lunedì 21 maggio 2018

LA DIVISIONE ALPINA MONTEROSA



Le Penne Nere della RSI: storia della Divisione Alpina Monterosa

Negli ultimi tempi le polemiche da parte dei circoli anarchici sulla presenza alpina a Trento si sono fatte sentire in ridicoli proclami che hanno lasciato il tempo che avevano trovato. All’odio nei confronti della nazione italiana si è aggiunto anche un vergognoso disprezzo nei confronti della figura dell’alpino stesso. Conosciamo bene la storia degli Alpini, una storia tutta italiana fatta di orgoglio,coraggio, generosità, ma soprattutto di tanto patriottismo. Prendo spunto da questo al fine di raccontare un pezzo di storia di questo glorioso corpo, cioè della Divisione Alpina Monterosa.
Dobbiamo sottolineare che la storia di tale divisione non è conosciuta ai più in quanto schierata con la Repubblica Sociale Italiana e quindi a suo modo “dimenticata” perché associata alla memoria dei vinti della storia della guerra civile italiana. La Monterosa fu una delle più grandi unità militari create durante la Repubblica Sociale Italiana dopo l’infame Armistizio dell’8 settembre 1943, nonché una delle più importanti che combatterono sotto le insegne del Fascismo repubblicano. L’obiettivo era una riorganizzazione degli Alpini che avevano già combattuto nel Regio Esercito, protagonisti sulle Alpi Occidentali, in Grecia e anche nella Campagna di Russia e di creare una valida quanto efficiente unità combattiva a fianco dell’alleato tedesco nei territori di montagna. Creata nel gennaio del 1944 a Pavia essa venne mobilitata nel febbraio successivo. L’organico era composto per il 19%, quindi un’esigua parte, da ufficiali, sottufficiali e soldati già arruolatisi volontariamente nel Regio Esercito prima dell’Armistizio, e per il resto da reclute delle classi 1924 e 1925 chiamate alle armi dal governo fascista repubblicano.
La divisione venne fatta trasferire successivamente in Germania per un addestramento di sei mesi da parte di istruttori militari tedeschi. Nello stesso organico della divisione vi sono anche trenta ausiliarie alpine, le prime nella storia di tale corpo. Il 16 luglio del 1944 venne passata in rassegna a Münsingen dal capo di stato e di governo della Repubblica Sociale Italiana Benito Mussolini, il quale elogiò con un discorso i reparti che si accingevano a ritornare in Italia e consegnò loro le bandiere di combattimento. La divisione, composta da circa 20.000 uomini, rientrò in Italia nello stesso mese e venne posta sotto il comando del Corpo d’armata “Lombardia” nella zona ligure al fine di prevenire un eventuale sbarco alleato in quelle zone. Il reparto viene tuttora considerato come il meglio armato e addestrato tra le unità alpine nel corso della guerra. La divisione venne impiegata nella zona della Garfagnana in Toscana, quindi a ridosso della Alpi Apuane e dell’Appennino Tosco Emiliano, dove riuscì assieme alle divisioni tedesche nel mese di dicembre dello stesso anno a bloccare l’avanzata alleata ,nelle cui file vi erano sia la quinta armata americana sia i reparti brasiliani, nel contesto dell’Operazione Wintergewitter e facendo indietreggiare le forze alleate oltre la zona del fiume Sirchio, con conseguente cattura di armi ed equipaggiamento oltre che di prigionieri, costituendo un buonissimo successo tattico per gli italo-tedeschi.
Un mese prima avvenne uno dei tanti episodi tragici che accaddero durante la guerra civile italiana, dove una brigata partigiana si macchiò di un orribile crimine contro gli alpini della Monterosa. Verso gli ultimi giorni del novembre 1944 due plotoni di alpini della Monterosa, 67° compagnia del Battaglione Cadore provenienti da Garessio e dall’alta Valle Tanaro, si trovano a fronteggiare la quinta brigata partigiana garibaldina nei pressi di Calizzano, in territorio savonese. I combattimenti sono feroci e intensi per entrambi gli schieramenti, ma nonostante due plotoni di alpini riescano a disimpegnarsi e a rientrare nel proprio reparto a Ceva, quello rimasto si ritrova circondato e senza la possibilità di ottenere rinforzi. Ma nonostante ciò continua a combattere, anche a prezzo di dure perdite. Alla fine diciassette alpini verranno fatti prigionieri al termine degli scontri e portati a forte Tortagna, situato sul colle omonimo, dove verranno prima denudati e poi passati per le armi uno ad uno senza alcun rispetto per la vita umana e senza il minimo accenno alle convenzioni internazionali sui prigionieri di guerra. L’unico membro del gruppo di alpini prigionieri che scampò al massacro – perché ancora minorenne – grazie all’intervento del suo comandante, il sottotenente Mario Da Re, testimonierà tale crimine avvenuto per mano partigiana.
Un altro orribile delitto avvenuto nei riguardi degli Alpini Monterosa riguarderà il 13a Cpg del Btg. “Intra” della Divisione Alpina Monterosa Paolo Carlo Broggi, il quale troverà la morte per mano partigiana a soli ventuno anni, dove nel corso di uno scontro a fuoco con partigiani della Lunense venne ferito e catturato. Rifiutandosi come richiesto dai partigiani in cambio di aver salva la vita di rinnegare il giuramento di fedeltà fatto alla Repubblica Sociale Italiana egli venne condannato alla fucilazione, dove gli fu sentito gridare “l’Italia può fare a meno di me, ma non del mio onore.Viva l’Italia” .Alla foce del fiume Careggine è stato eretto un monumento in pietra che ricorda il suo sacrificio.
Successivamente, a partire dal gennaio 1945, la Monterosa venne spostata nei pressi delle Alpi Occidentali per fermare l’avanzata alleata delle truppe francesi e americane. Da segnalare un episodio di sabotaggio al di là delle linee nemiche da parte di 25 alpini e di 25 Gebirgsjäger che fecero saltare le fortificazioni di Mont Janus, nei pressi del confine francese. L’ultimo gruppo della divisione Monterosa, cioè il Gruppo Mantova, già schieratasi in Val di Susa e a la Thuile dalla fine di marzo si arrese agli americani l’8 maggio, 10 giorni dopo lo scioglimento del reparto da parte del Maresciallo Graziani. La Divisione alla fine della guerra conta 1.100 caduti, 142 decorazioni assegnate, tra le quali una medaglia d’oro al valor militare all’alpino Renato Assante, inoltre 89 encomi e numerosi croci di guerra.
A partire dal dopoguerra i reduci dopo una serie di raduni hanno fondato nel 1951 l’Associazione “Divisione Monterosa”; tra gli scopi dell’associazione anche il sostegno economico ad invalidi di guerra, in quanto, a quella data, lo stato italiano ancora non riconosceva i combattenti della Repubblica Sociale Italiana. Ciò avverrà qualche anno dopo, con la sentenza del 26 aprile 1954 n. 747 del Tribunale supremo militare. Un sacrario dedicato ai caduti della divisione Monterosa si trova a Palleroso (comune di Castelnuovo di Garfagnana). Inizialmente l’Associazione Nazionale Alpini (ANA) non riconobbe ufficialmente i combattenti della Monterosa come alpini, ma a partire dal 27 maggio 2001 veniva annullata tale disparità di natura specificatamente politica, attribuendo anche ai ragazzi della Monterosa la qualifica ufficiale di Alpini d’Italia.
(di Lorenzo De Min)
 

sabato 19 maggio 2018

GRAZIE, UMBERTO...

  
SALVATORE UMBERTO VIVIRITO
20-12-1955---21-05-1977
CADUTO SUL CAMPO DELL'ONORE
 
 
 
 
 
 


Milano 19.05.1977 - Durante il periodo degli anni di piombo, a Milano, vi fu un luogo, Piazza San Babila, considerato l’avamposto del neofascismo milanese. Da lì, per i militanti, il nome di “Sanbabilini”. Il richiamo, fu soprattutto per le caratteristiche storiche. Infatti, la Piazza, era costruita in larga parte da architetture risalenti agli anni trenta in piena epoca fascista. Una nuova generazione, che, pur mantenendo un minimo legame con il Movimento Sociale Italiano, decise di seguire la strada della piazza. Alcuni bar furono utilizzatati come sede organizzativa. Lo zoccolo duro era formato da Gianni Nardi, Rodolfo Crovace, Giancarlo Esposti e soprattutto Salvatore Umberto Vivirito. Tutti simpatizzanti e molto vicini ad Avanguardia Nazionale e poi Ordine Nuovo. Salvatore Vivirito, protagonista in numerose attività politiche e non, fermato e arrestato più volte dalla Polizia, fu uno degli elementi, insieme a Esposti, che nel maggio 1974 tentarono di organizzare il famoso golpe in tenda. I quattro, per evitare l’arresto, decisero di fuggire verso l’Italia centrale. Dopo vari spostamenti giunsero, per sentieri tortuosi, nella provincia di Rieti, a Pian del Rascino. Piantarono le tende e cercarono di elaborare le strategie per il golpe. Dopo alcuni
giorni, Esposti, prima di raggiungere Roma per acquistare altre armi e cartine particolareggiate di Pian del Rascino, lasciò sulla strada statale 17 Salvatore Vivirito, che, tra autostop e treni, riuscì a tornare in tempo a Milano per firmare il registro dei sorvegliati speciali. Fu il loro ultimo incontro. L’accampamento fu individuato dai carabinieri e durante l’arresto ci fu un conflitto a fuoco dove perse la vita proprio Esposti. Stessa sorte, tre anni dopo, 19 maggio 1977, per Salvatore Vivirito, durante una rapina per autofinanziamento, rimase ucciso da un colpo di pistola esploso però dal proprietario di una gioielleria a Milano.

IL LUOGO DEL FERIMENTO DI VIVIRITO

In ricordo del Camerata Vivirito, 
volantino da lui creato con la complicità di altri camerati di Avanguardia, 
che nel  1977 attaccò sulla saracinesca della macelleria del padre di un camerata

MILANO 6 DICEMBRE 1972
Avanguardia Nazionale sola contro la reazione marxista e borghese

I militanti Nazional Rivoluzionari : Umberto Vivirito, Alessandro D'Intino, Riccardo Manfredi e Michele Rizzi, furono aggrediti in via Torino da una moltitudine di picchiatori, rampolli della borghesia della cosiddetta Milano bene.
Gli Avanguardisti si difesero con valore fino allo stremo.
Riccardo Manfredi si comporto' da leone in soccorso dei camerati .
La stampa del sistema, spudoratamente scrisse ' di vile "aggressione fascista"
Una masnada inferocita contro quattro "Leoni" !
I camerati feriti e malconci furono arrestati e rinchiusi nel carcere di San Vittore, seppur minorenni.
Radunai i militanti Milanesi di A.N. ed organizzai una protesta dinanzi a San Vittore. Giancarlo Esposti in quel periodo era "ospite" di San Vittore.
Con gli altri camerati richiusi esposero uno striscione con la Runa di Othal.
AVANGURDIA VIVE !

P.S.
(L'unico nostro organo e strumento d'informazione, era un vecchio Ciclostile...)







 










24 MAGGIO 1967 " LA STAMPA"
Manovale del terrorismo
"E' morto portandosi dentro molti segreti di una vita violenta : Salvatore Vivirito detto "Umberto", 22 anni, manovale del terrorismo fascista, magliaro invischiato nel giro dei trafficanti d' armi, dei tramisti neri, degli attentatori. Preso dagli uomini della Mobile venerdì 20 maggio con una pallottola in corpo è spirato in ospedale dopo una operazione chirurgica che pareva riuscita, prima che il magistrato inchiodarlo alle responsabilità di un assassinio. "Umberto" aveva una ferita al torace. Interrogato disse che era stati "avversari politici" a sparagli contro. Ha negato fino all' ultimo poi è morto. I molti segreti e le molte verità che Vivirito si porta nella tomba lo riguardano direttamente, da quando aveva 16 anni e scelse la strada della violenza, legandosi al mondo lombardo dei fascisti. " Comitato Tricolore", "Avanguardia Nazionale", "Squadre d' azione Mussolini", Mar di Carlo Fumagalli. Passo per passo aveva percorso la strada di manovale, ripagato dal denaro facile: vestiti, motociclette potenti, armi a volontà. I rischi erano grossi ma Salvatore li affrontava con apparente indifferenza: in un modo o nell' altro ne usciva (...). Vivirito era nel giro dei Sanbabilini, conosceva i bombardieri della Valtellina, i neofascisti di Brescia (...).
Chiude la cartellina, non va oltre: giornalisti schifosi.
(Tratto da Indian Summer '70 - c' era una volta San Babila )
 






  






 
 
 
 
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mercoledì 16 maggio 2018

CON LUIGI CIAVARDINI. SEMPRE

 
UN INNOCENTE NON PUO' PENTIRSI DI REATI CHE NON HA COMMESSO
DOPO OLTRE 37 ANNI NON SI VUOLE ABBATTERE IL DOGMA DI UNA
"VERITÀ" PRECONCETTA:
 
 LO SANNO TUTTI CHE
 LA STRAGE
DI BOLOGNA
NON È FASCISTA:
TRANNE COLORO A CUI VANNO BENE DEI COLPEVOLI DI COMODO
 
"IN QUEL TUO SGUARDO RICONOSCO L'INNOCENZA /
PERCHE'CON GLI OCCHI NON SI PUÒ  MAI  MENTIRE/
...PERCHÈ NESSUNO DI NOI ERA A BOLOGNA"
 
Perchè verrà l'ora della Verità
 
 
 
Riportiamo il solito -fazioso e malfatto-
(e per certi versi offensivo nei confronti di Luigi e della Verità)
 articolo di Repubblica:
fa inoltre specie vedere nell'intervista
che le parole di Luigi vengan poco considerate dalla
parente di una delle vittime
 -purtroppo e con rispetto- ulteriore vittima di una sentenza di colpevolezza lontana anni luce dalla Verità
 

Strage di Bologna, l'ex terrorista Ciavardini sotto torchio: "Non ricordo e non mi pento". Ma piange per il camerata suicida

Già condannato come esecutore materiale, testimone nel processo Cavallini cambia strategia. "Io vittima, non volevo offendere. Vittime anche i nostri parenti, non solo quelli di Bologna. Non posso pentirmi se sono innocente"
 
Strage di Bologna, l'ex terrorista Ciavardini sotto torchio: "Non ricordo e non mi pento". Ma piange per il camerata suicida
                         
BOLOGNA Luigi Ciavardini aggiusta il tiro. Se alla scorsa udienza aveva detto di non voler rivelare i nomi di chi lo ospitò a Treviso, prima e dopo la strage del Due Agosto, perchè non voleva "tirare dentro persone non coinvolte con quei fatti". Oggi, l'ex terrorista dei Nar già condannato tra gli esecutori materiali dell'attentato del 1980, ha rettificato spiegando che in realtà quei nomi non li ricorda.

Un cambio di strategia fatta evidentemente per evitare il rischio di essere incriminato per reticenza e falsa testimonianza. Una possibilità già annunciata dal presidente della Corte d'assise, Michele Leoni. Strategie difensive a parte, anche oggi nel corso del processo contro Gilberto Cavallini, Ciavardini ha continuato a non rispondere alle domande relative al "covo" di Treviso e a quelle sui rapporti che immediatamente dopo l'attentato alla stazione di Bologna ebbe con Roberto Fiore (attuale leader di Forza Nuova). I legali di parte civile Brigida, Nasci e Speranzoni hanno battuto a lungo su questi due argomenti, convinti che attorno alla vicenda del "covo" e del rapporto con Fiore ci siano elementi importanti per risalire alle responsabilità di Cavallini (accusato di concorso nella strage) e, forse, di altri personaggi non ancora emersi o rimasti ai margini della stagione dell'eversione nera di quegli anni.

INNOCENTE NON MI POSSO PENTIRE "Il mio pentimento - dice a  margine dell'udienza Ciavardini - c'è stato con alcuni parenti delle vittime su un fatto specifico e personale, sul quale ho ammesso la mia responsabilità. Per quanto riguarda Bologna, non ho da pentirmi: non perché devo giustificarmi ma perché non è in alcuna maniera riconducibile a me la colpevolezza. Quando parlo in modo negativo di chi ha commesso questo reato, non ho remore a dire che chiunque l'abbia commesso deve essere condannato definitivamente. Lo dico sapendo di essere innocente, non lo sto dicendo autoaccusandomi di qualcosa". Evidenzia continuando Ciavardini: "Vorrei che fosse chiaro: indipendentemente dal nostro passato e da tutto quel che abbiamo commesso, noi non abbiamo niente a che vedere con Bologna. Il pentimento giudiziario di altre persone, invece, non può essere in nessun modo paragonato a un pentimento da innocente...".

Aggiunge ancora l'ex Nar: "Ho fatto gli anni di carcere fino alla fine per Bologna, il tribunale non mi ha voluto riconoscere un beneficio ulteriore perché dicevano che non mi ero pentito: ma se uno si dichiara innocente, come può pentirsi per qualcosa che non ha fatto"

Strage Bologna, faccia a faccia tra terrorista e parenti vittime: "Anche io vittima"

in riproduzione....
LACRIME PER IL CAMERATA Si è però commosso in aula Luigi Ciavardini ricordando la morte di Nanni De Angelis, ex esponente di Terza Posizione e suo futuro cognato. "La morte di De Angelis è una delle colpe che mi addebito - ha detto l'ex Nar, con gli occhi lucidi e la voce strozzata -, lui è un'altra vittima di questo processo". Anche la compagna di Ciavardini, presente in aula, non è riuscita a trattenere le lacrime.

Dopo la strage di Bologna venne spiccato un mandato d'arresto per De Angelis che divenne latitante come lo era già Ciavardini, ed entrambi vennero arrestati il 3 ottobre del 1980. Poi due giorni dopo De Angelis venne trovato impiccato nella sua cella: secondo alcune fonti, al momento dell'arresto venne picchiato perché scambiato per Ciavardini, individuato come il killer del poliziotto Evangelisti.

L'avvocato difensore di Cavallini, Alessandro Pellegrini, ha chiesto a Ciavardini se De Angelis si fosse suicidato oppure sia stato ucciso. "Dicono che si è suicidato - ha risposto l'ex Nar - dopo l'arresto però venimmo picchiati. Lui di più, perché venne scambiato per me. Oggi non lo so, accetto che si sia suicidato".

Strage Bologna, l'ex terrorista Ciavardini: "Condannato su ipotesi"

VITTIMA "Quando ho detto che ero l'86esima non volevo offendere né la città né questi processi, in nessuna maniera, che sono più che legittimi anche se contestiamo la sentenza" ha detto Ciavardini, terminata la prima fase dell'udienza di oggi al  tribunale a Bologna.  Ciavardini ribadisce in aula che "chi ha commesso quell'atto è una m...", chiedendo scusa alla corte per la parola volgare, e a margine parla ai giornalisti così: "le vittime sono tante, non solo purtroppo quelle di Bologna. Ci sono i nostri famigliari o i famigliari dei nostri amici che hanno portato sulla loro pelle danni irreparabili, fino alla morte, per salvare i loro figli, accusati di banda armata o di azioni legate a questa strage. Ci sono state molte vittime anche in questo senso".

Rimarca Ciavardini: "sono stato  arrestato
per una rapina, dicendo che l'avevo commessa in quello stesso periodo: con quella rapina mi hanno portato in carcere e hanno aspettato la sentenza definitiva di Bologna. Dopo la sentenza definitiva, sono stato assolto per la rapina". In definitiva, insiste l'ex terrorista: "la presenza oggi a questi processi serve a questo: non sto mentendo, nonostante qualcuno possa pensare il contrario, magari perché è di parte e deve pensare diversamente".
 
 
 
 
 
 

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all'eta' di 90 anni
dalla democratica Germania
per aver contestato la storiografia ufficiale
 
UN PICCOLO GESTO
CHE LA FARÀ SENTIRE MENO SOLA

lunedì 14 maggio 2018

SILVIO FERRARI, NEI NOSTRI CUORI


 
Silvio Ferrari, aveva preferito l’Onore al disonore,
il Coraggio alla paura

Il 1974, per la città di Brescia, fu l’inizio di una lunga stagione di attentati dinamitardi. A cominciare da gennaio, quando un ordigno esplose davanti alla porta principale del Municipio di Concesio; a febbraio contro la Coop in viale Venezia; a marzo contro la sede della Cisl a Leno e a maggio l’episodio più grave. La notte tra sabato 18 e domenica 19 maggio, in Piazza Mercato alle ore 03.05 un’esplosione assordante fece svegliare di soprassalto gli inquilini delle case circostanti.



Alla loro vista uno spettacolo agghiacciante. Un giovane, Silvio Ferrari, giaceva esamine al suolo. Le gambe erano orrendamente dilaniate e a pochi metri una vespa 125 “Primavera” fumante. Trasportava, sulla pedana, un ordigno ad alto potenziale, circa un chilo di tritolo con nitrato di ammonio e il detonatore elettrico innescato. Accanto al corpo una pistola, Beretta 7.65 con caricatore e colpo in canna. A poca distanza, alcune copie, quasi bruciate, del numero unico di “Anno Zero”, rivista ufficiale del movimento Ordine Nuovo. Silvio Ferrari, 21 anni, figlio di una famiglia agiata, era considerato un esponente di primo piano dell’estrema destra bresciana. Rimase legato ad Ordine Nuovo nonostante il suo scioglimento nel 1973. Diverse le sue amicizie in tutta la Lombardia, soprattutto nei confronti dei Sanbabilini. Due giorni dopo, al suo funerale, amici provenienti dal Veneto, dall’Emilia e da Milano parteciparono commossi alle esequie. Non mancarono scontri e tafferugli con militanti di sinistra e forze dell’ordine. Infatti la Polizia riuscì ad arrestate cinque esponenti veronesi del movimento di Ordine Nuovo. Il feretro fu accompagnato al cimitero periferico di S. Francesco da Paola, zona est della città, e gli amici, gli dedicarono una corona di fiori con rose rosse e al centro un’ascia bipenne formata da fiori bianchi. Il nastro fu firmato “Camerati Anno Zero”. Il 19 maggio 1975, in occasione del primo anniversario della scomparsa di Silvio Ferrari, alcuni amici fecero pubblicare, a pagamento, sulla testata giornalistica “Il Giornale di Brescia”, un necrologio molto particolare. Le iniziali dei nomi, lette in verticale, formavano la frase: “Camerata Silvio Presente”.
La corona di fiori che accompagnava il
feretro di Silvio Ferrari


In una terra occupata militarmente dagli americani e sottoposta a continue aggressioni da parte della sovversione marxista, i giovani anticomunisti sono costretti a difendere e a difendersi utilizzando ogni mezzo, lecito e no. Prevenire o perire. Troppe erano le tensione che (ormai da anni, investivano le città: aggressioni, incendi, ferimenti, bombe), i camerati subivano, erano gli anni in cui per le strade e nelle piazze i servi rossi del capitalismo gridavano << uccidere un fascista non è reato>>, servi che avevano disonorato l’Italia, che avevano massacrato altri italiani in nome del bolscevismo, traditori a servizio dello straniero che si arrogavano in nome dell’antifascismo il diritto di perseguitare ed escludere dalla vita politica e sociale chi aveva scelto di lottare il capitalismo. I giovani fascisti, erano perseguitati nelle scuole e nelle fabbriche, specialmente in Lombardia, dove l’antifascismo non viene professato per motivi ideologici ma per opportunità economiche, in questo difficile clima il Camerata Silvio Ferrari, era divenuto un esponente di primo piano nell’area dell’extraparlamentarismo bresciano. Legato all’organizzazione culturale “La Fenice”, un gruppo di giovani che, inconsciamente si erano sottoposti ai servizi deviati dello Stato, del quale facevano da tramite il capitano dei carabinieri Antonio La Bruna e il capitano Francesco Delfino - conosciuto nell’ambiente come «Palinuro» -, che da (Sbirro) esaltando i valori del Fascismo seppe contaminare la loro ingenuità, spingendoli in azione di rivolta, in questa attività venne coinvolto anche Silvio Ferrari, il quale la notte tra il 18 e il 19 maggio ’74 durante l’inspiegabile trasporto di un ordigno posto sulla pedana della vespa 125 “Primavera” di proprietà del fratello Mauro, alle tre e cinque, giunto nei pressi di un vicolo di Piazza del Mercato a Brescia, una piazza contigua a quella della Loggia, rimase dilaniato dallo scoppio dell'esplosivo composto da un chilo di tritolo e da nitrato di ammonio, già con il detonatore elettrico ed il congegno ad orologeria innescato. Del corpo di Silvio, restarono solo i piedi, vicino i suoi resti venne ritrovata una fondina vuota e a tre metri una Beretta 7,65 con caricatore e il proiettile in canna. A poca distanza alcune copie bruciacchiate della rivista “Anno Zero”. Il trasporto di quell’ordigno risulta ancor più strano se si considera che proprio per il giorno seguente era stata convocata in città una manifestazione di ex-combattenti (una strana coincidenza). Silvio Ferrari, aveva preferito l’Onore al disonore, il coraggio alla paura, si fidava dei suoi camerati, non sapeva ci fossero apparati e uomini che avevano saldato certe aree della destra ad apparati e settori dello Stato, in chiave di strumentalizzazione da parte di questi nei confronti di quelle aree (..) col miraggio del colpo di Stato risanatore". Nell’ambiente Fascista bresciano circolavano voci che accusavano della sua morte il traditore che aveva consegnato a Silvio la bomba confezionata in maniera tale da farlo saltare in aria. Di certo non un vero camerata.
 


Ferrari era morto per essersi fidato di gente senza scrupoli, al servizio del sistema, che utilizzava allo stesso tempo giovani dell’una e dell’altra parte, come esplicitamente affermato in sede d’audizione il 4 giugno 1997, presso la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulle stragi dal Dottor Arcai, in risposta al Presidente on. Giovanni Pellegrino, che chiede: << tutti questi gruppi che lei ha definito bianconeri siano stati per un lungo periodo, diciamo fino al 1974, in qualche modo seguiti, se non incoraggiati seguiti con le briglie lunghe, da parte di apparati istituzionali con alle spalle, probabilmente, precise responsabilità politiche, e che poi invece nel 1974 c'è una svolta e questi gruppi vengono buttati a mare. Quindi l'operazione Maifredi, il primo rapporto di Delfino, potrebbero rientrare in questa logica, in questa strategia, vale a dire il tentativo di recidere i rapporti che ad un certo punto erano diventati pericolosi >>. Domanda a cui Il Dottor Giovanni Arcai rispose: << sono d'accordo su questo per un complesso di ragioni. Intendiamoci: non c'è dubbio, per quello che ho accertato e che ho capito poi leggendo e facendo certi processi anche di terrorismo rosso, perché ho fatto poi anche i processi Feltrinelli e Curcio a Milano, e anche in quelle circostanze mi sono trovato di fronte a servizi segreti che facevano questi lavori, carabinieri che facevano altrettanto>>. Da questa audizione del 1997 si evince un chiaro atto d'accusa verso questa “democrazia rappresentativa” e a chi dovrebbe tutelare l'ordine pubblico e la serena convivenza civile, ma non lo fa: per inefficienza o per inettitudine?  La stessa “Democrazia” che tre giorni dalla morte, sfrutta, mediaticamente, persino il dolore familiare e di una comunità, attraverso la più paradossali provocazioni delle forze dell’ordine le quali durante i funerali di Silvio Ferrari creano un gran trambusto ed arrestano cinque giovani Camerati del gruppo «Anno Zero». Funerale che vede comparire a firma i Camerati una corona di fiori con l’ascia bipenne simbolo del Movimento politico Ordine Nuovo, “democraticamente” sciolto nel 1973, d’autorità dal Ministro degli interni. 
 
 
 Silvio Ferrari, era nato nel 1955 in una famiglia agiata, già fidanzato con Ombretta Giacomazzi, una bella ragazza 17enne del bresciano. Nessuna indagine fu istruita per la morte del Camerata Ferrara. Solo dopo l’esplosione del 28 maggio 74’, in piazza Della Loggia, vengono affidate le indagini al capitano Francesco Delfino, lo stesso ufficiale che teneva i contatti con le organizzazioni extraparlamentari, alle quale avrebbe materialmente fornito armi ed esplosivo.  Secondo i documenti trasmessi a Roma dal giudice Salvini, Delfino, sarebbe uno degli ufficiali italiani più vicini alla Cia, il servizio segreto degli Stati Uniti: e fin dai primi anni Settanta.  Un carabiniere invischiato nel grande gioco dell’eversione. O meglio: era un uomo dello Stato che, all’occorrenza, si faceva passare per «nero» e usava spregiudicatamente ingenui «camerati» per la sporca guerra che appartati dello Stato senza esclusione di colpi stavano combattendo per destabilizzare la nazione. Il Capitano Delfino, nelle indagini imbocca, come prevedibile, un’unica e precisa direzione che porta ad un eccentrico locale - Ermanno Buzzi - e all’etereogeneo ambiente a cui appartiene.  Buzzi non è noto come un tortuoso stratega o una raffinata mente politica, bensì come pregiudicato per reati comuni, mitomane, persino informatore dell’Arma. Nel suo entourage - oltre al defunto Silvio Ferrari - spiccano in particolare i nomi di due personaggi di varia umanità: Ugo Bonati, che si rende prontamente disponibile come testimone dell’accusa e Angelo Papa, un diciottenne disadattato. Il sostituto procuratore di Brescia, Francesco Trovato chiuse le indagini, chiede il rinvio a giudizio di 30 persone, tra cui Ermanno Buzzi, imputati dell'omicidio di Silvio Ferrari. La richiesta viene accolta dal Giudice istruttore Domenico Vino, che dispone il rinvio a giudizio degli imputati davanti la Corte di assise di Brescia. La Corte di assise di Brescia, emette la sentenza di primo grado il 2 luglio 1979, con la quale condanna all'ergastolo Ermanno Buzzi e a dieci anni e sei mesi Angiolino Papa quali esecutori materiali della strage di Piazza della Loggia, Ferdinando Ferrari a 5 anni per la detenzione dell'ordigno esplosivo che ha provocato la morte di Silvio Ferrari e ad 1 anno per l'omicidio colposo del medesimo. Marco De Amici viene condannato con Pierluigi Pagliai per il trasporto dell'esplosivo, di proprietà di Silvio Ferrari, da Parma a Brescia. La Corte di assise di appello di Brescia, emette la sentenza di secondo grado il 2 marzo 1982 con la quale vengono assolti tutti gli imputati per non aver commesso il fatto. La Corte di Cassazione, con sentenza del 30 novembre 1983, annulla la sentenza della Corte d'assise d'Appello per difetto di motivazioni e rinvia gli atti alla Corte d'Assise d'Appello di Venezia. La Corte di assise d’Appello di Venezia, il 19 aprile 1985, pronuncia una nuova sentenza di assoluzione per insufficienza di prove per tutti gli imputati, mentre conferma la condanna per Marco De Amici. La Corte di Cassazione, con sentenza del 25 settembre 1987, conferma la sentenza della Corte d’assise d’Appello di Venezia, rendendola definitiva.  La morte di Silvio Ferrari, non trova alcun colpevole, lo Stato assassino ancora una volta l’ha fatta franca, mentre il capitano Delfino a spese di tanti ingenui Camerati ha compiuto una folgorante carriera raggiungendo il grado di generale.
 Gradi che vengono spazzati via dalla vicenda Soffiantini.  Molti anni dopo, Ombretta Giacomazzi ex fidanzata di Ferrari sposerà Carlo Soffiantini, uno dei figli dell’industriale sequestrato. Subito dopo il matrimonio il fratello di Carlo, Giordano, rivela un'altra prepotenza commessa da quell’ Ufficiale: «Delfino, quando era capitano, aveva indotto Ombretta a testimoniare il falso, dopo averla arrestata».

"CORRIERE DELLA SERA" 20 MAGGIO 1974

Necrologio per il primo anniversario della morte di Silvio Ferrari
pubblicato su «Il Giornale di Brescia» il 19 maggio 1975.
Le iniziali dei nomi, lette in verticale, formano la frase
 «Camerata Silvio presente».

VOLANTINO DISTRIBUITO DAL CIRCOLO CULTURALE
 "RISCOSSA" NEL 1971
 

 
SILVIO FERRARI
 
 
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TRIESTE, SABATO 19 MAGGIO ORE 18.30