Il cranio di suo cugino distrutto da un proiettile israeliano
Mezza testa. La parte sinistra della faccia è storta, gonfia, frantumata, deturpata; c’è sangue secco che gli esce dal naso, punti di sutura sulla faccia; un occhio è chiuso, una fila di punti gli corre lungo tutta la testa. Un volto di ragazzo diventato lo Sfregiato. Con un’operazione, gli sono state anche rimosse alcune ossa del cranio, che non verranno risistemate prima di sei mesi. Mohammed Tamimi ha solo 15 anni ed è già una vittima disabile di arma da fuoco e un ex detenuto.
Questa è la vita sotto occupazione a Nabi Saleh, dove la gente è impegnata nella lotta. Circa un’ora dopo che Mohammed era stato colpito alla testa da un colpo sparato a distanza ravvicinata da un soldato dello IOF (o da qualcuno della Border Police), la sua più nota cugina, Ahed Tamimi, è andata nel cortile di casa e ha tentato di mandare via i due soldati che avevano invaso il suo territorio, mentre la telecamera girava. E’ ragionevole pensare che abbia tentato di sfogare la sua ira contro i soldati anche perché avevano sparato a suo cugino un’ora prima. Solo poche decine di metri dividono il luogo in cui hanno sparato a Mohammed e la casa di Ahed; solo un’ora separa i due episodi. I suoi familiari raccontano che Ahed, 16 anni, è scoppiata a piangere quando ha saputo che suo cugino era stato colpito e versava in gravi condizioni. Dalla finestra di casa sua, alla periferia di Nabi Saleh, piccolo villaggio vicino a Ramallah, si può vedere il muro di pietra che circonda l’edificio di lusso, in costruzione, che Mohammed aveva scalato per osservare i soldati che vi si trovavano all’interno. A quel punto, è stato colpito alla testa da un proiettile sparato a bruciapelo ed è caduto a terra, sanguinante, da un’altezza di tre metri (circa 10 piedi). Adesso Ahed è detenuta e Mohammed sta guarendo dalla sua devastante ferita alla testa. Questa settimana, Mohammed ancora non sapeva dell’arresto della cugina, che è diventata un simbolo. Viste le sue condizioni, la sua famiglia non gli ha detto nulla. Lo abbiamo incontrato a casa di suo zio, che confina con la sua. Parla sottovoce, a volte si passa la mano sulle suture che ha in testa, di tanto in tanto si stende sul divano per riposare. Frequenta la quinta ginnasio alla scuola del villaggio, in cui Ahed gli è un anno avanti. Suo padre, Fadel, fa il tassista; sua madre, Imtisal, è casalinga. L’anno scorso ha passato tre mesi in un carcere israeliano.
Alle 2 di notte del 24 aprile 2017, i soldati hanno fatto irruzione in casa, sono entrati nella stanza dei bambini, hanno strappato Mohammed dal suo letto, l’hanno ammanettato e arrestato. Lui voleva vestirsi prima di essere portato in prigione; i soldati inizialmente avevano rifiutato, ma poi hanno acconsentito, ci dice. Tamimi era accusato di lancio di pietre contro una jeep dell’esercito che, pochi giorni prima, si era rotta vicino alla pompa di benzina all’ingresso del villaggio. E’ stato portato alla stazione di polizia di Etzion per l’interrogatorio, condotto senza la presenza di un avvocato, come prevede la legge. Dopotutto, cos’ha a che fare la legge con l’interrogatorio di un ragazzino palestinese di quattordici anni (sua età di allora)? E non gli hanno neanche detto che aveva il diritto di rimanere in silenzio. Ad un certo punto, chi lo stava interrogando gli ha chiesto anche di firmare un modulo scritto in ebraico. Visto che lui non parla ebraico, si è rifiutato. Dice che non aveva paura durante l’interrogatorio. Dopo tre mesi di interrogatori e udienze, Mohammed è stato condannato, con patteggiamento, a tre mesi di detenzione e una multa di 3.000 shekel (circa 860 dollari). L’accusa aveva chiesto un anno di detenzione e una multa di 15.000 shekel. Tamimi è stato rilasciato due giorni dopo, perché in quel momento aveva già passato tre mesi in carcere. Durante quel periodo, i suoi genitori non hanno mai avuto il permesso di fargli visita. L’hanno visto solo in aula, a distanza, ma non potevano parlare con lui, nemmeno per chiedergli solo come stava. Normale amministrazione. Mohamed è stato rilasciato il 19 luglio. Gli abbiamo chiesto qual è stata la cosa più difficile, per lui, in carcere. La cosa più difficile per lui, ci ha risposto, è stata il non riuscire a dormire la notte perché era preoccupato per la sua famiglia. L’IDF e le truppe della Border Police conducono raid a Nabi Saleh praticamente ogni giorno e ogni notte, e Tamimi era preoccupato per i suoi genitori e suo fratello. Sharef, suo fratello, 24 anni, e il padre sono stati arrestati piuttosto spesso e anche feriti. Nel 2015, per esempio, si è presentato a casa un manipolo di persone che si sono spacciate per dipendenti della società elettrica. Era giorno. Si sono poi rivelati essere mista’arvim, soldati in borghese. Hanno chiuso in una stanza tutti quelli che erano in casa. Mohammed è riuscito a scappare a casa dello zio, alla porta a fianco, e a raccontare che sconosciuti avevano invaso la casa. Suo cugino, che si chiama anche lui Mohamed Tamimi – a quanto pare, ci sono circa 100 persone a Nabi Saleh che si chiamano così – dice che all’inizio nemmeno loro sapevano chi fossero gli intrusi. Erano venuti per arrestare Sharef, che non era a casa. I soldati lo hanno aspettato. Sharef è stato condannato a due mesi di carcere. L’episodio del rapimento del fratello fa parte dei ricordi d’infanzia di Mohammed. A questo punto, vuole stendersi e riposare ancora un po’. Dopo il rilascio, Mohammed è tornato a partecipare alle manifestazioni del villaggio, “perché ci rubano la terra”, ci spiega. La maggior parte della terra di Nabi Saleh è stata confiscata per costruire l’insediamento di Halamish, dall’altra parte della strada, o semplicemente non è accessibile a causa della presenza dell’insediamento. Negli ultimi tre mesi, le forze di sicurezza israeliane hanno avuto la mano sempre più pesante, nel villaggio. Secondo Iyad Hadad, ricercatore sul campo di B’Tselem, organizzazione israeliana per i diritti umani, negli ultimi tre mesi l’IDF e la Border Police hanno condotto raid a Nabi Saleh 70 o 80 volte. A volte i soldati sparano contro il ponte di ferro giallo che porta al villaggio, in modo che i residenti non possano raggiungere la strada principale. Lo fanno più spesso nelle prime ore del mattino, quando ci sono gli abitanti che devono andare a lavorare, i pazienti che vanno a curarsi e gli studenti che vanno a scuola. Il villaggio attribuisce tale politica al nuovo comandante dell’esercito nella regione, conosciuto semplicemente come “Eyal”. Venerdì 15 dicembre era un’altra giornata movimentata a Nabi Saleh. Una settimana dopo la dichiarazione del presidente USA Trump su Gerusalemme. Come ogni venerdì, era in programma una marcia di protesta. Tamimi racconta che quella mattina era andato con un gruppo di amici a vedere se ci fossero soldati appostati in agguato davanti al corteo, come succede di solito tra la torretta di controllo fortificata delll’IDF e l’ingresso al villaggio. Erano in cinque o sei ragazzi. Poco dopo, hanno visto arrivare da sud una decina di soldati che cercavano di appostarsi per l’agguato. Mohammed e i suoi amici hanno gridato: Vi abbiamo visto! I soldati hanno sparato lacrimogeni contro i ragazzi. Nel frattempo, i manifestanti si avvicinavano. Le forze militari si erano posizionate nella “villa”, un edificio meraviglioso ma ancora incompiuto, circondato da un muro, alla periferia di Nabi Saleh, fatto costruire da un influente esiliato palestinese che vive in Spagna. Dovrebbe diventare un centro di medicina alternativa, ma la sua inaugurazione è stata rinviata, vista la situazione. Decine di abitanti hanno circondato la “villa”, sapendo che al suo interno c’erano i soldati. Mohammed Tamimi si è avvicinato al muro dell’edificio, quindi si è arrampicato. Voleva vedere se c’erano ancora soldati all’interno, sull’onda di voci che dicevano che se ne fossero andati. Ma, quando si è sporto dalla sommità del muro, è stato colpito alla testa da un proiettile rivestito di gomma sparato da distanza ravvicinata. Tamimi dice di essere riuscito a vedere il soldato che mirava contro di lui, ma questo è tutto quel che ricorda. E’ caduto a terra e gli altri giovani si sono precipitati da lui. Non era cosciente quando è stato caricato su una macchina e portato all’ospedale del villaggio di Beit Rima. Suo cugino Mohammed Tamimi, uno studente di 20 anni, era con lui. Il cugino racconta che il suo omonimo ha ricevuto lì le prime cure, ma il personale ha suggerito che venisse portato all’ospedale della città di Salfit. Il cugino aveva rifiutato, pensando che, a causa della gravità delle ferite, quell’ospedale non sarebbe stata in grado di curarlo adeguatamente. L’autista dell’ambulanza palestinese li aveva avvisati che, se avessero incontrato un checkpoint dell’IDF, i soldati avrebbero potuto arrestare l’adolescente ferito. I soldati al checkpoint in uscita da Nabi Saleh hanno ordinato all’ambulanza di fermarsi, Tamimi cugino ricorda che erano aggressivi ed estremamente nervosi, e gli hanno puntato le armi contro. Hanno visto le condizioni del ragazzino; il cugino ha detto loro: “Avete 30 secondi per decidere: o lo portate in un ospedale israeliano, oppure ci fate passare”. Ci racconta anche che c’era un’ambulanza militare parcheggiata vicino al checkpoint. Uno dei soldati si è consultato con qualcuno via radio, e quindi ha dato l’ordine all’ambulanza di dirigersi verso Ramallah, rifiutando di dare il permesso al paziente di entrare in Israele per le cure. “Circolare!” ha sbottato il soldato al tentativo di Tamimi di convincerlo a lasciare che suo cugino venisse trasferito in un ospedale israeliano. L’ambulanza è schizzata verso l’Istishari Hospital, una nuova struttura privata a Ramallah. I genitori di Mohammed, che nel frattempo erano andati al checkpoint di Nabi Saleh in preda al panico, sono stati rispediti indietro dai soldati con le armi puntate, anche dopo aver provato a spiegare che il loro figlio era stato gravemente ferito. Hanno dovuto prendere una strada secondaria per l’ospedale. Le condizioni di Tamimi sono apparse subito gravi; aveva un’emorragia cerebrale. Sia suo cugino che suo padre dicono ora che erano sicuri che non ce l’avrebbe fatta. Sono stati convocati degli specialisti che hanno deciso di operarlo. Nessuno sapeva quale fosse la portata del danno cerebrale. Grazie a un appello su Facebook per donare sangue, molta gente è arrivata in ospedale. L’operazione è durata sei ore, di notte. Immagini del ragazzino disteso incosciente all’ospedale, intubato, sono state diffuse sui social il giorno seguente. Circa 24 ore dopo, Tamimi ha iniziato a riprendere conoscenza ed è stato in grado di riconoscere chi aveva vicino. Oggi tutti ne parlano come di un miracolo. Mohammed Tamimi è stato dimesso dopo una settimana. Per quanto ne so, non ha riportato alcun danno motorio o cognitivo. Il portavoce dell’IDF ha dichiarato questa settimana ad Haaretz: “Venerdì 15 dicembre, nei pressi del villaggio di Nabi Saleh, sono scoppiati disordini che hanno coinvolto circa 200 palestinesi che hanno lanciato copertoni incendiati e pietre contro le forze dell’IDF. Le truppe hanno utilizzato metodi di dispersione per interrompere la manifestazione. Sappiamo dal rapporto del District Coordination and Liason Office che, nel villaggio, un palestinese è stato ferito e trasferito per le cure mediche”. Tamimi adesso se ne sta raggomitolato vicino a suo padre, che è tornato dal lavoro e coccola suo figlio. Il ragazzino si addormenta dopo poco. La vicina casa sulla collina, quella di Ahed Tamimi, è deserta. Ahed e sua madre Nariman sono detenute. Il padre, Bassem, è con loro in tribunale, per far loro forza durante la lettura della pesante incriminazione. GIDEON LEVY E ALEX LEVAC
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