(
note raccolte da varie fonti a cura di Barbara Spadini)
Preti
uccisi nella guerra civile: in realtà oggi gli storici accreditati dal sistema
utilizzano il termine “guerra di liberazione” : questa definizione non è accettabile
in quanto giustificativa e giustificatoria di morti occultate ed obliate dovute
ad una guerra di italiani contro italiani .
La
mistificazione è in agguato da settant’anni, quindi: ma la realtà è ben differente, se vogliamo rendere conto di fatti e non
sottoscrivere giustificazioni che
sembrano “dovute azioni riparatrici” al
cosiddetto “male assoluto”.
Si
parla di sacerdoti uccisi tra il 1943 e il 1945 , alcuni anche ben dopo quell’anno:
ebbene la prima cosa che possiamo dire con certezza fattiva è che la resistenza italiana sul suo grande bandierone rosso ha almeno tre macchie nere, indelebili e
ingiustificabili a tutti gli effetti, rimanendo in tema di fatti storici :
1- Il
massacro delle Ausiliarie RSI, donne
italiane in divisa ma non armate
2- L’omicidio
efferato di molti giovanissimi allievi ufficiali e militi della RSI freddati dopo che si erano arresi
3-
La mattanza dei preti, avvenuta principalmente nelle zone del Confine
orientale, nel triangolo della morte fra le province di Modena, Reggio e Bologna e nella zona Apuana della Toscana
, ma anche altrove, in Piemonte,Liguria e Lombardia.
Il
numero dei preti uccisi resta un dibattito aperto: le fonti accreditate parlano
di oltre cento sacerdoti uccisi e a dire il vero non sono riuscita a calcolare la cifra esatta
per la non facile sinossi delle fonti, poche e superate dal punto di vista
storico.
Su
quest’argomento vi sono alcuni libri che parzialmente mettono in luce la
programmatica, efferata, capillare eliminazione dei sacerdoti emiliani insieme-
e parlo della sola Emilia Romagna- a altre quasi ventimila persone di
tradizione cattolica ( non sempre di simpatie fasciste, e parlo di civili) che
ci fa ben comprendere quanto la
religione fosse d’ostacolo per poter mettere in atto l’avanzata strategica di quel regime
comunista e ateo che si radicava grazie alle manovre togliattiane, già
cittadino sovietico da un lato ed alle pressioni titine all’Est
dell’italia.
Per
i comunisti i parroci erano tra gli oppositori più efficaci, quindi molto
pericolosi. Avevano confessionali in cui emergeva , tra un peccato e l’altro,
anche la verità sulla violenza rossa
che, fuori, nessuno osava dire.
Avevano
pulpiti da cui parlare e condannare, gente ad ascoltare. Erano organizzati con
oratori, consigli comunali, formavano diocesi. Quattro volte più numerosi di
oggi, erano disseminati ovunque. Più dei carabinieri, più dei farmacisti.
Persino più delle case del popolo. E se la loro parrocchia disponeva di
benefici terrieri, ebbene, erano da odiare due volte, una perché preti, l'altra
come padroni, e rientravano perciò doppiamente in quell'assunto che, dalla fine
della guerra, girò per anni tra le squadre d'azione comunista, in cellula e
nelle case del popolo:
«Se
dopo la liberazione ogni compagno uccidesse il proprio parroco e ogni contadino
il padrone, il problema sarebbe già risolto».
Si
può sostenere - come riteneva anche lo
storico Marco Pirina - che «chi
pianificò l’uccisione di preti lo fece con uno scopo ben preciso: scardinare il
controllo culturale sulle masse proletarie. Furono scelti soprattutto parroci
di campagna, dove più radicata era la tradizione religiosa»; però è difficile
negare che «il movente - testimoniò un sacerdote emiliano - è stato identico
per tutti: liberarsi di una presenza scomoda, castigare chi predicava pace, chi
si adoperava per salvare vite umane, chi deplorava l’odio e le stragi. Tanti
nostri preti hanno pagato con la vita una semplice espressione di dissenso
pronunciata durante una predica, in chiesa. Molti altri sono stati uccisi solo
perché indossavano una tonaca».
Riguardo
alle morti dei sacerdoti, nell'immediato dopoguerra una prima e incompleta ricognizione
del fenomeno venne realizzata da Luciano
Bergonzoni e Cleto Patelli, che trattarono l'argomento in una sezione della
loro opera Preti nella tormenta; per
i due autori, i sacerdoti uccisi furono «martirizzati».
Più
organico e sistematico fu l'approccio di Lorenzo
Bedeschi negli anni Cinquanta: dai risultati della sua analisi, pubblicati
nel volume L'Emilia ammazza i preti,
emerse che 52 ecclesiastici (definiti «martiri» anche in questo testo) furono
uccisi nella fascia di territorio che va «da Rimini a Piacenza, da Modigliana a
Guastalla».
Più
di recente il giornalista e scrittore Roberto
Beretta, collaboratore del quotidiano cattolico Avvenire, nella sua Storia dei preti uccisi dai partigiani
ritenne di aver individuato un denominatore comune a tali episodi e chiamò
quella serie di uccisioni «strage dei preti».
Già
nei primi anni Cinquanta, sulla scia dei fatti delittuosi, il vescovo di Reggio
Emilia, Beniamino Socche, a capo di un comitato appositamente istituito, tentò
di ottenere l'autorizzazione a erigere un monumento al cosiddetto «prete
ignoto», ma la sua iniziativa non ebbe successo.
Nella
primavera del 1990 i familiari superstiti di alcune delle vittime delle quali
non fu mai ritrovato il corpo pubblicarono una lettera aperta, chiedendo
quantomeno indicazioni per rintracciare le spoglie e dar loro sepoltura. Alcuni
mesi dopo, il 29 agosto, fu pubblicata sul quotidiano bolognese Il Resto del
Carlino una lettera del parlamentare comunista ed ex-partigiano Otello Montanari, inviata anche
all'Unità, ma da questo quotidiano non pubblicata. Nella lettera Montanari
premise che bisognava distinguere tra "omicidi politici", ovvero
commessi in ragione del ruolo esercitato dalla persona uccisa ed
"esecuzioni sommarie", ovvero uccisioni indiscriminate di avversari
politici e oppositori; e invitò chiunque sapesse come ritrovare le spoglie
delle persone uccise (aggiungendo: «Io non lo so») a dare le necessarie
informazioni. Dopo la pubblicazione di tale lettera, Montanari ebbe gravi
difficoltà nel partito, all'interno del quale fu aspramente contestato e fu
inoltre escluso dal Comitato Provinciale dell'ANPI, dalla Presidenza
dell'Istituto Cervi e dalla Commissione regionale di controllo.
I
coniugi Elena Aga-Rossi (docente
universitaria di Storia contemporanea) e Victor
Zaslavsky (esperto di storia dei rapporti italo-sovietici), dopo l'apertura
degli archivi di Stato dell'ex-URSS, ebbero lo spunto per una nuova analisi di
tali avvenimenti alla luce dei rapporti del PCUS con i suoi partiti fratelli
(ivi incluso, quindi, il PCI). La tesi dei due studiosi, esposta anche in
un'intervista allo stesso Roberto Beretta dalle colonne di Avvenire, è che il
PCI all'epoca, se non proprio favorì, quantomeno tollerò e coprì la
soppressione di esponenti di categorie (borghesi, sacerdoti, possidenti) che in
un'ottica di breve-medio periodo potessero costituire un impedimento materiale
e culturale-ideologico all'espansione comunista; infine, per quanto riguarda le
cause della debolezza, quando non del silenzio, da parte cattolica nel
denunciare tali fatti, Aga-Rossi e Zaslavsky ipotizzano che il clero temette di
vedersi rinfacciata una qualsivoglia forma di adesione al passato regime
fascista, sebbene tale aspetto della questione sia ancora lungi dall'essere
storicamente indagato a fondo.
Mentre
in Piemonte e in Lombardia, la strage infuriò per pochi giorni, esaurendosi
entro il mese di maggio e mentre nella Venezia-Giulia la barbara ondata slava
durò praticamente quaranta giorni e si arrestò allorché Trieste e Gorizia
passarono sotto il controllo anglo-americano, la regione emiliana venne
funestata ancora per lunghi mesi da atroci fatti di sangue. Causa principale di
questo fenomeno fu la presenza, nella regione, di centinaia di vecchi esponenti
comunisti. Con l’arrivo degli americani a Bologna, gli enti locali, i
sindacati, le cooperative, gli organi di polizia, tutto passò nelle mani di
uomini di fiducia del Partito Comunista. La conseguenza fu che il terrore, di
pretta marca bolscevica, si abbatté sulle popolazioni. Antichi rancori,
vendette personali e odio politico si fusero esplodendo in un’atroce, incredibile
e inarrestabile catena di omicidi, stragi collettive e angherie senza nome. L’epicentro
fu nel «Triangolo della morte», cioè nella zona compresa tra i centri di
Castelfranco Emiliano e Spilamberto nel modenese, e San Giovanni in Persiceto
nel bolognese. «Nella provincia di Modena, i partigiani comunisti, arrestati e
processati per omicidi e reati comuni, furono più di seicento. Molti furono
condannati e finirono in galera. Moltissimi ripararono a Praga, tramite
l’ufficio espatri clandestini della federazione comunista modenese» (…)
1-il
parroco di Crocette, frazione di un migliaio di anime, a 3,5 km da Pavullo
(Modena, don Luigi Lenzini,
sessantenne, c’era da molto tempo e lo consideravano tutti per la sua parola
decisa e il suo dire pane al pane e vino al vino. Tipo chiaro e nodoso, come
certi quercioli che non piegano a nessun vento. Tardissimo – saranno state le
2,00 dopo mezzanotte – sentì bussare alla porta e andò alla finestra in camicia
da notte. Gli dissero di scendere che avevano bisogno. Voci sconosciute e
indistinte. Si scusò di non poter scendere per la vecchiaia e l’ora tardissima.
Ma quelli non si diedero per vinti. Dopo aver insistito invano, si buttarono
contro la porta della canonica; poi sfondarono una finestra ed entrarono.
Quanti erano? Due o tre? Don Lenzini, che aveva intuito subito tutto, cercò di
sgusciare per la canonica nella chiesa e si appiattì dietro l’altare maggiore.
Ma qualcuno era pratico di tutto. Lo presero. «Lasciate almeno che mi vada a
vestire». Niente! Lo trascinarono via com’era, in camicia. Il venerando
sacerdote si raccomandava e qualcuno pare abbia udito i suoi lamenti nella
notte. Fuori era caldo. Si allontanarono dal paese e lo spinsero a calci e
urtoni in una vigna vicina. Lì lo sottoposero a torture che qui non abbiamo il
coraggio di descrivere: il pudore ce lo impedisce. Poi gli levarono gli occhi e
lo seppellirono, dopo averlo strangolato. Nella tragica vigna si vedeva una
testa che emergeva dal terriccio smosso. Qualche giorno dopo se ne accorsero
tutti e alcune persone pietose gli diedero sepoltura.
2-
Il canonico don Giuseppe Guicciardi
era parroco sull’Appennino, a Mocogno (Modena), un paesetto a 2,5 km da Lama, a
800 metri sul livello del mare. Questo fatto capitò precisamente il 10 giugno
1945. Fu una sera. Il parroco andò ad aprire ad alcuni tizi, i quali, entrati,
gli chiesero da mangiare, dicendo di essere affamati. Mise loro davanti quel
che aveva in casa. Poi, quelli, mangiato che ebbero, chiesero vestiti, coperte
e soldi; volevano anche un grammofono. E poiché il prete tergiversava, andarono
di là nello studio e presero quei soldi che trovarono, il poco denaro della
fabbriceria destinato ad un «ufficio». Rovistarono da ogni parte e portarono
via quello che faceva loro comodo, anche la biancheria personale del parroco.
Parevano sazi, ormai, e stavano per andarsene. Si avviarono all’uscio e il
parroco già ne ringraziava Dio nel suo cuore, quando uno di loro, voltandosi
improvvisamente, come per salutare, gli scaricò addosso una pistola, così a
freddo. Il vecchio sacerdote cadde bocconi e non si mosse più. Uno di loro,
sbattendo l’uscio, disse un po’ eccitato: «Perché l’hai fatto? Ce n’era proprio
bisogno»? Ma l’assassino rispose: «I preti bisogna ucciderli tutti: uno alla
volta; ma bisogna toglierli di mezzo»! E si perdettero nel buio con la
refurtiva. La canonica di Mocogno è un po’ lontana dall’abitato centrale. La
gente si accorse dell’efferato delitto solo la mattina dopo, perché la Messa
non suonava come al solito. Fra le carte del santo parroco fu trovato una
specie di diario in cui egli aveva offerto la propria vita al Papa, durante i
tragici mesi del fronte, per la salvezza dei peccatori e la fine della guerra.
Il suo assassino fu pescato, un giorno, mentre passava per strada. Individuato,
i carabinieri lo inseguirono. Cercò prima di fuggire, poi tentò di liberarsene
sparando su di loro, ma fu freddato prima che ne avesse il tempo. Indosso aveva
ancora la camicia del povero parroco massacrato quella notte del 10 giugno!
3-Don Giuseppe Preci, sessantadue anni. A
Montalto di Zocca (metri 800), di notte, c’è da avere del coraggio a starci,
anche senza guerra e… dopo guerra! Confinato lassù, tra castagni e faggi, c’è
da fare ad arrivarci da Zocca (Modena) in tre quarti d’ora in macchina. Il
parroco, don Preci, era un tipino sottile e deciso, pronto ad ogni ora per il
suo popolo. E quando lo vennero a destare, quella notte del 24 maggio 1945,
perché andasse da un ammalato, non ci pensò due volte ad uscire. Si vestì e
andò in chiesa a prendere i Sacramenti, il Viatico e l’Olio santo. Uscito sul
sagrato, le due persone che lo avevano chiamato lo pregarono di fare presto. E
lo pregarono di andare avanti. Il sacerdote ubbidì, sia pure a malincuore, e si
raccomandò a Dio. Del coraggio ne aveva sempre avuto, lui. Ma una scarica di
mitra lo fulminò. Cadde, e il suo sangue bagnò la stradicciola che prendeva dal
sagrato. Il prete rimase lì con i Sacramenti, sotto gli abiti insanguinati,
fino al mattino dopo.
E’ curioso che il Paese che si dedica da decenni alla
commemorazione delle stragi (a cui sono state intestate vie, convegni e perfino
delle commissioni parlamentari), non si sia mai voluto accorgere della strage
dei preti italiani. Qualche faro si è acceso e qualche riconoscimento di
eroismo è arrivato solo per i preti che hanno avuto la ventura di essere
massacrati dai nazisti. Ma di solito se n’è fatta occasione di propaganda. E’
il caso del martirio di don Giovanni
Fornasini, ucciso dai tedeschi a Marzabotto. A lui – protestò l’Osservatore
romano – “forse per errore o albagia propagandistica fu concessa la Medaglia
d’oro al merito partigiano. Uno scherzo della storia!” polemizzò il giornale
vaticano. “Egli fu soltanto ‘partigiano’ di Dio, ucciso perché lottava per la
salvezza delle anime, detestava la violenza, ligio solo alle verità
evangeliche, protettore degli innocenti, condannando partigiani e soldati per
lo scempio delle popolazioni inermi”. Come gli altri parroci uccisi. Don Giuseppe Jemmi per esempio aveva
anche eroicamente aiutato la Resistenza e fu pure arrestato dai tedeschi. Poi
però fece sentire la sua voce di pastore contro gli omicidi dei partigiani:
“Fratelli, sta scritto: non ammazzare! Non macchiatevi le mani di sangue. Non
ascoltate la tentazione della vendetta. Non siate i figli di Caino…”. Così fu
ammazzato lui stesso il 19 aprile 1945 e la sua splendida figura è rimasta
sconosciuta.
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