Nei momenti cruciali della storia di una Nazione, è arduo distinguere tra la mitografia e la storiografia o, più semplicemente, tra leggenda e realtà
Riportiamo fedelmente un articolo di Alberto Perconte Licatese
pubblicato nel marzo 2011 per il Laboratorio Culturale Arianna
Rileggendo Enzo Erra, Quante furono le “quattro giornate” di Napoli ?
Nei momenti cruciali della storia di una Nazione, è arduo distinguere tra la mitografia e la storiografia o, più semplicemente, tra leggenda e realtà.
Nei libri di storia di scuola, già da tempo sono riportate, con enfasi e trionfalismo, come un evento storico rilevante, le quattro giornate di Napoli del settembre 1943, come un’insurrezione della città, che determinò la cacciata dei tedeschi.
Un giornalista, qualunquista e reazionario, ha stabilito un parallelo ironico e tragicomico tra le famose quattro giornate e le quaranta o quattrocento giornate occorrenti per liberare la città non dico dalla camorra ma, più pedestremente, dalle decine di tonnellate di immondizia accumulata nelle piazze, nelle strade, nei vicoli, nella periferia e nell’hinterland. Attenendosi alla verità ufficiale delle radiose giornate, già potrebbe sembrare blasfemo che quattro fossero bastate per liberare Napoli da un esercito armato, organizzato, disciplinato ed in assetto di guerra, mentre un numero moltiplicato per dieci o per cento non sarebbero sufficienti per liberare la città dai rifiuti solidi (stupido e stucchevole eufemismo), accumulati dovunque grazie all’incapacità, all’insipienza, alla colpevole miopia della presente e delle passate amministrazioni e di vari commissari ad hoc, le une e gli altri pagati profumatamente (che paradossale ossimoro!) dal solito contribuente.
La parentesi di sconcertante attualità è servita a rileggere l’opera dello scrittore anticonformista Enzo Erra, edita a Milano nel 1983, nella quale espose una lucida analisi ed una verità scomoda: “Le quattro giornate che non ci furono”.
Andiamo in ordine.
Che le soldatesche germaniche siano state cacciate dal suolo partenopeo dai napoletani insorti tra il 28 settembre e il 1° ottobre 1943, parrebbe una pura invenzione: si poteva sostenere magari nel 1944-45, per motivi di propaganda bellica (l’onorificenza della medaglia d’oro tributata alla città di Napoli con decreto 1° settembre 1944), ma non certo in sede storiografica.
Il ripiegamento della decima armata tedesca da Salerno fino al Volturno cominciò il 16 settembre 1943 e si concluse il 27, quando le retrovie cominciarono ad uscire da Napoli. Né i generali tedeschi, né quelli anglo-americani, né gli studiosi di storia militare hanno mai accennato ad un’insurrezione, che abbia in qualche modo determinato o accelerato la ritirata dei presidi tedeschi da Napoli.
Accertato che i tedeschi non fossero cacciati, è lecito chiedersi se ci fossero o meno le “quattro giornate”. La datazione ufficiale, delle lapidi e delle celebrazioni commemorative (sovrabbondanti di retorica), va dal 28 settembre al 1° ottobre 1943, in contrasto con la versione contenuta in altri atti (27-30 settembre 1943).
Acutamente Erra osservò che, escluso il 1° ottobre, si deve eliminare anche il 27 settembre, giorno nel quale non avvenne nulla di notevole. Nel 28 settembre avvenne ben poco e, comunque, prima di sera, un acquazzone mise fine agli “scontri”. Il 30 settembre, in città non c’era un solo tedesco contro il quale nessuno si sarebbe insorto. Rimane, quindi, il 29 settembre, prendendo come buoni tutti i racconti, quando ci furono episodi (slegati, isolati, disorganizzati) di “guerriglia urbana”, tristemente conosciuta, prima e dopo la data nefasta dell’8 settembre 1943, nelle città del nord. Sul numero dei partigiani combattenti, accertato da una commissione ufficiale del 1945, si avvicinava alle duemila unità, tutto sommato poche per una città che sfiorava il milione di abitanti. Eppure, questi duemila sembrano lontani dal vero; dalle testimonianze dell’epoca si parla di alcune centinaia e comunque tutti quelli impegnati, ad ogni titolo, nel 30 settembre. Furono forse quei famosi duemila; con onestà mentale, Erra riconobbe che tra essi molti si impegnarono a compiere imprese eroiche, che spesso pagarono con la vita, secondo una relazione matematica secondo la quale minore è il numero dei combattenti, maggiore è il loro coraggio; di conseguenza, i più si limitavano ad agire poco o a guardare solo o a fare chiasso.
Insomma, Napoli non fu “consegnata”, non “insorse”, non “si riscattò”, se non altro perché non c’era nulla da riscattare.
Nella realtà, Napoli subì per tre anni un’aggressione aerea spietata ed implacabile (circa 30.000 morti e mezza città sventrata e crollata), prima che la sua forza venisse piegata: così si scalfisce un altro mito, quella della liberazione. Chi erano i liberatori, se erano gli stessi, che avevano indiscriminatamente e spietatamente bombardato la città e mitragliatato ferocemente i suoi inermi cittadini?
Nel quadro dell’ideologia vincente e della mitografia dominante, l’epica a Napoli non può trovare posto.
Per converso, non si trova posto la Napoli delle “giornate radiose”, ma la Napoli martoriata, umiliata, annientata materialmente e moralmente, scesa ai gradini più bassi della sua storia millenaria e luminosa, grazie all’avvento degli anglo-americani, della miseria, della turpitudine, l’ignominia delle “segnorine”, degli sciù-scià, l’illegalità diffusa, anche con l’aiuto dei camorristi Buscetta, La Marca, Genovese, i bordelli, la pedofilia, la sporcizia, il tifo petecchiale, la scabbia, la sifilide, una città in ginocchio, che poi gli stessi americani si adoperò farisaicamente a curare da tutti questi mali.
Come se gli americani si fossero divertiti a ridurre in condizioni penose ed abiette per punire il senso dell’onore, della fedeltà, della patria, la coerenza e l’eroismo della classe dirigente fascista napoletana, decimata dalle esecuzioni sommarie, dall’internamento, dal carcere, dalle indiscriminate e feroci epurazioni, mentre altri ancora combattevano e morivano al nord ed erano deportati nei famigerati Criminal Fascist Camp, perfino in India.
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