Gli incontri con Massimo Fini per intervistarlo iniziano sempre con lo stesso copione. Dopo avere fissato l’appuntamento per telefono lo si va a trovare nella sua casa di Milano, foderata di libri, di targhe di premi letterari, di simboli degli indipendentisti corsi e di infiniti riferimenti a una vita, la sua, vissuta intensamente. Una volta incontratisi si inizia a parlare del più e del meno e così facendo comincia l’intervista senza neanche rendersi conto di essere partiti. Si sa dove si inizia ma non dove si finirà. A un certo punto Massimo ti offrirà un bicchiere di vino rosso, che poi diventeranno due, tre, quattro. Poi, magari, ti inviterà fuori a fare due passi per finire all’interno di qualche taverna o di qualche luogo a lui caro. L’intervista di oggi terminerà con un bicchiere di mirto in una trattoria di pugliesi trapiantati a Milano a pochi passi da casa sua. Più che un’intervista è un colloquio in cui io chiedo a lui di raccontarmi il suo pensiero e lui a me dei miei viaggi. Lo incontro dopo essere appena tornato da Berlino dove ho trascorso parecchio del mio tempo all’interno di alcune comunità di salafiti, uomini musulmani dalla lunga barba e donne che indossano copricapi o veli integrali che lasciano intravedere soltanto gli occhi attraverso una stretta fessura. “E tu che cosa stai cercando in questa tua vita?” mi chiede a un certo punto Massimo. Ci penso un attimo e poi gli rispondo. “Me stesso”. “Non è una cosa da poco” ribatte lui. A cercare se stesse sono anche delle donne tedesche convertite all’Islam che ho appena conosciuto a Berlino e che volontariamente scelgono di lasciare intravedere il meno possibile di sé. A quanto mi raccontano il velo rappresenta per loro una forma di protezione, che lancia chiari segnali di non disponibilità agli uomini che incrociano quando camminano per strada. Una sensazione che Massimo ha a sua volta riscontrato durante alcuni dei suoi numerosi viaggi all’interno del variegato mondo islamico.
“Ricordo le donne dei talebani afghani che dicevano proprio questo. Il velo le fa sentire protette dagli sguardi, esso lancia un chiaro segnale di non disponibilità verso gli uomini che si traduce in una sorta di protezione percepita. È un’antica tradizione di vari Paesi, a seconda del tipo di velo che indossavano si mostrava l’appartenenza ad un diverso clan. Quello che in Europa non capiamo è che il velo non è per forza un’imposizione dell’uomo alla donna, spesso è invece una scelta delle donne stesse, anche di quelle più rivoluzionarie rispetto ai costumi tradizionali islamici. Nel 1987 andai in Iran e visitai la redazione del giornale femminile “Donna di giorno”. La caporedattrice indossava copricapo dal quale fuoriusciva una ciocca sbarazzina di capelli neri che era più eccitante di qualsiasi tanga. Mi spiegò che la sua rivista criticava apertamente il regime di Khomenei, eppure nessuna delle giornaliste avrebbe voluto liberarsi dal velo. Ricordo che poi andai per le strade di Theran dove iniziai un gioco di sguardi con una giovane ragazza, sempre velata, che mi regalò dei loro prodotti tipici. Tutto questo sotto lo sguardo vigile dei Pasdaran che ci squadravano minacciosi. “È pericoloso per te parlare con un occidentale come me?” le chiesi allora. “È insolito, ma si può fare” fu la sua risposta. Questo mi fece capire come nelle donne velate ci fosse un notevole coraggio all’interno di quel mondo e che privarsi dei propri abiti tradizionali non era sentita come una priorità per ribellarsi”.
Oggi in Europa spesso avviene il contrario. Donne europee che decidono di coprirsi volto e capelli per mostrare di avere un senso di appartenenza verso un insieme di valori. I salafiti che distribuiscono copie del Corano per le strade d’Europa lo sanno bene. Non approcciano le persone parlando dell’Islam, ma ponendo loro domande profonde: che senso ha la tua vita? Esisti solo per consumare e infine morire? Non esiste un senso più profondo della vita? E poi rispondono: esiste, ed è l’Islam.
“I salafiti oggi sono attraenti per molti europei perché pongono domande che noi stessi dovremmo porci. Chi siamo? Da dove veniamo? Cosa vogliamo lasciare dopo di noi? Sembrano cazzate ma non lo sono, tant’è vero che in 3000 anni la filosofia non è riuscita a trovare risposta. La religione invece ci riesce. Prima avevamo il Cristianesimo che dava risposte sacre. Dopo il suo crollo sono subentrate le ideologie, come il fascismo e il comunismo, che non sono altro che la sacralizzazione della politica. Quando queste sono crollate è rimasto solo il capitalismo, un sistema governato dalle leggi del mercato in cui l’uomo viene misurato in base a ciò che consuma. E’ in questo contesto che ritorna la religione a dare risposte. Oggi però sta rispondendo l’Islam e non il Cristianesimo.”
Non credi che il Cristianesimo possa tornare a dare delle risposte anche nell’Europa occidentale?
“Nel 1800 Nietzsche, che era un veggente, dichiarò la morte di Dio nella coscienza dell’uomo occidentale. Non è possibile resuscitarlo. Lo hanno ucciso l’illuminismo e la rivoluzione francese che lo hanno sostituito con la Dea Ragione e con la sottomissione dell’uomo alla tecnica. Inizialmente sembrava una cosa buona e giusta, perché strappava i lavoratori da fatiche bestiali. Oggi, a due secoli di distanza, è necessario porsi delle domande su dove tutto ciò ci stia portando”.
Oggi a porsi queste domande vi sono molte donne. Durante un mio altro reportage, in Francia, ho potuto vedere come molte donne islamiche decidano di partire per il jihad perché alla ricerca di un compagno di vita, di un uomo valoroso che sappia impegnarsi in qualcosa di forte e che sia il più simile possibile all’idea che hanno di Dio.
“Le donne sentono la mancanza di uomini virili nel mondo occidentale. Noi maschi non riusciamo più a dimostrare di essere tali. Non combattiamo alcuna guerra, abbiamo meno ideali, la tecnica si è sostituita alla forza fisica, il rapporto virtuale al corteggiamento. Ciò crea un grande scompenso sia a noi che alle nostre compagne. Quasi tutte le mie amiche tra i 40 e i 50 anni sono attratte dall’esoterismo e dall’esotismo. Ciò non è altro che una fuga alla ricerca di un maschio che non c’è più. È il ritorno verso società in cui esista ancora la famiglia, da noi oggi in via d’estinzione. In molte culture, per esempio quella islamica, essa è ancora centrale, con i suoi pregi e i suoi limiti. La presenza della famiglia segna la grande differenza tra una società individualista e una comunità. Oggi il vuoto lasciato dall’individualismo del consumo potrebbe venire colmato dalle risposte di comunità che fornisce l’Islam”.
Michel Houellebecq nel suo romanzo “Sottomissione” descrive l’affermazione dell’Islam in Europa proprio come la conseguenza di un vuoto esistenziale dell’uomo occidentale. Sei d’accordo?
“Houellebecq intuisce che in mancanza di valori forti l’Occidente è destinato a farsi sottomettere. Che questo stia già avvenendo ce lo mostrano proprio quelle donne europee che velandosi cercano una sottomissione che l’uomo occidentale non riesce a dare loro. Una sottomissione a un compagno di vita, all’Islam a un ordine più ampio”.
Da che cosa lo si vede?
“Il rapporto sessuale lo dice: alla donna piace essere sottomessa. È qualcosa che hanno scritto dentro. Se durante il rapporto le si sussurrano frasi d’amore generalmente le cala la libido, preferisce essere maltrattata. È masochista nel rapporto sessuale e vitale nella vita reale. Non a caso Platone definiva la donna come l’albero della vita. Sono loro a darci dei figli e per questo sono le grandi protagoniste dell’esistenza. Chiunque abbia avuto tante compagne sa che ognuna di loro è un mondo a sé che ti arricchisce a proprio modo dal punto di vista esistenziale. Oggi molte donne che rinunciano alla maternità rinunciano ad essere protagoniste dell’esistenza e della loro stessa vita. Si privano della ricchezza che le rende uniche e insostituibili. Non a caso, essendo diventate sostituibili, oggi molti uomini cercano altre fantasie sessuali. Tutto ciò ha conseguenze molto gravi per le donne. Queste madri mancate rimangono sempre figlie delle figure forti delle proprie madri, dunque delle eterne bambine. Oggi vediamo sempre di più giovani donne deboli e spaesate in balia della forza del carattere delle proprie madri. La figura della madre forte è centrale anche per i maschi, essa generalmente trasforma il figlio in un narcisista: o in un playboy o in un omosessuale senza limiti. Queste due figure sono praticamente identiche. Entrambi non hanno un rapporto naturale con l’altro sesso. Entrambi hanno un’accezione consumistica del sesso che serve a rassicurare il proprio ego cercando sempre nuove conferme. Non è un caso che molti playboy, alla fine, diventino omosessuali. Abbandonando le proprie potenziali compagne che si trovano spaesate alla ricerca di qualcosa che non sanno bene cosa sia”.
In un mondo così privo di riferimenti cosa si sente di consigliare a chi è alla ricerca di se stesso? È possibile riscoprirsi oppure è inevitabile scendere a compromessi o abbracciare dottrine esoteriche?
“È possibile essere se stessi se si rimane fedeli alle promesse che si sono fatte in giovinezza. Il ribelle è colui che dice no al contesto in cui vive e rimane fedele a se stesso anche se non sa bene chi è. La vera ribellione oggi è cercare se stessi. Carl Gustav Jung scrive che l’esistenza stessa è la ricerca di se stessi. I giovani lo fanno attraverso l’esperienza, confrontandosi con il rischio per scoprire le proprie forze e i propri limiti. Arrivati a una certa età però questi strumenti non funzionano più. È allora necessario un viaggio interiore, un confronto con se stessi e con ciò che si tiene serbato dentro di sé. Farlo può essere molto difficile e pericoloso: c’è chi teme di fare i conti con se stesso e quindi si attacca alla propria maschera sociale, giudicando gli altri per non giudicare se stesso e identificandosi con il proprio titolo, con la propria occupazione o con l’immagine che si pensa gli altri abbiano di sé. Altri invece gettano via tutti i valori vissuti fino a quel momento inventandosi una nuova vita e una nuova persona, per esempio divorziando in poco tempo, cambiando lavoro, religione o orientamento sessuale. Scoprire se stesso è una scelta di fedeltà non facile ma che ci può rendere protagonisti della nostra vita”
L. Steinmann
Fonte: www.interessenazionale.net
Link: http://www.interessenazionale.net/blog/massimo-fini-%E2%80%9Cscoprire-se-stessi-%C3%A8-una-scelta-di-fedelt%C3%A0
maggio 2017
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