Spesso lo stato della cucina riflette lo stato della mente. gli uomini confusi e insicuri, d'indole remissiva, sono dei pensatori. le loro cucine sono come le loro menti, ingombre di rifiuti, stoviglie sporche, impurità, ma essi sono coscienti del loro stato mentale e ne vedono il lato umoristico. a volte, presi da uno slancio focoso, essi sfidano le eterne deità e si danno a metter ordine nel caos, cosa che a volte chiamano creazione; così pure a volte, mezzi sbronzi, si danno a pulire la cucina. ma ben presto tutto torna nel disordine e loro a brancolare nelle tenebre, bisognosi di pillole e preghiere, di sesso, di fortuna e salvazione. l'uomo con la cucina sempre in ordine è, invece, un maniaco. diffidatene. lo stato della sua cucina e quello della sua mente coincidono: costui, così preciso e ordinato, si è in realtà lasciato condizionare dalla vita e la sua mania per l'ordine, dentro e fuori, è solo un avvilente compromesso, un complesso difensivo e consolatorio. basta che l'ascolti per dieci minuti e capisci che lui, in vita sua, non dirà mai altro che cose insensate e noiose. è un uomo di cemento. vi sono più uomini di cemento, al mondo, che altri. sicché: se cerchi un uomo vivo, da' un' occhiata alla sua cucina, prima, e ti risparmi un sacco di tempo.
ora, la donna con la cucina sporca è un'altra questione: dal punto di vista maschile. se non lavora altrove e non ha figli, la pulizia o la sporcizia della sua cucina sono quasi sempre (con qualche eccezione) in proporzione diretta all'affetto che nutre per te. alcune donne hanno teorie su come salvare il mondo ma non sono buone a lavare una tazzina da caffé. se glielo fai ossevare ti rispondono: "lavare tazzine non è importante". purtroppo lo è. specie per un uomo che ha lavorato per otto ore filate, magari per dieci, con lo straordinario, a una fresa o a un tornio. s'incomincia a salvare il mondo salvando un uomo alla volta. tutto il resto è magniloquenza romantica o politica.
vi sono brave donne a questo mondo. io ne ho perfino conosciute due o tre. poi ci sono le altre, un altro genere.
a quel tempo avevo un lavoro così bestiale che, alla fine delle 8 o 12 ore, mi sentivo tutto il corpo indurito, una tavola, tutto un dolore. dico "tavola" perché non c'è altra parola. voglio dire, alla sera non ero più buono neanche a infilarmi la giacchetta. non riuscivo a sollevare le braccia per ficcarle nelle maniche. il movimento non mi riusciva, era troppo doloroso. qualsiasi altro movimento causava una rossa esplosione di dolore, un dolore che correva e serpeggiava, come una pazzia. mi beccavo anche un sacco di multe, in quel periodo. per lo più alle tre, alle quattro di mattina. una sera per esempio, tornando a casa dal lavoro, per non incorrere in contravvenzioni -dato che la freccia non funzionava più da un pezzo- tentai di sporgere il braccio sinistro per segnalare che svoltavo. il lampeggiatore non funzionava perché, da ubriaco. avevo divelto la levetta di comando. sicché cercai di metter fuori il braccio. riuscii solo a posare il polso sul finestrino e metter fuori il mignolo. non riuscivo a alzare il braccio più di così e il dolore era ridicolo, tanto ridicolo che mi misi a ridere, era buffo da morire, quel mignolo che spuntava in osservanza al codice stradale, la notte era fonda e le strade deserte, manco un'anima in giro e io là che facevo quel segnaluccio deficiente al vento. sbottai a ridere e a momenti andavo a sbattere contro un'auto parcheggiata, cercando di far la voltata con un solo braccio mezz'anchilosato, e ridevo. riuscii a parcheggiare in qualche modo. riuscii a arrivare fino al portone. ah, casa mia.
eccola là: a letto, a ingozzarsi di cioccolatini (mica no!) a leggere il New Yorker e la Saturday Review of Literature. sì era di giovedi, e i giornali di domenica erano ancora sparsi qua e là. ero troppo stanco per mangiare. riempii la vasca, ma solo a metà, per non correre il rischio di affogare. (meglio che sia tu a scegliere il momento, non il caso.)
uscito dal bagno, mi trascinai strisciando come un millepiedi zoppo, in cucina per tentare di bere un bicchiere d'acqua. il lavello era intasato. acqua grigia e puzzolente fino al bordo. mondezza dappertutto. da dare il voltastomaco. eppoi quella donna aveva la mania di conservare vasetti e barattoli vuoti. sicché in mezzo ai piatti sporchi e tutto il resto, galleggiavano vasetti e barattoli se coperchi, come una sorta di gentile e insensata presa in giro d'ogni cosa.
mi sciacquai un bicchiere e bevvi acqua. poi mi trascinai in camera. indicibile, il tormento per passare dalla posizione verticale a quella orizzontale sul letto. l'unica era non muoversi, quindi stavo là disteso immobile e indurito come un baccalà. la sentivo voltare le pagine e, desiderando stabilire un contatto umano, azzardai una domanda:
"allora? com'è andata al laboratorio di poesia stasera?"
"oh, sono preoccupata per Benny Adminson," mi rispose.
"Benny Adminson?"
"sì, è quello che scrive quiei racconti tanto buffi sulla chiesa cattolica. ci fa ridere tutti. non gliel'hanno mai pubblicato nessuno però. tranne uno: su una rivista canadese. adesso non le manda nemmeno più, le sue cose. secondo me è in anticipo sui tempi. però è comicobuffissimo, ci fa tanto ridere."
"qual'è il suo problema?"
"ha perso il posto, da autista. abbiam fatto quattro chiacchiere, prima della lezione. dice che non riesce mica a scrivere, quand'è senza lavoro. per scrivere, gli ci vuole d'avere un lavoro."
"buffo," dissi, "io ho scritto le mie cose migliori da disoccupato. quando morivo di fame."
"ma Benny Adminson," mi disse, "Benny Adminson non scrive mica solo di sé stesso. scrive di altra gente."
"oh."
lasciai perdere. mi toccava aspettare tre ore, lo sapevo, prima di pigliar sonno. per allora una parte del dolore se ne sarebbe andata, come assorbita dal materasso. senonché di lì a un po' era già un'altra volta ora di alzarsi e tornare al chiodo. la sentii voltare altre pagine del New Yorker. mi sentivo maldisposto, ma potevo anche sbagliarmi: forse al laboratorio di poesia c'era qualche vero scrittore. era improbabile, ma poteva darsi.
aspettavo che il corpo mi si slegasse. la sentii girare un'altra pagina e scartare un altro cioccolatino. poi mi disse:
"sì, Benny Adminson ha bisogno di un posto, d'una base, di un punto d'appoggio. noi cerchiamo di persuaderlo a mandare le sue cose alle riviste. vorrei proprio che leggessi i suoi racconti anticattolici, anche lui una volta era cattolico, sai?"
"non lo sapevo mica."
"ma gli occorre un impiego. noi tutti cerchiamo di trovargli un lavoro, perché possa scrivere."
seguì una pausa di silenzio. francamente, neanche ci pensavo a Benny Adminson e al suo problema. poi cercai di pensarci un momentino.
e dissi: "senti. lo so io, come risolvere il problema di Benny Adminson."
"davvero?"
"sì."
e come?"
"cercano gente, alle poste. assumono gente a destra e a manca, si presenti là domattina. così, dopo sarà buono a scrivere."
"alle poste?"
"sì, sì."
voltò un'altra pagina, prima di parlare. poi:
"Benny Adminson è troppo SENSIBILE per lavorare alle poste."
"oh."
silenzio. e per un pezzo non sentii più né voltar pagina né scartare dolcetti. in quel periodo, a lei piaceva molto un autore di racconti a nome Choates o Coates o Chaos o qualcosa del genere. costui scriveva in modo deliberatamente monotono (plumbee colonne piene di sbadigli fra le inserzioni pubblicitarie per liquori e crociere) ma nel finale non mancava mai un tizio, appassionato di Verdi e bevitore di Bacardi, che, mettiamo, strangolava una bambina di tre anni in tutina blu, in qualche vicoletto di Nuova York, alle 4 e 13 del pomeriggio. ecco il concetto, infregnacciato e subnormale, che i redattori del New Yorker hanno dell'avanguardia raffinata: cioè, la morte vince sempre e tutti abbiamo le unghie sporche di fango. tutto ciò è stato già fatto, 50 anni fa, da un tale a nome Ivan Bunin in un racconto intitolato Il signore di San Francisco. da quando è morto James Thurber il New Yorker svolazza come un pipistrello intronato tra postumi di sbornia e guardie rosse. vale a dire: hanno chiuso.
"buonanotte," le dissi
seguì una lunga pausa. poi si decise a ricambiare.
"Buonanotte," disse alla fine.
con urla livide e tam-tam di strazio -ma senza un lamento- in silenzio- mi rigirai da supino a bocconi (un lavoro di cinque minuti buoni) per attendere l'alba e il nuovo giorno.
forse sono stato scortese verso questa donna, forse ho trasceso, per colpa della cucina e per spirito di vendetta. c'è un bel po' di morchia nelle nostre anime, specie nella mia. e ho le idee confuse, sulle cucine come su molte altre cose. la donna di cui parlo ha molto coraggio, lo dimostra in molti modi. non era la serata buona, ecco, né per lei né per me.
e spero che quel fregnone dei racconti anticattolici abbia trovato un lavoro idoneo alla sua sensibilità e che tutti quanti saremo remunerati dal suo genio, finora inedito (tranne in Canada).
nel frattempo, io scrivo di me stesso e bevo troppo.
ma questo lo sapete.
ora, la donna con la cucina sporca è un'altra questione: dal punto di vista maschile. se non lavora altrove e non ha figli, la pulizia o la sporcizia della sua cucina sono quasi sempre (con qualche eccezione) in proporzione diretta all'affetto che nutre per te. alcune donne hanno teorie su come salvare il mondo ma non sono buone a lavare una tazzina da caffé. se glielo fai ossevare ti rispondono: "lavare tazzine non è importante". purtroppo lo è. specie per un uomo che ha lavorato per otto ore filate, magari per dieci, con lo straordinario, a una fresa o a un tornio. s'incomincia a salvare il mondo salvando un uomo alla volta. tutto il resto è magniloquenza romantica o politica.
vi sono brave donne a questo mondo. io ne ho perfino conosciute due o tre. poi ci sono le altre, un altro genere.
a quel tempo avevo un lavoro così bestiale che, alla fine delle 8 o 12 ore, mi sentivo tutto il corpo indurito, una tavola, tutto un dolore. dico "tavola" perché non c'è altra parola. voglio dire, alla sera non ero più buono neanche a infilarmi la giacchetta. non riuscivo a sollevare le braccia per ficcarle nelle maniche. il movimento non mi riusciva, era troppo doloroso. qualsiasi altro movimento causava una rossa esplosione di dolore, un dolore che correva e serpeggiava, come una pazzia. mi beccavo anche un sacco di multe, in quel periodo. per lo più alle tre, alle quattro di mattina. una sera per esempio, tornando a casa dal lavoro, per non incorrere in contravvenzioni -dato che la freccia non funzionava più da un pezzo- tentai di sporgere il braccio sinistro per segnalare che svoltavo. il lampeggiatore non funzionava perché, da ubriaco. avevo divelto la levetta di comando. sicché cercai di metter fuori il braccio. riuscii solo a posare il polso sul finestrino e metter fuori il mignolo. non riuscivo a alzare il braccio più di così e il dolore era ridicolo, tanto ridicolo che mi misi a ridere, era buffo da morire, quel mignolo che spuntava in osservanza al codice stradale, la notte era fonda e le strade deserte, manco un'anima in giro e io là che facevo quel segnaluccio deficiente al vento. sbottai a ridere e a momenti andavo a sbattere contro un'auto parcheggiata, cercando di far la voltata con un solo braccio mezz'anchilosato, e ridevo. riuscii a parcheggiare in qualche modo. riuscii a arrivare fino al portone. ah, casa mia.
eccola là: a letto, a ingozzarsi di cioccolatini (mica no!) a leggere il New Yorker e la Saturday Review of Literature. sì era di giovedi, e i giornali di domenica erano ancora sparsi qua e là. ero troppo stanco per mangiare. riempii la vasca, ma solo a metà, per non correre il rischio di affogare. (meglio che sia tu a scegliere il momento, non il caso.)
uscito dal bagno, mi trascinai strisciando come un millepiedi zoppo, in cucina per tentare di bere un bicchiere d'acqua. il lavello era intasato. acqua grigia e puzzolente fino al bordo. mondezza dappertutto. da dare il voltastomaco. eppoi quella donna aveva la mania di conservare vasetti e barattoli vuoti. sicché in mezzo ai piatti sporchi e tutto il resto, galleggiavano vasetti e barattoli se coperchi, come una sorta di gentile e insensata presa in giro d'ogni cosa.
mi sciacquai un bicchiere e bevvi acqua. poi mi trascinai in camera. indicibile, il tormento per passare dalla posizione verticale a quella orizzontale sul letto. l'unica era non muoversi, quindi stavo là disteso immobile e indurito come un baccalà. la sentivo voltare le pagine e, desiderando stabilire un contatto umano, azzardai una domanda:
"allora? com'è andata al laboratorio di poesia stasera?"
"oh, sono preoccupata per Benny Adminson," mi rispose.
"Benny Adminson?"
"sì, è quello che scrive quiei racconti tanto buffi sulla chiesa cattolica. ci fa ridere tutti. non gliel'hanno mai pubblicato nessuno però. tranne uno: su una rivista canadese. adesso non le manda nemmeno più, le sue cose. secondo me è in anticipo sui tempi. però è comicobuffissimo, ci fa tanto ridere."
"qual'è il suo problema?"
"ha perso il posto, da autista. abbiam fatto quattro chiacchiere, prima della lezione. dice che non riesce mica a scrivere, quand'è senza lavoro. per scrivere, gli ci vuole d'avere un lavoro."
"buffo," dissi, "io ho scritto le mie cose migliori da disoccupato. quando morivo di fame."
"ma Benny Adminson," mi disse, "Benny Adminson non scrive mica solo di sé stesso. scrive di altra gente."
"oh."
lasciai perdere. mi toccava aspettare tre ore, lo sapevo, prima di pigliar sonno. per allora una parte del dolore se ne sarebbe andata, come assorbita dal materasso. senonché di lì a un po' era già un'altra volta ora di alzarsi e tornare al chiodo. la sentii voltare altre pagine del New Yorker. mi sentivo maldisposto, ma potevo anche sbagliarmi: forse al laboratorio di poesia c'era qualche vero scrittore. era improbabile, ma poteva darsi.
aspettavo che il corpo mi si slegasse. la sentii girare un'altra pagina e scartare un altro cioccolatino. poi mi disse:
"sì, Benny Adminson ha bisogno di un posto, d'una base, di un punto d'appoggio. noi cerchiamo di persuaderlo a mandare le sue cose alle riviste. vorrei proprio che leggessi i suoi racconti anticattolici, anche lui una volta era cattolico, sai?"
"non lo sapevo mica."
"ma gli occorre un impiego. noi tutti cerchiamo di trovargli un lavoro, perché possa scrivere."
seguì una pausa di silenzio. francamente, neanche ci pensavo a Benny Adminson e al suo problema. poi cercai di pensarci un momentino.
e dissi: "senti. lo so io, come risolvere il problema di Benny Adminson."
"davvero?"
"sì."
e come?"
"cercano gente, alle poste. assumono gente a destra e a manca, si presenti là domattina. così, dopo sarà buono a scrivere."
"alle poste?"
"sì, sì."
voltò un'altra pagina, prima di parlare. poi:
"Benny Adminson è troppo SENSIBILE per lavorare alle poste."
"oh."
silenzio. e per un pezzo non sentii più né voltar pagina né scartare dolcetti. in quel periodo, a lei piaceva molto un autore di racconti a nome Choates o Coates o Chaos o qualcosa del genere. costui scriveva in modo deliberatamente monotono (plumbee colonne piene di sbadigli fra le inserzioni pubblicitarie per liquori e crociere) ma nel finale non mancava mai un tizio, appassionato di Verdi e bevitore di Bacardi, che, mettiamo, strangolava una bambina di tre anni in tutina blu, in qualche vicoletto di Nuova York, alle 4 e 13 del pomeriggio. ecco il concetto, infregnacciato e subnormale, che i redattori del New Yorker hanno dell'avanguardia raffinata: cioè, la morte vince sempre e tutti abbiamo le unghie sporche di fango. tutto ciò è stato già fatto, 50 anni fa, da un tale a nome Ivan Bunin in un racconto intitolato Il signore di San Francisco. da quando è morto James Thurber il New Yorker svolazza come un pipistrello intronato tra postumi di sbornia e guardie rosse. vale a dire: hanno chiuso.
"buonanotte," le dissi
seguì una lunga pausa. poi si decise a ricambiare.
"Buonanotte," disse alla fine.
con urla livide e tam-tam di strazio -ma senza un lamento- in silenzio- mi rigirai da supino a bocconi (un lavoro di cinque minuti buoni) per attendere l'alba e il nuovo giorno.
forse sono stato scortese verso questa donna, forse ho trasceso, per colpa della cucina e per spirito di vendetta. c'è un bel po' di morchia nelle nostre anime, specie nella mia. e ho le idee confuse, sulle cucine come su molte altre cose. la donna di cui parlo ha molto coraggio, lo dimostra in molti modi. non era la serata buona, ecco, né per lei né per me.
e spero che quel fregnone dei racconti anticattolici abbia trovato un lavoro idoneo alla sua sensibilità e che tutti quanti saremo remunerati dal suo genio, finora inedito (tranne in Canada).
nel frattempo, io scrivo di me stesso e bevo troppo.
ma questo lo sapete.
Storie di ordinaria follia - Henry Charles Bukowski
Fonte:http://web.tiscali.it/cbukowski/Tropposensibile.htm
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