mercoledì 1 febbraio 2017

BERTO RICCI. IL NOSTRO ANARCO-FASCISMO

Verso le nove del 2 febbraio 1941 a Bir Gendula, nel Gebel cirenaico, fulminato dal fuoco micidiale di due aerei Spitfire inglesi con il volto severo verso il cielo " mentre in piedi gridava: " A terra, a terra! "
Eroicamente morì da tenente delle Camicie Nere, 26° Reggimento Artiglieria, III Gruppo 9ª Batteria.
 
 
"BERTO RICCI,
il Fascismo come trasgressione"


 
Berto Ricci fu uomo di cocenti passioni. Chi disprezzava, Berto Ricci ?.  I babbuini (così li chiamava), i fiaschi vuoti, i palloni gonfiati, i «farabutelli», coloro che stanno sempre alla finestra, coloro che, dopo essersi rinchiusi in casa, scendono per la strada a cose fatte e magari dicono che hanno vinto.
Mentre Berto Ricci amava gli inquieti, i liberi, «quelli simili a praterie che inarca il vento alle foglie ambiziose», come egli scrive in una sua poesia.
La toscanità di Berto è tutta qui.
Lo stemma della città di Firenze è una macchia di sangue che si trasforma in giglio. La storia di Firenze comincia, se ci si fa caso, con una imboscata e si incentra nel motto terrorista della famiglia degli Uberti: «Cosa fatta, capo a», che Dante definisce «seme della gente toscana».
I fiorentini (anzi, tutti i toscani) si sono sempre sbudellati fra di loro; per quattrocento anni hanno attaccato briga per tutto e su tutto. E la lotta tra fascisti ed antifascisti in Toscana, negli anni che vanno dal '19 al '25, assunse un immediato aspetto di lotta di parte, come tra guelfi e ghibellini, neri e bianchi, popolo grasso e popolo minuto.
Dopo secoli di servitù e rivoluzioni morali, i Fiorentini ritrovavano proprio nel fascismo e nell'antifascismo il loro antico fronte di lotta. C'è una pagina bellissima di Vasco Pratolini, prima fascista e poi antifascista, scritta sul "Politecnico" (il famoso "Politecnico" poi soppresso da Togliatti) nel dicembre del '47 che voglio citare: «Ma anche quei franchi tiratori che si difesero di tetto in tetto, erano fiorentini. La Repubblica Sociale Italiana salvò la faccia a Firenze. Una faccia che spuntava coi mitra dai comignoli e dagli abbaini. Soltanto a Firenze ci fu tra patrioti e fascisti vera guerra civile,; fu li e solo li vera Spagna. Rossi e neri dietro le barricate, al riparo di una cantonata, nella linea di fuoco sugli argini di un torrente nelle stesse ore dell'agosto '44 in cui anche Parigi lottava per la sua liberazione. I partigiani scesero dalle montagne ed i fascisti li aspettarono. Non era più nazi-fascismo contro nazioni unite. Erano fiorentini di due opposte fazioni che si ritrovavano ad uno dei tanti appuntamenti della loro storia. I tedeschi, fatti saltare i ponti, piegavano in ritirata e lasciavano le bande nere a vendere cara la pelle. Gli alleati avevano segnato il passo davanti alle rovine dei ponti e affidavano ai «volontari della libertà», l'onore di cavare la castagna dal fuoco espugnando la città. Durò otto giorni, e sulla stessa pietra che ricorda il rogo di fra Savonarola venne fucilato Pietro Tesi: trionfatore con distacco di una Milano-S. Remo che fa testo negli annali del ciclismo italiano. Dietro Santa Croce, dove riposano Macchiavelli e Foscolo, fu passato per le armi Alfredo Magnoldi: primo classificato al campionato europeo dei pesi gallo. I partigiani dissero: "Alfredino era una carogna, ma è morto bene". Morirono bene questi sportivi».
C'è libro con un'altra pagina meravigliosa, scritta da Curzio Malaparte, allora inviato speciale de "l'Unità", sotto il nome di Gianni Strozzi, ed è "La Pelle".
Sono due libri molto importanti (quello di Pratolini e quello di Malaparte) che vanno letti per capire l'Italia del Sud e l'Italia che da Firenze va su.
Malaparte così descrive la fucilazione dei ragazzi fascisti davanti a Santa Maria Novella, a Firenze:
«I fascisti seduti sulla gradinata erano ragazzi di 15-16 anni, dai capelli liberi sulla fronte alta, gli occhi neri e vivi nel lungo volto pallido. Il più giovane, vestito di una maglia nera e di un paio di calzoni corti che gli lasciavano nude le gambe dagli stinchi magri, era quasi un bambino. C'era anche una ragazza, fra loro, giovanissima, nera d'occhi e dai capelli, sciolti sulle spalle, di quel biondo scuro che s'incontra spesso in Toscana fra le donne del popolo. Sedeva col viso riverso, mirando le nuvole d'estate sui tetti di Firenze lustri di pioggia, quel cielo pesante e gessoso e qua e là screpolato, simile ai cieli del Masaccio negli affreschi del Carmine...
Ad un tratto i ragazzi presero a parlar fra loro, ridendo. Parlavano con l'accento popolano di S. Frediano, di Santa Croce, di Palazzolo. "E quei bighelloni che stanno a guardare, non hanno mai visto ammazzare un cristiano? E come si divertono quei mammalucchi, li vorrei vedere al nostro posto e che farebbero quei finocchiacci, scommetto che si butterebbero in ginocchio, li sentiresti strillare come maiali i poverini".
I ragazzi ridevano, pallidissimi, fissando le mani dell'ufficiale partigiano: "Guardalo, bellino, con quel fazzoletto rosso al collo. Oh chi gliè mai? oh chi gli da essere, Garibaldi! Quel che mi dispiace" disse il ragazzo in piedi sullo scalino "è di essere ammazzato da questi bucaioli".
"Un la fa tanto lunga" gridò una dalla folla. "Se lei ha furia, venga al mio pasto" gridò il ragazzo ficcandosi le mani in tasca.
L'ufficiale partigiano alzò la testa e disse: "Fa' presto. Non mi far perdere tempo. Tocca a te".
"Se gli è per non farle perdere tempo" disse il ragazzo con voce di scherno "mi sbrigo subito". E, scavalcati i compagni, andò a mettersi davanti ai partigiani armati di mitra, accanto al mucchio di cadaveri, proprio in mezzo alla pozza di sangue che si allargava sul pavimento di marmo del sagrato della Chiesa. "Bada di non sporcarti le scarpe" gli gridò uno dei suoi compagni. E tutti si misero a ridere. In quell'istante il ragazzo gridò: "Viva Mussolini" e cadde crivellato di colpi».
Ecco, questa è la Firenze di Berto Ricci. Ed ecco perché Berto Ricci ce l'ha con gli agnostici, con gli indifferenti. E dice che sono una vecchia peste di questo Paese dal tranquillo vuoto interiore. Noi per questo vuoto interiore non daremmo un atomo del nostro doloroso cercare, del nostro errare umano. Berto, in definitiva, sta con la gente che discorre, che opera, che disprezza e si rode alla maniera italiana.
Ci sono stati, ed alcuni sono ancora vivi, suoi amici, oggi passati in altri settori politici, che hanno scritto in questi ultimi anni di Berto. C'è Corviè, su "Settimo Giorno" che sotto il titolo «Berto Ricci, poeta per natura e per disciplina letteraria», scrive: «Non gli bastava essere artista, voleva conoscere le ragioni del suo vivere come uomo tra gli uomini; non si accontentava delle parole, voleva cose. Generoso e disinteressato, per sè non chiese che sacrifici, sofferenze e morte. Non i suoi nemici dovevano aver paura di un simile carattere, ma i suoi amici, quelli della sua parte».
«Mai visto» e questo è Luigi Personè, professore di liceo, oggi vecchio, che così ha scritto sulla "Nazione" del 4/31/86 «un uomo che capisse così intensamente i bisogni dell'altro». Ecco, qui si potrebbe fare il paragone tra la politica odierna ed i tempi di allora. Qui c'è, lo sbalzo.
La politica, che cos'è poi in definitiva? Se ci si fa caso, la politica è il sapersi occupare dei problemi degli altri come se fossero propri, fino a morirne. Questa è la politica. No, dovrei dire: questa era la politica. Scrive ancora Personè a proposito di Ricci:
«Sulla vita, sul mondo e sul nostro percorso egli aveva opinioni sicure, incorruttibili ed incorruttibile era soprattutto lui, povero, rifuggiva da qualsiasi vanità. Un'antica sapienza calata nella realtà moderna. La sua camera da letto, che io ho visto, era spartana, (è morto a 35 anni, quest'uomo) e spartana era la sua concezione morale: un letto di ferro, un tavolino ricoperto da un tappetino carico di libri ed al muro uno scaffale qualsiasi con altri libri, non c'era altro». Non può venir fuori un interessante confronto con la vita dei politici d'oggi.
In un'intervista fatta a Gassman ed ad Alberto Sordi sulla "Repubblica" leggo: «Ci troviamo di fronte ad un'Italia brulicante di palazzinari, opportunisti, corrotti, corruttori, inattendibili monsignori, importantissimi falliti, avvocatucoli di pretura, di cassazione, minuscoli fanatici, trionfanti mediocri, prevedibili vigliacchi, improvvisi mascalzoni, detestabili diritti, ...» e potrei continuare.
L'Italia d'oggi è degnamente rappresentata dal cinema con gli italiani di tipo medio illustrati da Alberto Sordi. Il cinematografo è, tra le arti, quella che rende meglio l'immagine che in letteratura non c'è più. Al cinema con Antonioni l'incomunicabilità -cioè l'impossibilità di parlarsi- fra padre e figlio, fra italiani. L'incomunicabilità, la fuga nella fantasia di Fellini e il tipico italiano medio di Alberto Sordi: è il cinema che rende bene questa situazione. Perché, quindi Berto Ricci oggi?
Perché siamo in una fase revisionista.

 
L'Italia è stato come un pugile messo knock out, nel '45. Questa Italia è andata al tappeto, e c'è rimasta, fino all'8/5/78: quando si trova il cadavere assassinato di Aldo Moro in via Caetani, ad una distanza uguale tra il palazzo delle Botteghe Oscure e la sede di piazza del Gesù della Democrazia Cristiana.
Cosa voglio dire con questo? Voglio dire che l'Italia fino al '78 è una Italia che è fuggita dalla storia; che ha vissuto della cronaca illustrata da Alberto Sordi. Cioè l'Italietta piccola e vile, l'Italietta utilitaria, l'Italietta che nel benessere è cresciuta enormemente, (infelicità nostra). Ma l'8/5/78 l'Italia cambia: le piazze si svuotano improvvisamente, le famiglie si riprendono i ragazzi in casa, si ha la rivisitazione storica, si ha una ripresa della memoria storica, si ha una ripresa della Nazione, si comincia a riflettere.
E questa Italia era andata al tappeto nel '45 con la tragica rappresentazione di piazzale Loreto.
Piazzale Loreto: cosa rappresenta nella storia d'Italia?
Fateci caso: io so perché vado, ogni tanto, a Predappio. Io ed i miei amici di partito, di comunità, lo sappiamo. Ma perché a Predappio ci vanno tanti italiani che non sono stati mai fascisti e non lo saranno mai? Che ci vanno a fare?
Ci vanno perché Predappio è il muro del pianto del nostro Risorgimento nazionale, è la fine di una concezione, dell'Italia con un ruolo nel mondo: l'Italia grande, un'Italia che faceva sentire il suo cuore, valere le sue grandissime qualità. Insomma è a Predappio che si ha la rivisitazione della storia. Ed ecco perché spunta anche Berto Ricci e spunta perché i Tranfaglia e gli altri antifascisti dichiarati, quando si trovano di fronte alla figura di Berto Ricci, debbono dire: alt, qua c'è qualcosa di veramente diverso.
Perché, vedete, Berto Ricci diceva: «Ci sono Inghilterre che abbiamo dentro di noi che bisogna abbattere. E sono quelle, è quello il male: là dove prevale, là è il nemico. A chi ci rimprovera di volere la perfezione, si risponda finalmente e fieramente di «SI». Si risponda: «non addegna del nome di rivoluzionario chi non la vuole».
Rifare l'uomo. Qui è fallito anche il fascismo, chè l'uomo nuovo non è riuscito a farlo. Il nuovo tipo di italiano doveva essere quello che si ribellava alla legge del mercante: l'antico conflitto dell'oro contro il sangue. Chi non ha capito le ragioni profonde dell'ultima guerra, non capirà mai i polacchi, gli afghani, i palestinesi. Costoro vivono e combattono perché hanno una memoria storica. I popoli ricchi e i popoli poveri, Nord e Sud.
C'è qui da noi, oggi, una concezione dello Stato pensato al Nord, secondo due Italie: l'Italia coloniale e l'Italia ricca, opulenta, quella degli Agnelli. E la situazione è destinata a rimanere così, perché il partito egemone se perde i voti a settentrione li può sempre riavere al Sud, grazie al clientelismo. E allora, riequilibrata la situazione, si eternizza al potere.
Vi è una testimonianza su Berto Ricci di un uomo che è lo scettico per eccellenza, che è un epilettico della morale: Indro Montanelli, uno che in genere non crede nella massima parte delle cose in cui scrive.
Indro Montanelli avrebbe dovuto essere con noi. Non c'è perché gli piacciono i luccichii, gli piace vivere nella culla di quella grassa borghesia lombarda che gli dice «quanto sei bravo». Ho detto: un epilettico della morale. Egli, nel '55, scrive un articolo che andrebbe letto tutto, titolo: "Proibito ai minori di 40 anni". Ecco che cosa scrive:
«Quando dalla cittaduzza andai a conoscere il direttore del periodico "L'Universale", Berto Ricci, col quale avevo scambiato alcune lettere, anche per me il fascismo cominciò a contare qualcosa. Egli fu il solo maestro di carattere che io abbia mai trovato in questo Paese, in cui il carattere è l'unica materia in cui si passa sempre senza esame. E quando di lì ad alcuni anni ebbi deciso di voltare le spalle al fascismo, fu soltanto di lui che mi preoccupai. Infatti, andai apposta a Firenze a parlargliene. Mi stette a sentire, poi disse pacatamente. "Queste sono faccende in cui s'ha da vedersela con la propria coscienza e nessuno può essere d'aiuto a nessuno. Io ti dico soltanto una cosa, non pensare ai vivi, pensa a quelli che, per restare fedeli con le nostre idee, ci sono rimasti. Siamo un gruppetto di dieci-dodici persone, non di più. Per non arrossire di fronte a noi stessi, e l'uno di fronte all'altro, qualche cosa si è fatto e Paolo Cesarini ci ha lasciato una gamba e Carlo Rotolo ci ha lasciato la vita, lui che forse era quello a cui la vita più sorrideva. Pensaci, e pensa anche che se imbocchi quella strada devi batterla sino in fondo, sino al confino, o sino all'esilio. Questo solo ti chiedo: di poter continuare a stimarti come avversario, visto che devo cessare di stimarti come amico e come alleato"».
Dirà poi Montanelli che strade non ve ne erano più: «Credevo di essere diventati, antifascista, ma non era vero, ero soltanto un fascista strano e stanco, anticipavo di qualche anno l'Italia di oggi, smaliziata e utilitaria, degli Italiani che non credono più. Entrai nella compagnia dei grandi scettici. Mai più mi sentirò come mi sentii allora, accanto a Berto, parte di qualcosa e compagno di qualcuno, voglio dire che mai mi ero sentito e mai mi sentirò giovane come in quegli anni e non solo perché ne avessi 20. Io sono fra i rassegnati, so benissimo che di bandiere non posso averne altre e l'unica che seguiterà a sventolare sulla mia vita è quella che disertai prima che cadesse. Ora che le commissioni di epurazioni non ci sono più, e quindi più non siamo obbligati a mentire per le solite ragioni di famiglia, forse è venuto il momento di rendere giustizia ai nostri venti anni e di riconoscere che essi furono migliori dei 40, e di dare ragione a chi morendo l'ebbe. Fummo giovani soltanto allora, amici miei». Questo è Indro Montanelli davanti a Berto Ricci.
Berto Ricci ci lascia due volumetti molto esili e introvabili: uno di poesie e l'altro di pezzi poetici. E sono tutta l'eredità che lui lascia. È sempre Montanelli che dice: «sulla prosa poetica mi pare di poter dire che la letteratura giornalistica italiana non ne abbia avuta più una di così stringente, dura e, qua e là, spavalda».
Il mio incontro con Berto Ricci avvenne proprio ritornando dalla prigionia, sui mercatini del libro usato, quando 40 anni fa si andava noi alla ricerca di libri che non si trovavano più nelle librerie. Libri che giustificassero la nostra rabbiosa fedeltà ad un regime vissuto in pantaloni corti. Ed è lì che mi incontrai con un libro intitolato "Avvisi" costituito da stringatissimi editoriali, con una prosa minuta, paragonata alla pittura del Rosai, semplice e grande.
Poi riuscii ad avvicinare la sua famiglia. La moglie, un giorno, apri un vecchio baule e tirò fuori i quaderni di Berto, che sono i quaderni di un Gramsci del fascismo; e allora capii che dietro a quei stringatissimi "Avvisi" c'era una cultura formidabile, filtrata, non mai esibita. Una cultura che andava dalla letteratura giapponese a quella americana, a tutto il Quattrocento e tutto il Cinquecento.
Erano, Berto e i suoi amici, uomini, veramente diversi.
Il fratello di Rosai, Bruno, scriveva: «Senza una meta precisa prendevamo ad andare lungo le strade che sfociavano nella campagna, esaltandoci ogni volta nel sentirci dentro il fermo paesaggio notturno. Le nostre conversazioni quotidiane, spesso accese come liti, avevano la tendenza a non trovare mai fine. Qualche volta si continuava a passeggiare tutta la notte, sempre accaniti intorno agli stessi argomenti e si rincasava all'alba, per ricominciare il giorno dopo».
Qualche volta si continuava a passeggiare tutta la notte... sempre accaniti... Ma l'amicizia era questa: ci si parlava, non c'era quell'incomunicabilità che oggi ci è stata instillata, da un grande uomo politico, ma non positivo, come è stato Aldo Moro; il quale, per trasformare la Democrazia Cristiana da partito cristiano-sociale in partito diverso, ha dovuto inventare un linguaggio nuovo, un linguaggio oscuro. Leggete i comunicati della Democrazia Cristiana: non li potete interpretare se non avete il vocabolario o il traduttore per capire. Perché in quei comunicato, tutto vi sembra inutile. Ma c'entrano quattro fasi che sono l'essenziale, e che le capiscono solo gli intenditori. È un linguaggio torvo, che copre ogni operazione alle spalle dei popolo.
L'incomunicabilità: perché oggi, anche tra amici più cari, siamo frettolosi, ci si saluta e via, arrivederci e la vita scorre così, grigia. Allora no, allora discutevano fino a tarda notte, fino all'alba, scherzavano il giorno dopo...
Ecco alcune definizioni sulla destra politica di Berto Ricci: «Bisogna diffidare delle destre nazionaliste, antisemitiche, antibolsceviche, antiparlamentari che si mettono in divisa fascista, arrembano il potere e danno elegantemente lo sgambetto a chi ce le ha portate col proprio sangue: camicie verdi o guardie di ferro». 0 quest'altra definizione del militarismo: «Le confusioni ideologiche ed i facili innamoramenti per i quali un qualsiasi generale a riposo che si mette a parlare di governo forte ed a mobilitare un po' di ceti medi può passare per un banditore del verbo di Mussolini. Ebbene questa gente ci ha già fatto più male della grandine». Tutte queste cose le scriveva quando era vivo Mussolini, vivo sua Maestà Vittorio Emanuele III.
Nel '33, si badi bene , egli scriveva inoltre: «Venga presto per il bene della cristianità, un Papa gagliardo, rivoluzionario, che sprotestantizzi la Chiesa, spenga la politica e ravvivi la religione. Lasci alle donnucole le polemichette puntigliose, riporti nel mondo l'alito del Vangelo. Riceva, si, i pellegrini d'America, ma si mescoli anche alla plebe di Trastevere ed entri, Vicario di Cristo, nelle case popolari di S. Frediano».
E così continuava: «Diciamolo francamente, noi non ci spaventeremmo tanto di un clero macchiato di lussuria, di simonia e di ferocia, quanto ci preoccupa questo esercito di impiegati in tonaca, irrimediabilmente malati di mal borghese. È nel peccato una grandezza, un principio, forse, di santità. Nell'inerzia dei borghesi mediocri non c'è che buio; una volta immersi selvaggiamente nella vita terrena, estranei all'essenza di questo e di quello, affacendati a radunar tessere e a parare altari».
E scriveva, vivo Mussolini, sulla Spagna repubblicana, quella dell'altra parte: «I ribelli spagnoli hanno saputo guardare in faccia con abbastanza tranquillità i plotoni di esecuzione. E una idea capace di preparare gli uomini alla morte merita vittoria e merita rispetto nell'Italia del Comandante Umberto Maddalena» (Umberto Maddalena era il comandante che aveva scoperto per primo la terra rossa di fronte al Polo; grande aviatore).
Si battè sempre, Berto Ricci, per la libertà; e nei suoi scritti, pubblicati in una rivista ultra-fascista, si ritrovano tutte le critiche di costume che sono poi state fatte al fascismo, ma a babbo morto, dagli antifascisti tipo Brancati. Le sue ironie sul goffo fascismo delle parate, Berto le farà da fascista. Gli bastavano tre righe:
«Un'adunata non è Austerlitz, un treno festivo non è la marcia su Roma: chiediamo alla stampa italiana buon senso e misura... Discorsi che si aprono con alacri invocazioni, sedute inaugurali che si chiudono con la consegna di artistiche pergamene, assemblee che scattano con un solo uomo, ma fino a quanto mio Dio?» Ciò scriveva, vivo Mussolini. Non è vero che non c'era libertà durante quel tempo. Berto Ricci tutte queste cose le ha scritte allora. Non ha aspettato che Mussolini fosse appeso ai ganci di piazzale Loreto per scriverle.
«Benone, noi facciamo questo foglio assai più per mannai e macellai che per i colletti duri e proseguiremo con quella schiettezza toscana che dà noia a tanti galantuomini e forestieri e seguiteremo a dir bene e male di quel che ci piace e non ci piace; troppa gente c'è oggi in Italia che batte le mani a tutto e a tutti e approva ogni cosa. Qui si tratta di deboli schiene italiane».
Questi ragazzi de "L'Universale" avevano allora diciannove, venti anni, non di più; ventitrè, al massimo; e avevano delle mete ambiziose. Se si apre il primo "Avviso", ci si accorge di come si proponevano delle mete spropositate. Dicevano: «Fondiamo questo foglio con volontà di agire nella storia italiana, contro la filosofia regnante... abbiamo l'ambizione incredibile di portare la letteratura e l'arte all'altezza del primato».
Avevano ambizioni forti, però non erano solo degli «intellettuali», perché l'ultimo "Avviso", quando scoppia la guerra di Abissinia, dice: «Si chiude il giornale». E vanno tutti volontari in guerra. Il volontariato italiano finisce con loro, con la Repubblica Sociale Italiana e con la «Resistenza». Dopo una tradizione che si rifà al Risorgimento italiano: al repubblicano Frati che muore in Grecia trovano una pallottola in un libretto che teneva nella sacchetta, forato, dove c'era scritto: «Tu idea sei il mio ideale». Era un repubblicano del Novecento che andava come volontario, così come gli italiani andati volontari a combattere nella Spagna.
IL volontariato è una tradizione terminata col '45. Nel Vietnam non ci è stato un volontario, in Algeria non è partito nemmeno un italiano.
Questi ragazzi de "L'Universale", invece, alle parole scritte facevano seguire i fatti.
Libri autorevoli di antifascisti (uno dei quali e: "Il lungo viaggio attraverso il fascismo") riportano che Berto Ricci non ci credeva più nel fascismo, e che, andando in guerra, si era volontariamente suicidato.
Ha scritto Michele Giancarli: «La volta successiva, io che andai a trovarlo, lo trovai solo con la moglie: i gerarchi avevano accolto senza indugio la domanda di volontariato di Ricci, lo avevano soddisfatto in pieno, spedendolo in prima linea come camicia nera. Poche settimane dopo, i giornali recarono la notizia che Berto Ricci era caduto da eroe e specularono, come è facile intuire, sul suo olocausto: si trattò di un consapevole suicidio».
Sono bugie, sono menzogne. Leggo due delle 12 lettere che Berto scrive al potente Pavolini, per andare al fronte.
«Caro Pavolini, vi chiedo un favore ... mi sentirei pochissimo a posto dinnanzi a me stesso e all'Italia se restassi a casa mentre si combatte. Aspettavo una cartolina che non viene, voi siete uomo da capire uno stato d'animo che mi dà giornate bruttine. Ho fatto domanda al distretto per essere assegnato ad un reparto combattente, ma ho paura che la domanda resti là a dormire. Non so come andranno le cose dopo la capitolazione francese, ma credo che la partita con gli inglesi non sarà nè brevissima, nè vana. Insomma, vi chiedo, caro Pavolini, di appoggiare questa domanda che ho fatto; tanto se resto a casa sono un uomo inutile, non son più buono nè a scrivere un rigo, nè a dire una parola e come me ce ne è tanti. Almeno ai giornalisti dovrebbe essere concesso di combattere. Aspetto da voi una parola e vi ringrazio perché so che farete quel che potrete. Il vostro B.R.»
E ritorna alla carica: «Caro Pavolini, è destino che questa guerra mi faccia patire e far patire molto. Io sono sottotenente di artiglieria di Corpo d'Armata ed avevo chiesto di essere assegnato all'Unità combattente. Un telegramma del Ministero della Guerra al distretto di Firenze mi ha assegnato al Settimo Reggimento Artiglieria, Divisione Fanteria Pisa. Avrebbero dovuto mandarmi invece al Settimo Artiglieria di Corpo d'Armata di Livorno; e il Reggimento mi ha schiaffato alle Batterie costiere di Marina di Pisa: una bella Unità combattente ed una solenne fregatura per me. Così son servito, e se non mi levano di qua, mi sentirò tanto umiliato da considerarmi finito come scrittore politico. A te mi rivolgo, ancora, mio caro Pavolini, dolente per tutte queste seccature, ma con l'affetto e la fiducia di sempre. Fiducia nella tua pazienza e nella tua stima».
Questo è un uomo che voleva andare a combattere. Pochi giorni prima di morire, in una lettera alla moglie, (perché con i genitori aveva dei rapporti molto duri; i suoi genitori era affettuosissimi con lui, ma non condividevano la sua passione politica) scriveva:
«Dì ai miei genitori di non mandarmi pacchi, ora. Non sono stato e non sto con le mani in mano, ma seguito a chiedere di andare ad un fronte qualsiasi (ed era in Cirenaica) e potrebbe darsi, Dio lo volesse, che partissi da un momento all'altro. Tanto, ormai la Tripolitania l'ho vista anche quella, e sarebbe ora di cambiare paesaggio».
Sempre alla moglie dice: «Ai ragazzi penso sempre con orgoglio ed entusiasmo, siamo qui anche per loro, perché questi piccini vivano in un mondo meno ladro e perché la sia finita con gli Inglesi e con i loro degni fratelli di oltremare, ma anche con qualche Inglese d'Italia. Vi abbraccio affettuosamente. Il tuo Berto»
Questo non è lo scettico che non crede più e che, depotenziato e demoralizzato, va a morire. Questo sa per che cosa combatte, sa perché è là.

 
Berto Ricci era fatto per diventare comunista?

 
Alcuni, che gli furono vicini e che sopravvissero a "L'Universale" e alla guerra, sono diventati comunisti. Romano Bilenchi diventa comunista.
È pur vero che Bilenchi ed altri cresciuti con Berto non si spogliano mai del grande amore per l'Italia, anche da comunisti. Amore che marca tutta la loro prima esperienza culturale. Dunque Berto Ricci come loro?
Nel suo ultimo e impegnativo scritto per la ripresa de "L'Universale", l'elemento antagonista con cui simpatizza sono indubbiamente le cellule comuniste: «0 facciamo noi queste cose o le fanno loro» diceva.
L'ipotesi di un Berto Ricci comunista è allora possibile? Poniamoci la domanda: Berto Ricci come Davide Laiolo (detto Ulisse, federale di Ancona, scrittore, combattente, volontario in Spagna con Franco; che si ritrova poi direttore de "l'Unità" di Milano e deputato del partito comunista italiano)? Ecco quale tipo di prosa usciva dalle mani di Davide Laiolo, quando costui era fascista: «Un attenti urlato nel silenzio di Palazzo Venezia ci fa irrigidire. È nella sala, la sala è piena di lui, noi non esistiamo che in lui, Legionari di Spagna. Passa davanti ad ognuno lentamente, ma quei suoi occhi paiono più grandi della sala stessa, profondi, lontani, vicini, buoni e terribili, gli occhi del Duce. L'orgoglio di fissarsi in quelle pupille di entusiasmo mi accende, ecco, il Duce è davanti a me, guarda me. Voglio allora urlare il suo nome, forte come una cannonata, ma un'onda di commozione mi assale e mi serra la gola. Bisogna guardarlo estasiato; si sente ancora l'attenti, non ci si può contenere. "Duce, Duce". L'urlo tremendo scuote tutta la sale e ripete gli echi di tutto il Palazzo su Roma-...
Ma Berto Ricci di fronte a Mussolini che cosa scriveva?
«Compito del futuro immediato, di educazione alla libertà è fare vedere che non si può proseguire all'infinito sulla via del saluto romano, rompete le righe e zitti. Che il fascismo si decida: o con Dio o con il diavolo, o sistema invariabile delle nomine dall'alto o partecipazione del popolo allo Stato, e non semplice atto di presenza alle adunate e versamento dei contributi sindacali. Affogare nel ridicolo chi crede nella discussione e nel dialogo, chi non capisce le funzioni dell'eresia, chi confonde Unità e difformità. Far capire che, se non si fa questo, hanno ragione i fondatori di cerchie comuniste e finiranno per averla davvero. Finirla con l'asfissiante frasario a base di ordini e basta. Libertà da conquistare e da guadagnare, da sudare. Libertà come valore eterno incancellabile e fondamentale. Mostrare come la civiltà, la moralità fascista, non possa consistere nei soli ingredienti di fede e polizia. Che anche la libertà di manifestare opinioni, di fare un giornale che dica queste cose è secondaria dinnanzi a quella che l'ultimo italiano deve esercitare: di controllo dei pubblici poteri, di denuncia aperta dell'ingiustizia, di prevaricazioni, da chiunque commessi».
Come accettare, per «ragioni di partito», di chiudere gli occhi su ciò che accadeva dentro il comunismo di Stalin? Come avrebbe potuto, lui che non sopportava i federali, inchinarsi agli ordini di un Togliatti, di un Alcata, di un Ingrao, di un Natta, o di un Occhetto? Provatevi a proiettare nel futuro il personaggio che ho cercato malamente di descrivervi, questo grande fiorentino, e domandatevi: Berto comunista?
Il cuore ci dice di aver rispetto per Berto, un uomo che con la propria vita ha provato la profondità delle proprie convinzioni.
Scrive Giovanni Gentile nel sommario della pedagogia "Un Uomo vero è vero uomo se è martire delle sue idee e non solo le confessa, ma le attesta, le prova, le realizza fino alla morte».
La sua fierezza di cuore e la dedizione di tutte le ore al fascismo gli vietarono di dare quello che avrebbe potuto dare alla letteratura italiana.
Abbiamo perduto qualche splendido libro, ma si è avuto sottomano il libro aperto di una umanità fatta uomo senza pari, che operò, sofferse, ebbe e dette, dalla forza, la fede. E del resto, piaccia o no (per dirla con lui) ai babbuini, ai fiaschi vuoti, ai palloni gonfiati, agli agnostici, ai cinici, resta uomo di viventi e cocenti passioni. Fu una coscienza senza sonno, innamorata di quella: «Italia dura, taciturna, sdegnosa che portava la, sua anima in salvo soffrendo delle contraddizioni dei ciarlatani, dei buffoni, dei letterati e dei commendatori, l'Italia che ci fa spesso bestemmiare, perché la vorremmo più rigida, più attenta, più macra, vicina alla perfezione dei Santi».

 
di Beppe Niccolai




PREGHIERA SCRITTA DA BERTO RICCI

“O Dio sereno cantato negli anni

più forti, ne’ giorni più buoni,

quand’ero bambino e pensieroso di Te;

Dio ch’eri grande in croce sul Tu’ altare

e più grande nel canto stellato

d’un maggio toscano:

io non Ti chiedo pietà del mio male,

perché pietà di me sento anch’io

e so che questa compassione è tua

nata per me nel tuo cuore

come già al sangue Ti còsse l’ardore

de’ palmi trafitti. 

Io non Ti chiedo pietà del mio male

Dio di pietà, signore di morte e di resurrezione.

Ben venga a me tempestosa vittoria

bella di lagrime, bella di spinee di troppo sudore.

Ma si rammenti il cuore di cantare

sempre, in tramonti in auroree in notturne paure:

questo ti chiedo Signore, ti domando questo in preghiera.

Un po’ di voce e un campo spigatofanno felice chi t’ama,

Padre, per le tue voci segrete fuse nell’ampia natura,

per i tuoi Cieli fioriti da tutto il popolo de’ tuoi splendori,

per l’orda delle tue tenebre muta,
per ogni respiro di mamma spaurita 
strinta al giaciglio del suo figlio e Tuo,
o Dio cantato negli anni sereni
quand’ero un bambino pensoso di te!".

 
 
“Caro Pavolini,
vi chiedo un favore. Dopo aver parecchio predicato “guerra” e “delenda” e simili, mi sentirei pochissimo a posto dinanzi a me stesso e all’Italia se restassi a casa mentre si combatte.
Aspettavo una cartolina che non viene. Voi siete uomo da capire uno stato d’animo che mi dà giornate bruttine. Ho fatto domanda al Distretto per essere assegnato ad un Reparto combattente, ma ho paura che la domanda resti lì a dormire. Non so come andranno le cose dopo la capitolazione francese, ma credo che la partita con gli Inglesi non sarà né breve né facile. Insomma vi chiedo, caro Pavolini, di appoggiarmi questa domanda che ho fatto. Tanto, se resto a casa, sono un uomo inutile: non sono più buono né a scrivere un rigo né a dire una parola. E, come me, ce ne sono tanti. Almeno ai giornalisti dovrebbe essere concesso di combattere.
Aspetto da voi una parola. E vi ringrazio, perché so che farete quel che potrete
Berto Ricci”
Questa la lettera che il fondatore dell’Universale fa avere al Ministro della Cultura Popolare, che si attiva (e con lui anche Giorgio Pini, sollecitato sempre da Ricci), ma senza raggiungere il suo scopo….nuova lettera proprio a Mussolini in data 9 agosto, e, finalmente, il 7 novembre Ricci sbarcherà in Tripolitania, per essere trasferito ad un Reparto combattente –come da sua reiterata richiesta- solo a gennaio dell’anno dopo
Il 30 gennaio, tre giorni prima di morire, manda una cartolina a Giorgio Pini, che così si conclude: “ Viva la vittoria, oggi più certa che mai, com’è certo che siamo pronti nel nome del Duce”
Queste ed altre sono le inconfutabili prove della falsità di quanto affermato da Ruggero Zangrandi su un Ricci “al di fuori del fascismo” e sul suo “consapevole suicidio”….tesi che viene tuttora riproposta, anche in buona fede, e anche in ambienti neofascisti, da quanti vogliono fare dello scrittore toscano un fascista “critico”, quando non un oppositore in pectore
D’altronde, le stese modalità della sua morte contraddicono la versione del suicidio: alle 9,30 del mattino del giorno 2 febbraio 1941, un’autocolonna comandata proprio da Ricci, a 70 km da Barce, viene attaccata da due aerei inglesi….gli uomini abbandonano i mezzi e si rifugiano ai margini della strada…Ricci, in qualità di Comandante lascia per ultimo il camion, ma, mentre cerca scampo, viene centrato da una raffica….un modo ben strano per suicidarsi

(in: Paolo Buchignani, “Un fascismo impossibile, l’eresia di Berto Ricci nella cultura del ventennio”, Bologna 1994)





 L'UNIVERSALE


Avremmo voluto rispettare il desiderio dello scrittore fiorentino Berto Ricci il quale in un suo Avviso del gennaio 1932 scrisse: " Non son di nostro gusto gli anniversari, ne' i grandi ne' i piccoli ma ..." la grave situazione italiana e la ricerca di punti di riferimento teorici sicuri per costruire il futuro su solide basi dottrinali ci spingono a violarne il volere, per cercare nel suo pensiero spunti importanti, un esempio di stile da additare ai piu' giovani, oltre che a ricordarlo nella ricorrenza della scomparsa.

Egli influenzo' sensibilmente i giovani dell'epoca, in special modo Indro Montanelli, Romano Bilenchi e Vasco Pratolini, per i quali i suoi attesissimi Avvisi, pubblicati sull'Universale, erano " come una rivelazione destinata a trasformare il mondo ". La sua importanza e' riconosciuta anche da Benedetto Croce il quale nei Quaderni della Critica sottrae all'assoluto giudizio negativo sul Fascismo solo quei giovani fascisti alla Ricci cui " deve rendersi giustizia ".

Il suo anticonformismo piaceva - come confermo' Paolo Spriano - anche ai fuorusciti comunisti, tipo Ruggero Greco. I quali s'interessarono al professore fascista fiorentino che aveva voglia di rivoluzione, di scandalizzare i moderati scrivendo che la Russia " con la rivoluzione dei comunisti ha fatto bene a se stessa " ed elogiava gli italiani che col Fascismo avendo dato una mazzata al liberalismo e a tutti i socialismi trasformisti, " non possono sentirsi piu' vicini a Londra parlamentare e conservatrice, che a Mosca comunista...L'antiroma c'e', ma non e' a Mosca. Contro Roma, citta' dell'anima, sta Chicago, capitale del maiale " e considerava il fascismo " borghese " come antifascismo bello e buono. Ma non si deve confonderlo con un bolscevico travestito, o un fascista di sinistra. Ricci sostenne che il Fascismo avesse bisogno sia di una fase di " destra ", che identifico' nella conquista dell'Impero, sia di una di "sinistra ", in cui prevalesse la spinta sociale. Il nemico numero uno, come scrisse nel 1939, " fu e resta il centro, cioe' la mediocrita' accomodante...Il centro e' compromesso, noi siamo per l'affermazione simultanea degli estremi, nella loro totalita' ". Egli era un convinto mussoliniano; esaltava la rivoluzione fascista come " premessa necessaria dell'Impero romano che realizzera' la Monarchia di Dante e il Concilio di Mazzini ".

Berto Ricci, all'anagrafe Roberto, nacque a Firenze il 21 maggio 1905 ed eroicamente morì da tenente delle Camicie Nere, 26° Reggimento Artiglieria, III Gruppo 9ª Batteria, verso le nove del 2 febbraio 1941 a Bir Gendula, nel Gebel cirenaico, mentre cercava di far riparare i suoi uomini dal fuoco micidiale di due aerei Spitfire inglese. Alla maniera degli antichi eroi - secondo il suo amico Paolo Cesarini- " fu fulminato con il volto severo verso il cielo " mentre in piedi gridava: " A terra, a terra! "

Dopo un'iniziale militanza anarchica, nel 1930, fu conquistato dalla fede nel Fascismo, restando pervaso per tutta la feconda vita dall'entusiasmo del neofito. A Mussolini e al Fascismo Ricci arrivo' collaborando al Selvaggio, di cui non accettava l'antimodernismo reazionario, e frequentando l' ambiente di Strapaese. " Toscanaccio " tra " toscanacci " non poteva che apprezzare il fascismo rude, popolare e intransigente delle " squadre " che sognavano la " seconda ondata ".

Rinunciando ai molti vantaggi che il suo prestigio intellettuale e i suoi legami con il Partito potevano procurargli resto'militante tra i militanti, mantenendo la famiglia con il modesto stipendio di insegnante di matematica nei Regi Istituti Tecnici Industriali Statali di Prato e " V.E. III " di Palermo, perche'‚ come scrisse Diano Brocchi " si rifiuto' di campare della sua arte di scrittore per paura che il mestiere riuscisse ad influire su cio' che andava scrivendo in giornali e riviste del Regime ".

Anche per Ricci si potrebbero ripetere le parole dette da Leonardo da Vinci dopo la morte di un altro giovane eroe: " Mai cieco ferro al mondo tronco'piu' grande speranza ". Infatti, il giovane polemista fiorentino fu una delle piu' promettenti speranze della generazione venuta all'impegno dopo la tempesta della I Guerra Mondiale. Essi aspirarono ad essere degni dei fratelli maggiori o dei padri che l'avevano combattuta e vinta, morendo se la Patria ne avesse avuto bisogno, o partecipando alla edificazione dello Stato fascista con l'impegno intellettuale, di cui rivendicarono una larga autonomia. Egli chiese ai giovani intellettuali di misurarsi con tre storici problemi della societa' italiana: questione religiosa, formazione di una nuova classe dirigente e riforma del costume.

Berto Ricci appartenne ad una covata d'intellettuali militanti, fascisti eretici e puri, come ad esempio Carlo Roddòlo, Guido Pallotta e Niccolò Giani, che raccolti attorno alle riviste giovanili, L'Italiano,Selvaggio, Cantiere, Vent'anni, Bargello, portarono una ventata di giovinezza e d'anticonformismo nel Fascismo, ormai diventato Regime e sempre piu' preda del gerarchismo, i cui malefici frutti si vedranno il 25 Luglio 1943.

La sua passione piu' viva e profonda fu forse l'attivita' letteraria. Ma l'impegno giornalistico, unito all'insegnamento, seriamente esercitato per tutta la vita, ci lasciano di lui poche opere: Poesie eCorona Ferrea, due raccolte di versi pubblicate rispettivamente nel 1930 e nel 1933; intramezzate dallo Scrittore Italiano, edito nel 1931, e della contemporanea traduzione del Vicario di Wakelfield di O. Goldsmith. Il Meglio del Petrarca, un'antologia del 1928, fu la sua prima opera. Colto umanista tradusse Ovidio e Shakespeare. Nei numerosi articoli sulle espressioni della letteratura europea contemporanea fu avvantaggiato dal conoscere il francese, il tedesco, il portoghese e l'inglese.

Nel libro Lo Scrittore italiano, oltre ad una serie di considerazioni sull'arte e sugli scrittori, volle fornire un modello, umano e politico oltre che artistico, agli intellettuali fascisti o italiani, termini considerati da Ricci come due sinonimi.

L'importanza di Ricci è dovuta, principalmente, alla pubblicazione dell'Universale, che ebbe come " padre spirituale " Ottone Rosai. Il bimensile, un " fascicolo di 30 pagine, scritto col fuoco, alla carducciana e non con lo stile alla leopardevole; fu fondato " con la volonta' di agire sulla storia italiana ". Il periodico, " segui Rosai. Il poeta stampo'il foglio credendo " che attraverso i suoi errori, le sue contraddizioni, l'Universale espresse con le sue idee, anzi con la sua esistenza, una verita' fondamentale: la necessita' per gli artisti e per gli scrittori italiani, di partecipare alla vita italiana "... senza " isolette oceaniche e paradisi artificiali " volendo " portare un contributo alla storia in atto ". La rivista, che ebbe vita breve e difficile, usci' dal 3 gennaio 1931 al 25 agosto 1935.

Il professore e i suoi ragazzi pensavano, secondo Montanelli che: " il fascismo, da quella mezza burla che era stato sino ad allora, poteva trasformarsi in una rivoluzione vera solo se riusciva a costruire un nuovo tipo d'italiano: quello per il quale Ricci - piu'che a fornire idee - bado' a fornire un esempio a chi gli stava intorno, e ci riusci' ". Collaborarono al bimensile, tra gli altri, Roberto Pavese, detto il filosofo, Indro Montanelli, Romano Bilenchi, che fu il piu' vicino collaboratore di Ricci e che lo sostituì nella direzione del periodico dal giugno all'agosto 1935, Ottone Rosai, Edgardo Sulis, Dino Garrone, Diano Brocchi e Camillo Pellizzi. Da questa covata, fu compiuto l'estremo tentativo di una minoranza di giovani intellettuali d'inserirsi, incidendovi, nella vita italiana. Lo scrittore fu aiutato, come giudicò Montanelli, dalla " sua prosa polemica cosi' asciutta e tagliente, e cosi in contrasto con lo stile del tempo, " che " la letteratura giornalistica italiana non ne ha mai avuta di tanto stringente, dura e, qua e la', spavalda ".

Farinacci dalle pagine del cremonese Regime Fascista accusò Ricci di " bolscevismo " a causa di due Avvisi del febbraio 1932 in cui si lamentava " l'ozio di una parte della classe ricca, sia borghese che aristocratica, " alla quale ultima " qualche chiappafumo s'impunta a assegnarle in teoria prerogative da medioevo ". Inoltre, i suddetti ceti venivano imputati di " criminosa diserzione " nella difficile situazione economica del periodo e ammoniti che: " La proprietà inviolabile non è affatto un principio dello Stato fascista, che ha dimostrato di saper colpire anche la proprietà in nome della Patria. La proprietà inviolabile è un dogma liberale non fascista, inglese e non romano: da noi proprietario è depositario e non altro...[la storia italiana ] è storia di spogliazioni compiute dallo Stato per il popolo ".

In un Avviso dell'ottobre 1932, si dichiarò " non entusiasta " del concetto di Corporazione Proprietaria, esposto da Ugo Spirito durante il Convegno di Ferrara.

Nel gennaio 1933, il professore e i suoi sottoscrissero un Manifesto Realista in cui definirono il " marxismo incompatibile con la natura umana e soprattutto con la natura italiana ", e teorizzarono che: " Il tramonto inarrestabile del sistema liberale esiga da una parte l'eticità dell'economia, dall'altra la graduale partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende e la fine d'ogni proletariato. Ritengono che la societa' futura avrà a fondarsi sul dovere del lavoro e sul diritto del produttore alla proprietà nei limiti utili allo Stato; e che il diritto di proprieta' e quello d'eredità siano buoni in quanto servono allo Stato, nocivi in quanto non concordano coi suoi fini; che l'iniziativa individuale sia da favorirsi oppure da limitarsi e reprimersi secondo lo stesso criterio ". La rivista fu intransigente contro i tentativi di reinserimento nella vita politica compiuti dai vecchi sovversivi dell'Italia prefascista. Per l'opposizione d'Alessandro Pavolini, in quel periodo " federale " di Firenze, Ricci avra' la tessera del P.N.F. solo nel febbraio del 1934, dopo tre anni di successi de l'Universale.

Allo scoppio del conflitto italo-etiopico, Ricci, che aveva definito la guerra " madre della civiltà " e teorizzato che " non c'è rivoluzione fascista senza impero ", lasciò la moglie, la figlioletta di appena due anni e l'insegnamento, per combattere, col grado di scelto, nella I Divisione delle Camicie Nere.

L'Universale diede " dodici combattenti per l'Impero; un caduto, medaglia d'argento Roddolo, un mutilato, medaglia di bronzo Cesarini ".

Gli Avvisi piacquero molto al Duce che invitò la covata dello scrittore fiorentino," antidealista ed antigentiliana "a portare una ventata di aria frizzante di gioventù tra le polverose stanze de Il Popolo d'Italia. Gli alti papaveri del Regime fecero naufragare l'iniziativa. Lo stesso Mussolini, che apprezzava il fiorentino considerandolo quasi il prototipo dell'italiano nuovo nato dal Fascismo, approvò l'iniziativa di affidargli un giornale, ma il progetto sfumo' nei meandri del MINCULPOP, in quel periodo impegnato nella ricerca di eretici o infiltrati nelle riviste giovanili. La ritrosia di Ricci, cui pesava chiedere le cose più di una volta, e la vincita di un concorso alla cattedra di matematica a Palermo fecero naufragare definitivamente il progetto della Tribuna dell'Universale.

Il trasferimento in Sicilia, accettato a malincuore dal giovane reduce, non interruppe la sua partecipazione alla vita politica e culturale attraverso le stoccate pubblicate sulla rivista di Giuseppe Bottai Critica Fascista ed ad articoli sul giornale mussoliniano Il Popolo d'Italia. Dal 30 gennaio al 15 settembre 1937, Ricci insegnò matematica presso il Regio Istituto Tecnico Industriale " Vittorio Emanuele III " di Palermo. Critico severo delle degenerazioni cattoliche della religione di Cristo, la cui decadenza " impone ormai...di risorgere o morire ", e del lento procedere verso la costruzione dello Stato Nazionale del Lavoro, Ricci diede del Fascismo un'interpretazione che si rifaceva a tratti a Mazzini, criticando la scelta monarchica del 1922.

Nell'importante lettera circolare ai collaboratori del 3 aprile 1938 scritta per annunciare la rinascita del periodico, affermò che: " Bisogna preparare la libertà fascista ", e che il Fascismo, dopo aver dato agli italiani il senso dello Stato, doveva educare il popolo alla vera libertà e alla partecipazione alla vita pubblica ed espresse il suo " rispetto e simpatia alla Nazione tedesca e alla rivoluzione nazionalsocialista; avversione assoluta all'ideologia razzista e specialmente a qualunque sua infiltrazione in Italia ".

Allo scoppio della II Guerra Mondiale riuscì, dopo "aver scocciato mezza Italia " e aver scritto " venti lettere per farsi richiamare e venti ... per farsi trasferire ... ad una destinazione più' guerriera da un accampamento a pochi chilometri da casa " a farsi mandare sul fronte marmarico,dove cadde mentre combatteva, da volontario in camicia nera, gli " inglesi di fuori ", pensando di risolvere a guerra finita i conti con " gli inglesi di dentro ". Per Ricci, come scrisse in una lettera del 14 gennaio 1941 al pittore e scrittore Nino Bertocchi, la vittoria doveva essere " davvero imperiale e innanzi tutto morale e civile ". In tal modo smentendo le tesi di Ruggero Zangrandi e di Romano Bilenchi, con cui aveva gia' chiuso da tempo, che per sminuire i loro voltafaccia post bellici parleranno poi del gesto del volontario Ricci in termini di " consapevole suicidio " o di un Ricci che sopravvissuto sarebbe diventato comunista. Il quale nel suo ultimo incontro con Montanelli disse che il problema di una sua conversione per lui non si poneva in quanto: " Sono già convertito - ricordando la sua giovanile militanza anarchica - non posso riconvertirmi per la seconda volta. Sarebbe una arlecchinata ".
 
Confusa fra tante appare la sua tomba nel sacrario dei caduti d'Oltremare di Bari, l'iscrizione " (Ro) Berto Ricci " e la data della sua morte. Vergognosamente l'amministrazione comunale di Firenze cancellò, nel 1948, una via a lui dedicata.
Giovanni Bartolone


 

 

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