7 gennaio 1978: la strage che ha cambiato le nostre vite
Quella del 7 gennaio sembra una sera come tante. Le vacanze di Natale sono finite, ma le scuole non hanno riaperto i battenti perché è il sabato dopo la Befana e la città sta lentamente riprendendo il suo aspetto normale: sono sparite le bancarelle natalizie, sono stati smontati gli alberi di Natale. Già, la vita normale, sempre ammesso che si possa parlare di normalità riferendosi a quel periodo.
Via Acca Larentia è una piccola via del quartiere Tuscolano, una traversa di via delle Cave, quella grande strada che collega la Tuscolana all’Appia. Nella sede dell’Msi della zona, quella sera sono riuniti un gruppo di ragazzi che si sono dati appuntamento per fare volantinaggio. Non si tratta di volantini politici, ma solo di fogli fotocopiati con cui si pubblicizza un concerto degli Amici del Vento, un gruppo musicale di destra. Nella sede ci sono Francesco Ciavatta, figlio del portiere dello stabile, Maurizio Lupini, un giovane dirigente di estrazione popolare, Franco Bigonzetti, studente di Medicina, Vincenzo Segneri che fa il meccanico e Giuseppe D’Audino, anche lui studente. Ragazzi normali, non figli di papà e neanche degli esaltati o dei terroristi in erba. Questa è la ricostruzione di quello che è successo quella sera, di una delle pagine più nere di quegli anni e di una vicenda che non è mai stata del tutto chiarita, perché si tratta di una strage compiuta da assassini rimasti sempre senza un nome e un volto. E poi di altre morti, con responsabili che avevano sia un nome che un volto, ma che non hanno pagato per quegli omicidi, perché indossavano una divisa.
Sono le sei di pomeriggio, quando il gruppo di ragazzi si appresta a spegnere le luci della sezione: Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta sono già sull’uscio, con la serranda tirata giù ma quanto basta per far passare chi sta ancora dentro. Anche se è cintura nera di judo, Franco è ragazzo timido, che studia e lavora, che si paga gli studi in Medicina lavorando per una società addetta alla manutenzione delle strade. Francesco, è completamente diverso: è estroverso, il burlone del gruppo conosciuto da tutti nel quartiere, dove scorrazza a bordo del suo Boxer Piaggio blu. Franco e Francesco parlano da fuori con gli amici che stanno ancora dentro la sezione. I due danno le spalle alla strada e quindi non si accorgono che dietro di loro, vicino alle colonnine di marmo collegate da catene che delimitano il marciapiede, si sono posizionate cinque o sei persone: armate e con il volto coperto da sciarpe e passamontanga. Un vero e proprio plotone di esecuzione.
Quel gruppo di fuoco comincia a sparare su quei ragazzi innocenti e che stanno girati di spalle. Testimoni parlano di un crepitio di colpi infinito. Qualcuno all’inizio pensa all’esplosione di botti avanzati a Capodanno, invece sono proiettili che volano dritti verso i bersagli: che non sono sagome o fantocci, ma ragazzi disarmati. Franco è il primo a cadere a terra, poi tocca a Francesco, mentre Vincenzo Segneri, pur ferito, trova la forza per spingere gli altri dentro la sezione e di chiudere la porta di ferro. I ragazzi, feriti, sotto shock e frastornati, da dentro sentono urla, rumore di passi, altri colpi esplosi e poi il silenzio. Quando dentro la sezione qualcuno trova il coraggio di accendere la luce, i ragazzi si accorgono che all’appello mancano Francesco e Franco, poi vedono il sangue che entra da sotto la porta: la aprono e trovano Bigonzetti a terra, morto e con il volto orribilmente straziato dai colpi che lo hanno centrato in pieno viso. Lì vicino c’è Ciavatta, che è ancora vivo e che prima di morire dice agli amici che lo soccorrono: “Non pensate a me, pensate a Franco che sta messo peggio…”. E poi chiude gli occhi, per sempre, perché uno di quei tre proiettili che lo hanno centrato gli ha spaccato in due il cuore. Vincenzo Segneri è ferito ad un braccio e grida, urla come un pazzo: non per il dolore fisico, ma per la rabbia di aver dovuto assistere impotente a quella violenza, a quell’esecuzione che gli ha strappato per sempre due amici.
In quell’agguato, dai bossoli ritrovati in terra e dalla perizia balistica, è stato ricostruito che sono state usate pistole a canna corta, ma i colpi mortali sono stati sparati da una mitraglietta Skorpion. E la storia di questa mitraglietta, è uno dei tanti misteri irrisolti di questa vicenda.
Ad acquistarla, legalmente, è stato qualche anno prima un signore distinto, con gli occhiali, che risponde al nome di Enrico Sbriccoli, ma che è conosciuto con il suo nome d’arte: Jimmy Fontana. È un noto cantante dell’epoca, che ha raggiunto la notorietà grazie a Il mondo, il suo cavallo di battaglia. Interrogato, anni dopo quando la mitraglietta fu ritrovata in un covo di brigatisti, Jimmy Fontana ammette di aver acquistato l’arma, ma dice di averla venduta alla fine del 1977 ad un commissario di polizia. Non ad un commissario qualsiasi, ma ad un funzionario che presta servizio proprio al commissariato del Tuscolano. Il dottor Cetroli nega la circostanza e la giustizia non ha mai chiarito chi tra lui e Jimmy Fontana fosse il vero bugiardo. Eppure, non è difficile appurarlo, perché il cantante sostiene nel verbale dell’interrogatorio di esser stato pagato con un assegno per la vendita della mitraglietta. Quindi, basta fare un controllo in banca. Ma quel semplice controllo non viene mai fatto e l’inchiesta su Jimmy Fontana viene chiusa e archiviata, mentre quella sul commissario Cetroli non è mai stata aperta.
Non esiste internet, non esistono i telefoni cellulari e neanche le tv satellitari che sfornano le notizie in tempo reale, ma grazie al passaparola nel giro di poco tempo la notizia della strage si sparge da un capo all’altro della città e a via Acca Larentia arrivano dirigenti del Msi, camerati di altre sezioni, militanti di sezioni del Fuan e del Fronte della Gioventù, ma anche gruppi di extraparlamentari. Centinaia di persone, tenute a fatica sotto controllo dalle forze dell’ordine. Soprattutto ragazzi, che piangono e urlano, che cercano solo un’occasione per sfogare la rabbia repressa per quella strage.
Per terra, ci sono dei fiori e delle bandiere tricolori distese per coprire il sangue di quei ragazzi. E scocca la scintilla. Una serie di spinte, qualche slogan forte, insulti, poi l’incendio quando un giornalista getta (non si sa se volutamente o inconsapevolmente) una cicca di sigaretta sulla pozza di sangue che c’è sul punto dove è morto Francesco Ciavatta. Questa è una versione, l’altra è quella che tutto è iniziato a causa di una carica fatta per liberare un ragazzo di destra, fermato dai carabinieri perché ha dato un calcio ad una macchina di servizio. Non si sa qual è la versione reale, ma la situazione precipita nel giro di pochi attimi. Le forze dell’ordine sono sopraffatte dalla folla inferocita e in quel momento alcuni testimoni sostengono di aver visto un capitano dei carabinieri che, forse nel timore di essere linciato, estrae la pistola e spara ad altezza d’uomo.
A cadere a terra, all’angolo tra via Acca Larentia e via delle Cave, freddato da un colpo che lo centra in mezzo alla fronte, è un ragazzo di 19 anni. Si chiama Stefano Recchioni, fa parte della sezione di Colle Oppio, si è appena arruolato nei parà e sta per partire, per coronare il suo sogno di indossare la divisa, il basco della Folgore e di lanciarsi da un aereo con un paracadute. Il suo volo, invece, finisce ancora prima di iniziare, perché quel proiettile gli spezza le ali.
E come è successo per Ciavatta e Bigonzetti, anche l’assassino di Stefano Recchioni resta impunito: ma non senza volto, perché il suo nome è Eduardo Sivori, ed è il capitano dei carabinieri che quei testimoni hanno visto sparare. Nei verbali, però, si parla di legittima difesa, perché il capitano sostiene di aver sparato ma solo dopo che il suo gruppo è stato aggredito e che ai colpi sparati in aria dai carabinieri hanno fatto seguito quelli sparati da alcuni militanti di destra; e, solo allora, Sivori sostiene di aver abbassato il tiro, sparando ad altezza d’uomo e centrando involontariamente in fronte Stefano Recchioni. La versione ufficiale, quella contenuta nell’intervento del ministro dell’Interno Francesco Cossiga il 10 gennaio alla camera dei deputati, recita:
…il gruppo di dimostranti reagiva esplodendo colpi d’arma da fuoco contro l’ufficiale (…) L’ufficiale era costretto a prendere posizione dietro l’autovettura militare per difendersi dall’attacco e con la propria pistola d’ordinanza esplodeva tre colpi in aria, ma permanendo lo stato di pericolo ed essendosi la sua pistola inceppata, si muniva di un’altra arma in dotazione al reparto. Da parte dei dimostranti continuavano il lancio di sassi e gli spari contro l’ufficiale, il quale veniva colpito dai sassi al ginocchio e alla spalla, per cui cadeva a terra e dall’arma che impugnava partivano due colpi.
Uno di quei colpi, colpisce in piena fronte Stefano Recchioni. Una versione ridicola che, per certi versi, ricorda quella di Spaccarotella, di quel colpo sparato per disperdere il gruppo di tifosi laziali e juventini che si stanno scontrando nell’autogrill di Badia al Pino e che deviato dall’impatto su una rete metallica casualmente colpisce e uccide Gabriele Sandri. Come “Gabbo”, anche Stefano è un bel ragazzo e un artista: ama la musica e ha anche una passione sfrenata per il disegno. Non muore sul colpo, muore dopo due giorni di agonia in ospedale, senza essere mai uscito dal coma.
La quarta vittima di Acca Larentia, è Alberto Giaquinto, ucciso il 10 gennaio del 1979 in occasione della commemorazione del primo anniversario della strage. Alberto, che sta in compagnia di Massimo Morsello (un cantautore di destra che dopo l’uccisione dell’amico entra a far parte dei Nar), viene ucciso dall’agente di polizia Alessio Speranza durante gli scontri a Centocelle tra militanti di destra e le forze dell’ordine.
A dire il vero, le vittime della strage di Acca Larentia sono 5, perché il padre di Francesco Ciavatta, che non si è mai ripreso per la morte del suo unico figlio, pochi mesi dopo si toglie la vita straziato dal dolore. Lo fa in modo drammatico, bevendo fino all’ultimo goccio una bottiglia da un litro di acido muriatico, seduto da solo su una panchina dei giardinetti vicino casa.
La strage spinge tanti a prendere la decisione di imbracciare le armi e di imboccare la strada senza ritorno della lotta armata. È la scintilla che da il via ad un vero e proprio incendio. Sull’onda emotiva di quella strage, ad esempio, nascono i Nar, come conferma anni dopo Francesca Mambro, che all’epoca è solo una militante missina presente ad Acca Larentia per quel sit-in di protesta degenerato con l’uccisione di Stefano Recchioni. Ma vicino a lei vede morire Stefano Recchioni e davanti a quel sangue giura che, mai più, si farà trovare disarmata. Quella strage, segna anche la rottura tra tantissimi giovani di destra e l’apparato dirigente del Msi, rappresentato quel giorno ad Acca Larentia da Gianfranco Fini e Maurizio Gasparri, oltre che da Teodoro Buontempo.
Eravamo pochi, ci conoscevamo più o meno tutti. Con Francesco Ciavatta, poi, avevamo militato insieme nel circolo di via Noto. La reazione immediata, mia e di tanti, fu la paralisi, come quando ti muore un parente. Ci guardavamo in faccia senza capire e senza sapere che fare, mentre dalle varie sezioni della città affluivano gli altri. Il Movimento sociale italiano non ebbe alcuna reazione nei confronti dei carabinieri, probabilmente per difendere interessi e posizioni che non avevano nulla a che fare con la nostra militanza. Noi ragazzini venivamo usati per il servizio d’ordine ai comizi di Almirante, quando serviva gente pronta a prendere botte e a ridarle, ma in quell’occasione dimostrarono che se per difenderci bisognava prendere posizioni scomode, come denunciare i carabinieri e il loro comportamento, allora non valeva la pena. Per la prima volta i fascisti si ribellarono alle forze dell’ordine. Acca Larentia segnò la rottura definitiva di molti di noi con il Msi. Quell’atteggiamento tiepido e imbarazzato nei confronti di chi aveva ucciso Stefano Recchioni, significava che erano disposti a sacrificarci pur di non mettersi contro le forze dell’ordine. Non poteva più essere casa nostra. Per la prima volta e per tre giorni i fascisti spareranno contro la polizia. E questo segnò un punto di non ritorno. Anche in seguito, per noi che non eravamo assolutamente quelli che volevano cambiare il Palazzo, rapinare le armi ai poliziotti o ai carabinieri avrà un grande significato. Che lo facessero altre organizzazioni era normale, il fatto che lo facessero i fascisti cambiava le cose di molto, perché i fascisti fino ad allora erano considerati il braccio armato del potere.
Quel 7 gennaio è sabato e la notizia della strage ci è arrivata con il passaparola mentre usciamo dalla discoteca. Il tempo di radunarci e ci precipitiamo con i motorini per raggiungere una zona a noi sconosciuta, fuori dalla nostra contea, dai nostri “confini”. Ma in quel momento nessuno si preoccupa di questo. Di quella sera ricordo solo i volti stravolti dalla rabbia, le urla, ragazzi che camminano in silenzio e il sangue. Sangue ovunque. Tre pozze di sangue, a distanza di pochi metri, circondate da ragazzi e uomini che in silenzio e a testa bassa fissano quelle chiazze di morte. Ci sono dei lumini, tanti fiori, ma nessuno osa toccare quel sangue, che resterà in terra per giorni, fino a dopo la morte di Stefano Recchioni e dei funerali. E su quella piazza, da quel giorno, ogni anno si radunano centinaia di camerati. Gente come me con i capelli ingrigiti, ma anche ragazzi che gli anni di piombo non li hanno vissuti, ma li hanno conosciuti solo dai racconti di genitori e altri camerati, oppure li hanno vissuti attraverso i tanti libri che hanno raccontato quegli anni e quel vento di follia.
FONTE: http://www.sslaziofans.it/contenuto.php?idContenuto=30341
NON DIMENTICHIAMO CHE CIò è STATO POSSIBILE PERCHE' LA DEGENERAZIONE DELL'MSI, NELL'ASPIRARE AD UN INSERIMENTO NELL'ARCO POLITICO DEMOCRATICO, PERMISE E TOLLERO' L'ASSALTO DEI DEMO-COMINSTI, CONTRO I RAGAZZI DELL'MSI, CHE PUR GIUSTAMENTE INTOLLERANTI, VENIVONO CACCIATI ED ADDIRITTURA SEGNALATI CON UNA TAGLIA SULLA TESTA.ONORE AI CAMERATI LIBERI.
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