lunedì 17 ottobre 2016

PRETI UCCISI NELLA GUERRA CIVILE

( note raccolte da varie fonti a cura di Barbara Spadini)
 
 
Preti uccisi nella guerra civile: in realtà oggi gli storici accreditati dal sistema utilizzano il termine “guerra di liberazione” : questa definizione non è accettabile in quanto giustificativa e giustificatoria di morti occultate ed obliate dovute ad una guerra di italiani contro italiani .
La mistificazione è in agguato da settant’anni, quindi: ma  la realtà è ben differente, se vogliamo  rendere conto di fatti e non sottoscrivere  giustificazioni che sembrano “dovute azioni  riparatrici” al cosiddetto “male assoluto”.
Si parla di sacerdoti uccisi tra il 1943 e il 1945 , alcuni anche ben dopo quell’anno: ebbene la prima cosa che possiamo dire con certezza fattiva è che  la resistenza italiana  sul suo grande bandierone rosso  ha almeno tre macchie nere, indelebili e ingiustificabili a tutti gli effetti, rimanendo in tema di fatti storici :
1-   Il massacro delle Ausiliarie RSI, donne  italiane in divisa ma non armate
2-   L’omicidio efferato di molti giovanissimi allievi ufficiali e militi della RSI freddati  dopo che si erano arresi
3-   La mattanza dei preti,  avvenuta principalmente nelle zone del Confine orientale, nel triangolo della morte fra le province di Modena,  Reggio e Bologna e nella zona Apuana della Toscana , ma anche altrove, in Piemonte,Liguria e Lombardia.
Il numero dei preti uccisi resta un dibattito aperto: le fonti accreditate parlano di oltre cento sacerdoti uccisi e a dire il vero  non sono riuscita a calcolare la cifra esatta per la non facile sinossi delle fonti, poche e superate dal punto di vista storico.
Su quest’argomento vi sono alcuni libri che parzialmente mettono in luce la programmatica, efferata, capillare eliminazione dei sacerdoti emiliani insieme- e parlo della sola Emilia Romagna- a altre quasi ventimila persone di tradizione cattolica ( non sempre di simpatie fasciste, e parlo di civili) che ci fa ben comprendere quanto  la religione fosse d’ostacolo per poter mettere in atto  l’avanzata strategica di quel regime comunista e ateo che si radicava grazie alle manovre togliattiane, già cittadino sovietico da un lato ed alle pressioni titine all’Est dell’italia.      
Per i comunisti i parroci erano tra gli oppositori più efficaci, quindi molto pericolosi. Avevano confessionali in cui emergeva , tra un peccato e l’altro, anche  la verità sulla violenza rossa che, fuori, nessuno osava dire.
Avevano pulpiti da cui parlare e condannare, gente ad ascoltare. Erano organizzati con oratori, consigli comunali, formavano diocesi. Quattro volte più numerosi di oggi, erano disseminati ovunque. Più dei carabinieri, più dei farmacisti. Persino più delle case del popolo. E se la loro parrocchia disponeva di benefici terrieri, ebbene, erano da odiare due volte, una perché preti, l'altra come padroni, e rientravano perciò doppiamente in quell'assunto che, dalla fine della guerra, girò per anni tra le squadre d'azione comunista, in cellula e nelle case del popolo:
«Se dopo la liberazione ogni compagno uccidesse il proprio parroco e ogni contadino il padrone, il problema sarebbe già risolto».
Si può sostenere - come riteneva anche  lo storico Marco Pirina - che «chi pianificò l’uccisione di preti lo fece con uno scopo ben preciso: scardinare il controllo culturale sulle masse proletarie. Furono scelti soprattutto parroci di campagna, dove più radicata era la tradizione religiosa»; però è difficile negare che «il movente - testimoniò un sacerdote emiliano - è stato identico per tutti: liberarsi di una presenza scomoda, castigare chi predicava pace, chi si adoperava per salvare vite umane, chi deplorava l’odio e le stragi. Tanti nostri preti hanno pagato con la vita una semplice espressione di dissenso pronunciata durante una predica, in chiesa. Molti altri sono stati uccisi solo perché indossavano una tonaca».
Riguardo alle morti dei sacerdoti, nell'immediato dopoguerra una prima e incompleta ricognizione del fenomeno venne realizzata da Luciano Bergonzoni e Cleto Patelli, che trattarono l'argomento in una sezione della loro opera Preti nella tormenta; per i due autori, i sacerdoti uccisi furono «martirizzati».
Più organico e sistematico fu l'approccio di Lorenzo Bedeschi negli anni Cinquanta: dai risultati della sua analisi, pubblicati nel volume L'Emilia ammazza i preti, emerse che 52 ecclesiastici (definiti «martiri» anche in questo testo) furono uccisi nella fascia di territorio che va «da Rimini a Piacenza, da Modigliana a Guastalla».
Più di recente il giornalista e scrittore Roberto Beretta, collaboratore del quotidiano cattolico Avvenire, nella sua Storia dei preti uccisi dai partigiani ritenne di aver individuato un denominatore comune a tali episodi e chiamò quella serie di uccisioni «strage dei preti».
Già nei primi anni Cinquanta, sulla scia dei fatti delittuosi, il vescovo di Reggio Emilia, Beniamino Socche, a capo di un comitato appositamente istituito, tentò di ottenere l'autorizzazione a erigere un monumento al cosiddetto «prete ignoto», ma la sua iniziativa non ebbe successo.
Nella primavera del 1990 i familiari superstiti di alcune delle vittime delle quali non fu mai ritrovato il corpo pubblicarono una lettera aperta, chiedendo quantomeno indicazioni per rintracciare le spoglie e dar loro sepoltura. Alcuni mesi dopo, il 29 agosto, fu pubblicata sul quotidiano bolognese Il Resto del Carlino una lettera del parlamentare comunista ed ex-partigiano Otello Montanari, inviata anche all'Unità, ma da questo quotidiano non pubblicata. Nella lettera Montanari premise che bisognava distinguere tra "omicidi politici", ovvero commessi in ragione del ruolo esercitato dalla persona uccisa ed "esecuzioni sommarie", ovvero uccisioni indiscriminate di avversari politici e oppositori; e invitò chiunque sapesse come ritrovare le spoglie delle persone uccise (aggiungendo: «Io non lo so») a dare le necessarie informazioni. Dopo la pubblicazione di tale lettera, Montanari ebbe gravi difficoltà nel partito, all'interno del quale fu aspramente contestato e fu inoltre escluso dal Comitato Provinciale dell'ANPI, dalla Presidenza dell'Istituto Cervi e dalla Commissione regionale di controllo.
I coniugi Elena Aga-Rossi (docente universitaria di Storia contemporanea) e Victor Zaslavsky (esperto di storia dei rapporti italo-sovietici), dopo l'apertura degli archivi di Stato dell'ex-URSS, ebbero lo spunto per una nuova analisi di tali avvenimenti alla luce dei rapporti del PCUS con i suoi partiti fratelli (ivi incluso, quindi, il PCI). La tesi dei due studiosi, esposta anche in un'intervista allo stesso Roberto Beretta dalle colonne di Avvenire, è che il PCI all'epoca, se non proprio favorì, quantomeno tollerò e coprì la soppressione di esponenti di categorie (borghesi, sacerdoti, possidenti) che in un'ottica di breve-medio periodo potessero costituire un impedimento materiale e culturale-ideologico all'espansione comunista; infine, per quanto riguarda le cause della debolezza, quando non del silenzio, da parte cattolica nel denunciare tali fatti, Aga-Rossi e Zaslavsky ipotizzano che il clero temette di vedersi rinfacciata una qualsivoglia forma di adesione al passato regime fascista, sebbene tale aspetto della questione sia ancora lungi dall'essere storicamente indagato a fondo.
Mentre in Piemonte e in Lombardia, la strage infuriò per pochi giorni, esaurendosi entro il mese di maggio e mentre nella Venezia-Giulia la barbara ondata slava durò praticamente quaranta giorni e si arrestò allorché Trieste e Gorizia passarono sotto il controllo anglo-americano, la regione emiliana venne funestata ancora per lunghi mesi da atroci fatti di sangue. Causa principale di questo fenomeno fu la presenza, nella regione, di centinaia di vecchi esponenti comunisti. Con l’arrivo degli americani a Bologna, gli enti locali, i sindacati, le cooperative, gli organi di polizia, tutto passò nelle mani di uomini di fiducia del Partito Comunista. La conseguenza fu che il terrore, di pretta marca bolscevica, si abbatté sulle popolazioni. Antichi rancori, vendette personali e odio politico si fusero esplodendo in un’atroce, incredibile e inarrestabile catena di omicidi, stragi collettive e angherie senza nome. L’epicentro fu nel «Triangolo della morte», cioè nella zona compresa tra i centri di Castelfranco Emiliano e Spilamberto nel modenese, e San Giovanni in Persiceto nel bolognese. «Nella provincia di Modena, i partigiani comunisti, arrestati e processati per omicidi e reati comuni, furono più di seicento. Molti furono condannati e finirono in galera. Moltissimi ripararono a Praga, tramite l’ufficio espatri clandestini della federazione comunista modenese» (…)
1-il parroco di Crocette, frazione di un migliaio di anime, a 3,5 km da Pavullo (Modena, don Luigi Lenzini, sessantenne, c’era da molto tempo e lo consideravano tutti per la sua parola decisa e il suo dire pane al pane e vino al vino. Tipo chiaro e nodoso, come certi quercioli che non piegano a nessun vento. Tardissimo – saranno state le 2,00 dopo mezzanotte – sentì bussare alla porta e andò alla finestra in camicia da notte. Gli dissero di scendere che avevano bisogno. Voci sconosciute e indistinte. Si scusò di non poter scendere per la vecchiaia e l’ora tardissima. Ma quelli non si diedero per vinti. Dopo aver insistito invano, si buttarono contro la porta della canonica; poi sfondarono una finestra ed entrarono. Quanti erano? Due o tre? Don Lenzini, che aveva intuito subito tutto, cercò di sgusciare per la canonica nella chiesa e si appiattì dietro l’altare maggiore. Ma qualcuno era pratico di tutto. Lo presero. «Lasciate almeno che mi vada a vestire». Niente! Lo trascinarono via com’era, in camicia. Il venerando sacerdote si raccomandava e qualcuno pare abbia udito i suoi lamenti nella notte. Fuori era caldo. Si allontanarono dal paese e lo spinsero a calci e urtoni in una vigna vicina. Lì lo sottoposero a torture che qui non abbiamo il coraggio di descrivere: il pudore ce lo impedisce. Poi gli levarono gli occhi e lo seppellirono, dopo averlo strangolato. Nella tragica vigna si vedeva una testa che emergeva dal terriccio smosso. Qualche giorno dopo se ne accorsero tutti e alcune persone pietose gli diedero sepoltura.
 
Risultati immagini per don luigi lenzini

 
2- Il canonico don Giuseppe Guicciardi era parroco sull’Appennino, a Mocogno (Modena), un paesetto a 2,5 km da Lama, a 800 metri sul livello del mare. Questo fatto capitò precisamente il 10 giugno 1945. Fu una sera. Il parroco andò ad aprire ad alcuni tizi, i quali, entrati, gli chiesero da mangiare, dicendo di essere affamati. Mise loro davanti quel che aveva in casa. Poi, quelli, mangiato che ebbero, chiesero vestiti, coperte e soldi; volevano anche un grammofono. E poiché il prete tergiversava, andarono di là nello studio e presero quei soldi che trovarono, il poco denaro della fabbriceria destinato ad un «ufficio». Rovistarono da ogni parte e portarono via quello che faceva loro comodo, anche la biancheria personale del parroco. Parevano sazi, ormai, e stavano per andarsene. Si avviarono all’uscio e il parroco già ne ringraziava Dio nel suo cuore, quando uno di loro, voltandosi improvvisamente, come per salutare, gli scaricò addosso una pistola, così a freddo. Il vecchio sacerdote cadde bocconi e non si mosse più. Uno di loro, sbattendo l’uscio, disse un po’ eccitato: «Perché l’hai fatto? Ce n’era proprio bisogno»? Ma l’assassino rispose: «I preti bisogna ucciderli tutti: uno alla volta; ma bisogna toglierli di mezzo»! E si perdettero nel buio con la refurtiva. La canonica di Mocogno è un po’ lontana dall’abitato centrale. La gente si accorse dell’efferato delitto solo la mattina dopo, perché la Messa non suonava come al solito. Fra le carte del santo parroco fu trovato una specie di diario in cui egli aveva offerto la propria vita al Papa, durante i tragici mesi del fronte, per la salvezza dei peccatori e la fine della guerra. Il suo assassino fu pescato, un giorno, mentre passava per strada. Individuato, i carabinieri lo inseguirono. Cercò prima di fuggire, poi tentò di liberarsene sparando su di loro, ma fu freddato prima che ne avesse il tempo. Indosso aveva ancora la camicia del povero parroco massacrato quella notte del 10 giugno!
3-Don Giuseppe Preci, sessantadue anni. A Montalto di Zocca (metri 800), di notte, c’è da avere del coraggio a starci, anche senza guerra e… dopo guerra! Confinato lassù, tra castagni e faggi, c’è da fare ad arrivarci da Zocca (Modena) in tre quarti d’ora in macchina. Il parroco, don Preci, era un tipino sottile e deciso, pronto ad ogni ora per il suo popolo. E quando lo vennero a destare, quella notte del 24 maggio 1945, perché andasse da un ammalato, non ci pensò due volte ad uscire. Si vestì e andò in chiesa a prendere i Sacramenti, il Viatico e l’Olio santo. Uscito sul sagrato, le due persone che lo avevano chiamato lo pregarono di fare presto. E lo pregarono di andare avanti. Il sacerdote ubbidì, sia pure a malincuore, e si raccomandò a Dio. Del coraggio ne aveva sempre avuto, lui. Ma una scarica di mitra lo fulminò. Cadde, e il suo sangue bagnò la stradicciola che prendeva dal sagrato. Il prete rimase lì con i Sacramenti, sotto gli abiti insanguinati, fino al mattino dopo.
E’ curioso che il Paese che si dedica da decenni alla commemorazione delle stragi (a cui sono state intestate vie, convegni e perfino delle commissioni parlamentari), non si sia mai voluto accorgere della strage dei preti italiani. Qualche faro si è acceso e qualche riconoscimento di eroismo è arrivato solo per i preti che hanno avuto la ventura di essere massacrati dai nazisti. Ma di solito se n’è fatta occasione di propaganda. E’ il caso del martirio di don Giovanni Fornasini, ucciso dai tedeschi a Marzabotto. A lui – protestò l’Osservatore romano – “forse per errore o albagia propagandistica fu concessa la Medaglia d’oro al merito partigiano. Uno scherzo della storia!” polemizzò il giornale vaticano. “Egli fu soltanto ‘partigiano’ di Dio, ucciso perché lottava per la salvezza delle anime, detestava la violenza, ligio solo alle verità evangeliche, protettore degli innocenti, condannando partigiani e soldati per lo scempio delle popolazioni inermi”. Come gli altri parroci uccisi. Don Giuseppe Jemmi per esempio aveva anche eroicamente aiutato la Resistenza e fu pure arrestato dai tedeschi. Poi però fece sentire la sua voce di pastore contro gli omicidi dei partigiani: “Fratelli, sta scritto: non ammazzare! Non macchiatevi le mani di sangue. Non ascoltate la tentazione della vendetta. Non siate i figli di Caino…”. Così fu ammazzato lui stesso il 19 aprile 1945 e la sua splendida figura è rimasta sconosciuta.

Nessun commento:

Posta un commento