini. Cesare Mori non si fece problemi nemmeno a perseguire (con il consenso del Duce) sia l'uomo più in vista del fascismo in Sicilia, Alfredo Cucco, sia l'ex ministro della Guerra, il potente generale Antonino Di Giorgio.
Molti mafiosi dovettero emigrare negli Stati Uniti dove diedero origine alla Cosa Nostra americana.
I cardini principali dell'azione di Mori - forte della carta bianca che gli era stata attribuita, e assistito da uomini quali il nuovo Procuratore Generale di Palermo da lui nominato, Luigi Giampietro, e il delegato calabrese Francesco Spanò - furono:
• Cogliere un primo importante successo con un'operazione in grande stile per riaffermare l'Autorità dello Stato e dare un segnale forte (l'occupazione di Gangi).
• Riottenere l'appoggio della popolazione impegnandola direttamente nella lotta alla mafia.
• Creare un ambiente culturalmente ostile alla mafia, combattendo l'omertà e curando l'educazione dei giovani e stimolando la ribellione contro la mafia
• Combattere la mafia nella consistenza patrimoniale e nella rete di interessi economici.
• Ripristinare il normale funzionamento e sviluppo delle attività produttive della Sicilia
• Condannare con pene severe e implacabili i criminali sconfiggendo il clima di impunità.
La sua strategia si basava anche sul seguente schema: i mafiosi appartenevano essenzialmente al ceto medio rurale (gabelloti, campieri, guardiani e sovrastanti) e tenevano in soggezione sia i grandi proprietari, sia i ceti più poveri. Eliminato il "ceto medio mafioso", i latifondisti si sarebbero liberati del doppio ruolo di vittime dei mafiosi e, al tempo stesso, di bersagli della rabbia popolare che li vedeva in combutta con la mafia.
L'azione di Mori si rivelò in tutta la sua clamorosa efficacia sin dal primo anno: nella sola provincia di Palermo gli omicidi scesero da 268 nel 1925 a 77 nel 1926, le rapine da 298 a 46, e anche altri crimini diminuirono drasticamente.
Pentiti mafiosi hanno riconosciuto il grave stato di difficoltà nella mafia dopo quegli anni.
Mori non si occupò solo degli strati più bassi della mafia, ma anche delle sue connessioni con la politica - portando lo stesso Mussolini a sciogliere il Fascio di Palermo ed espellere Cucco, che pure era membro del Gran Consiglio del Fascismo, dal PNF.
Dopo il suo congedo, vi fu ben presto una recrudescenza del fenomeno mafioso in Sicilia. Come scrisse nel 1931 un avvocato siciliano in una lettera indirizzata a Mori:
« Ora in Sicilia si ammazza e si ruba allegramente come prima. Quasi tutti i capi mafia sono tornati a casa per condono dal confino e dalle galere... »
In realtà i vertici della mafia avevano piegato il capo sotto la repressione, e colsero l'occasione dello sbarco degli Alleati in Sicilia per rialzare la testa, con gli Statunitensi che spesso li misero ai vertici delle amministrazioni locali siciliane, come sicuri antifascisti.
Come senatore continuò a occuparsi dei problemi della Sicilia, sui quali seguitò a rimanere ben informato, ma ormai senza potere effettivo e sostanzialmente emarginato.
« La misura del valore di un uomo è data dal vuoto che gli si fa dintorno nel momento della sventura »
(Cesare Mori)
La sua abitudine di sollevare il problema della mafia era vista con fastidio dalle autorità fasciste, tanto che fu invitato a "non parlare più di una vergogna che il fascismo ha cancellato". Mori scrisse le sue memorie nel 1932 e il suo libro più famoso fu Con la mafia ai ferri corti (ripubblicato nel 1993 dall'editore Pagano di Napoli).
Nel novembre 1929 Mori, insieme a tre fidati collaboratori, giunse in Friuli con l'incarico di presiedere il neo costituito Consorzio di 2° grado che, sovrapponendosi al Consorzio per la bonifica integrale della Bassa friulana, aveva la funzione di controllare la litigiosità dei proprietari che aveva provocato la paralisi dei lavori. Le premesse: nel 1925 una società con capitale milanese aveva presentato un progetto per la bonifica della Bassa friulana, che prevedeva la creazione di aziende di medie dimensioni condotte ad economia. Immediata la reazione dei proprietari, che temevano che l'iniziativa minasse l'istituto della mezzadria che intendevano difendere a ogni costo, e che presentarono a loro volta un progetto raffazzonato per bloccare l'iniziativa dei milanesi. L'operazione riuscì perché la legge Serpieri dava il diritto di prelazione ai proprietari, ma con risultati deludenti. Per quello la creazione del consorzio di 2° grado e la convocazione di Mori, la cui azione, rafforzata dal suo prestigio e dal suo decisionismo, fu importante, anche perché ottenne da Arrigo Serpieri (il creatore della legge sulla bonifica integrale che porta il suo nome) che i pareri dei proprietari avessero solo valore consultivo. Le guerre per l'impero e le conseguenti spese rallentarono enormemente le bonifiche: oramai si trattava (come disse in suo discorso al Senato) di "fermare razionalmente", cioè mettere a frutto ciò che era già stato fatto. Morì il 5 luglio 1942, due giorni dopo aver firmato l'ultima delibera del Consorzio che dirigeva. È sepolto a Pavia.
Articolo tratto da RINASCITA
a cura di Paolo Francesco Lo Dico
Cesare Primo Mori nasce il 22 dicembre 1871 a Pavia, ma viene riconosciuto dai genitori Felice e Pizzamiglio Rachele nell’ottobre del 1879.
Primo Nerbi saranno il nome e cognome provvisori del bambino nel periodo in cui vive nel brefotrofio di Pavia.
Il giovane, alto, diritto, volto energico, occhio sereno con riflessi d’acciaio, nel 1889 viene ammesso all’Accademia Militare di Torino. Nel 1895 è nominato tenente di artiglieria e assegnato a Taranto dove ottiene la prima medaglia al valore. Qui conosce Angelina Salvi che diventerà sua moglie, ma il regolamento del tempo lo costringe alle dimissioni per la dote non disponibile.
Cesare però manifesta la sua vocazione partecipando al concorso per entrare in Polizia, dove viene nominato Delegato di Pubblica Sicurezza e inviato in servizio a Ravenna.
Nel 1904 è assegnato con il grado di Commissario di P.S. a Castelvetrano (TP), compito che assolve con la stessa grinta e determinazione che mostrerà in seguito.
È deciso, coraggioso, incorruttibile e compie numerosi arresti. Subisce diversi attentati ma nessuno riesce a fermarlo. Spesso è costretto a usare metodi particolarmente duri e per questo è denunciato per abuso di potere, ma sarà successivamente assolto e amnistiato. Afferma il magistrato del distretto: “Abbiamo a Trapani un uomo che colpisce la mafia ovunque annidata!”
Cesare Mori viene chiamato in servizio a Firenze nel 1915 in qualità di vice questore, ma proprio in questo periodo scoppia la guerra e in Sicilia si diffonde il cosiddetto “brigantaggio”, fenomeno favorito dall’elevato numero di giovani che diserta la leva. Pertanto il nostro viene rimandato in Sicilia, a Caltabellotta (AG).
E qui il vice questore mostra ancora una volta il suo valore riportando notevoli successi, che gli valgono tra l’altro la medaglia al valore militare e la promozione a questore. Nell’occasione Mori dichiara che “il vero colpo mortale alla mafia lo daremo solamente quando ci sarà consentito di rastrellare non soltanto tra i fichi d’india, ma nelle prefetture, questure, palazzi padronali e ministeri!”.
Negli anni successivi lo ritroviamo in servizio presso le questure di Torino, Roma e infine a Bologna. Arriva frattanto il 1921, anno ricco di fermento sociale per via dell’accanita lotta tra la materia e lo spirito, che si incarna nelle schiere contrapposte del socialismo e del nazionalismo. Ex combattenti, arditi e reduci sono attaccati da forze antinazionali ma rispondono colpo su colpo. Gli scontri tra le parti sono violenti e il disordine impera.
E Cesare Mori, in qualità di Prefettissimo, trova in punta di diritto il modo migliore per ristabilire lo Stato di diritto: non fare sconti a nessuno e catalogare tutti i contendenti più scalmanati come “sovversivi”.
Il 28 ottobre 1922 il Duce viene chiamato a presiedere il governo della concordia nazionale e frattanto il Prefetto va in pensione e si ritira a Firenze conducendo una tranquilla vita coniugale. Qui scriverà il libro di analisi della mafia: Tra le zagare oltre la foschia (pubblicato nel ’23 dalla Carpignani e da La Zisa nel 1988, nda).
Mussolini, l’Uomo della Provvidenza, coagula in un riuscito amalgama le istanze socialiste e quelle nazionaliste. Il capitale viene messo al servizio del lavoro in una nuova dottrina che rompe le antiche diatribe: è il certificato di nascita del fascismo. Il Duce visita la Sicilia nel maggio 1924 e nell’occasione si rende conto dei problemi che attanagliano l’isola, e della maniera di poterne venire a capo. “Il popolo siciliano ha bisogno di strade, acqua, bonifica, incolumità. Il fascismo cauterizzerà se necessario col ferro e col fuoco, la piaga della delinquenza siciliana”, sentenziò Mussolini. Affidarsi al cauterio: bruciare ma risanare. Non c’era polso più adatto all’operazione che quello del soldato Cesare Mori.
Il 28 dello stesso mese il Prefetto viene richiamato in servizio e inviato a Trapani. Il 20 ottobre 1925 arriva a Palermo come Superprefetto con l’onere di una missione chiara per conto di Mussolini: eliminare la mafia dalla Sicilia in tutte le maniere possibili. Mori ha carta bianca, e dal 1 novembre 1925 fino al 1929 conduce una battaglia spietata, con metodi spesso poco ortodossi ma necessari, suscitati però dalla bisogna e adeguati a piegare la psicologia degli avversari.
Tra le battaglie del Prefetto d’assalto, va annoverata senz’altro quella epocale del 1926: l’assedio di Gangi (Pa) che porta alla cattura di centinaia di gregari e capi mafia. L’azione è svolta con il coordinamento unico di Carabinieri, Poliziotti e Camicie Nere scelti tra ex combattenti e reduci della vittoriosa Prima guerra mondiale. La legge è applicata alla lettera dalla magistratura di competenza, diretta dal procuratore generale, Luigi Giampietro. Anche alte personalità fra cui il generale, nonché ex ministro, Antonino Di Giorgio, sono inquisiti. La lotta non si caratterizza però soltanto come campagna di polizia ma anche come insurrezione di coscienze. Un’autentica rivolta di spirito che risulta decisiva per il successo. L’eco dell’impresa e il temperamento pugnace varranno a Mori l’epiteto che l’ha consegnato alla storia: Prefetto di Ferro. Il Prefetto contadino va incontro al popolo, esorta tutti a difendere la dignità dell’uomo, si mette alla guida dei mezzi agricoli nelle terre sottratte alla mafia, conduce la bonifica integrale con autentiche sagre popolari, concluse con rito religioso e giuramento di fedeltà allo Stato. Significativamente, Mori fa ammainare le bandiere rosse usate per le segnalazioni e saluta a braccio teso il tricolore a Roccapalumba, Piana dei Greci e a Palermo, in piazza Politeama.
La sua azione di polizia arriva fino ai colletti bianchi. La corsa è irrefrenabile, anche S.E. si rende conto di essere giunto alle soglie del possibile e per questo motivo chiede al capo del Governo il consenso alla prosecuzione.
La risposta è lapidaria: Non abbia riguardi né in alto né in basso.
Molti mafiosi cercano scampo in America. Antonio Calderone, pentito di mafia, ne “Gli uomini del disonore” di Pino Arlacchi afferma: “I mafiosi erano usciti impoveriti dal fascismo. Mio zio Luigi, un capo, un’autorità, si era ridotto a fare il ladro per guadagnarsi il pane!”. Anche Alfredo Cucco, medico oculista, segretario e deputato del Pnf che alcune macchinazioni avevano tentato di mostrare colluso, viene punito con l’espulsione dal partito. (Successivamente sarà completamente scagionato e dimostrerà la sua fede aderendo alla Rsi, nda)
Nell’occasione del conferimento della laurea in legge “honoris causa” a Palermo, il neo-dottore Cesare Mori, dirà: “La mafia è una attitudine morbosa specifica di determinati elementi. La polizia è nella funzione, civile milizia; nel fatto, azione. La mafia dà i sacerdoti, la malvivenza i fedeli”.
“Si poteva dormire con le porte aperte” e pertanto “santo” Mori aveva compiuto il miracolo. L’Italia gli è riconoscente, Mussolini lo fa nominare Senatore del Regno.
Adesso tocca allo Stato immettere la Sicilia nel giusto cammino verso il progresso di tutta la Nazione. Attacco e polverizzazione del latifondo e bonifica integrale, costruzione di infrastrutture per rendere competitiva l’agricoltura nell’ottica di inserimento nell’impresa africana.
Anche con questa carica, Mori si occupa della Sicilia ma dirà che “la misura del valore di un uomo è data dal vuoto che gli si fa dintorno nel momento della sventura”.
Verso la fine del ‘29 viene nominato presidente del Consorzio per la bonifica integrale della Bassa friulana conseguendo democratici ottimi risultati. Arrigo Serpieri, l’ideatore della legge sulla bonifica integrale, gli aveva concesso il valore consultivo dei proprietari.
Nel 1932 la Mondadori pubblica il libro Con la mafia ai ferri corti, dove tra l’altro Mori, per fugare qualsiasi dubbio o incertezza nei denigratori e zizzanieri, afferma che la lotta contro la mafia ha avuto successo perché combattuta dal regime fascista nel nome e per volontà del Duce.
Vive negli anni successivi con la moglie Angelina a Pagnacco, frazione di Tavagnacco (UD). S.E. Cesare Mori, il Prefetto di Ferro, muore il 5 luglio 1942. Lascia una eredità materiale modestissima. Viene sepolto in una umile tomba a Pavia dove riposa il sonno degli Eroi.
Calogero Vizzini, capo mafia, dirà a Indro Montanelli in una sua intervista: “Si, di mano spiccia...ma òmmo era..”
Arrigo Petacco ha scritto il libro Il prefetto di ferro, pubblicato dalla Mondadori nel 1975. Pasquale Squitieri ne ha realizzato un film interpretato da Giuliano Gemma con musiche di Ennio Morricone.
Luglio 1943. I mafiosi aprono le porte della Sicilia agli invasori anglo-americani. Cesare Mori si rivolta nella tomba, il suo “spirto guerrier” freme, vorrebbe ancora combattere la mortale nemica…
Gangi grata ricorda l’epopea intestandogli una targa marmorea.
Il magistrato Giovanni Falcone, eroe vittima di mafia, qualche tempo prima di essere trucidato, alla domanda “chi glielo fa fare” rispose: “Il senso del servizio”. Allo stesso interrogativo il Prefetto di Ferro avrebbe aggiunto: “Per amore di Patria”.
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