Dieci anni fa moriva in un incidente motociclistico Peppe Dimitri. Qui di seguito pubblico integralmente il lungo paragrafo che gli ho dedicato nella seconda edizione di Fascisteria. Il titolo lo avevo preso dalla canzone che gli dedicò Francesco Mancinelli su testo di Cesare Massimo Ruggeri. A chiarire alcuni punti controversi della personalità di un leader giovanile che ha lasciato traccia profonda di sé (lui vivo, sono convinto, il sistema Alemanno avrebbe retto molto meglio …) segnalo la testimonianza di Stefano Delle Chiaie, in occasione del meeting per il terzo anniversario della morte. In particolare il fondatore di Avanguardia nazionale afferma la totale indipendenza di Lotta studentesca (smentendo certe dicerie infamanti sul ruolo di ‘infiltrato’ di Peppe), ricostruisce il suo ritorno in Italia nel 1979 e il loro tentativo congiunto di creare le condizioni per un passo indietro dei camerati partiti per la “via breve” della lotta armata, riconosce l’integrità del suo percorso militante in tutti i passaggi compiuti. La potete ascoltare qui.
Il Ricordo di Stefano Delle Chiaie
Per l’anniversario è in programma un memorial, la sera di sabato 2 aprile, mentre oggi la famiglia celebrerà una messa di commemorazione nella chiesa di Santa Maria della Consolazione, in piazza della Consolazione, alle ore 18.
Peppe Dimitri, la figura più complessa del nuovo terrorismo nero, proviene dai ranghi di Avanguardia nazionale. La sua prima esperienza associativa è nei boy-scout; a 14 anni, per una stagione, milita nel collettivo dell’estrema sinistra al liceo Vivona dell’Eur; nel ’71 entra con Dario Pedretti in Avanguardia nazionale.Da cattolico, supera le perplessità sulla violenza, convincendosi che l’uso di spranghe e martelli sia purificato dal suo idealismo, qualità che anche gli avversari gli riconoscono. Valerio Fioravanti, che ce l’ha con tutti i leader e non esita ad ammazzare per uno “scazzo” da poco un altro dirigente di Tp, Mangiameli, gli renderà merito per l’assoluto disinteresse e dedizione alla causa nonostante il risentimento per un contenzioso sulla gestione delle armi rapinate all’Omnia sport. Allo scioglimento di An, Dimitri scegli il movimentismo: a 20 anni è già uno dei più noti capisquadra. Dal giorno che, per mettersi alla prova, si lancia all’assalto di un plotone di compagni brandendo un’accetta, gli attacchi solitari divengono la sfida più ambita per gli squadristi romani. Al suo seguito decine di tozzissimi picchiatori scoprono il valore ascetico e purificatore dell’alpinismo, sulla falsariga dell’intuizione evoliana sulla metafisica delle vette; bande di fasci da bar sono iniziati alla fascinazione delle rune e della continua ricerca di simboli magici, esoterici e militanti. Dimitri è tra i fondatori di Lotta studentesca, il gruppo dal quale figlierà Terza posizione, il più originale tentativo di rifondazione militante dell’area nazionalrivoluzionaria. Il gruppo nasce come federazione di tribù, aggregando tre gruppi umani: il suo, che controllava l’Eur, il pariolino, guidato dall’imberbe Roberto Fiore, un adolescente brillante cresciuto alla scuola di Sergio Caputo (poi noto cantante swing, che negherà accanitamente una militanza giovanile a destra) nel cosiddetto “covo” di corso Francia e quello di Trieste-Salario che faceva capo a Gabriele Adinolfi. Pur essendo i tre assai poco inclini al cazzeggio e alla mondanità, il gruppo nasce in birreria e in un paio di anni raggiunge i trecento militanti a Roma, con consistenti presenze a Palermo, Venezia, Padova, nelle Marche, in Basilicata e piccoli nuclei di diffusori e simpatizzanti a Bologna, Milano, Torino, Napoli e Genova. Ma Dimitri è insoddisfatto: dopo un periodo di carcere per rissa nel 1978, il servizio militare è l’occasione per un lento distacco. Si ritaglia uno spazio nella Legione, ordine ascetico-militare interno al gruppo, per i giudici un superclan terroristico, per Dimitri una comunità elettiva.
A un certo punto mi convinsi di essere immortale. Gli altri, i miei camerati mi vedevano come un guerriero senza sonno e io mi sentivo tale. Della mia vita fisica non mi importava un bel niente. Il mio spirito sarebbe vissuto in eterno con le mie idee.
Infaticabile attivista, gira come una trottola: continua a frequentare cenacoli rautiani grazie al legame con Germana Andriani, figlia di un vecchio ordinovista, l’avvocato Paolo, presidente della Fondazione Evola (sarà arrestato nell’inchiesta sull’omicidio Amato per favoreggiamento di Signorelli) e al tempo stesso è tra i “duri e puri” che compiono la scelta delle armi dopo Acca Larentia. Nell’autunno 1979 Dimitri preme sull’acceleratore: in pochi mesi organizza una mezza dozzina di rapine. La prima la compie sotto casa, all’Eur, a volto scoperto. I soldi servono a finanziare le strutture operative, pagare la latitanza agli esuli come Delle Chiaie ma anche a liberare i camerati dalla schiavitù del lavoro. Racconterà che il primo rapporto con il denaro – lui, figlio di un agrario pugliese – lo ha sviluppato dopo il carcere. L’arresto a metà dicembre, mentre recupera un carico di armi in un palazzo del quartiere Trieste, rappresenta un brusco ritorno alla realtà: il linciaggio sfiorato comincia a scalfire le sue certezze. Con lui è catturato Roberto Nistri, responsabile del (modesto) apparato clandestino di Tp, che, decapitato, si aggrega alla banda Fioravanti. L’episodio ha dato la stura a una serie di voci e di dicerie paranoiche, tutte tese ad accreditare l’ipotesi di un complotto (dei servizi segreti, della P2, della “guardia bianca”) per liquidare l’impetuosa crescita dell’unica organizzazione rivoluzionaria. La proclamata ostilità di Tp verso An, considerata asservita alle logiche golpiste e stragiste, con gli arresti di via Alessandria trova una clamorosa smentita. Nello stesso palazzo ha sede l’Assierre, società in accomandita che ha tra i soci gli avanguardisti Tilgher, Romano Coltellacci, Saverio Saverino Morelli. I locali della ditta ospitano Confidentiel, rivista trimestrale di politica, strategia e conflitti, diretta da Mario Tilgher, padre di Adriano e spedita a numerose personalità tra cui Gelli. L’editore, l’Istituto di ricerche e di studi politici e sociali, ha uffici di corrispondenza in Spagna (il responsabile è Ernest “Bicio” Milà, proconsole spagnolo di Delle Chiaie) e in Francia ed è distribuita anche in America latina. Proprietaria dei locali, come dello scantinato-arsenale, è una signora, il cui patrimonio immobiliare è amministrato dall’avvocato Stefano Caponetti, un altro ex di An. Fra le proprietà anche i locali di via della Panetteria affittati per la redazione del giornale di Tp. Dimitri, dal carcere, si affanna disperatamente a far fare macchina indietro ai camerati. Quando viene a sapere che si prepara un agguato contro Rauti, ritenuto un delatore, mette in campo il suo prestigio per scongiurarlo e ne ricava in premio un’imputazione di omicidio. Cristiano Fioravanti lo accuserà, con Pedretti, di essere il mandante dell’agguato al giornalista Michele Concina, che avrebbe sostituito come “obiettivo” il vecchio leader (a morire fu poi un tipografo del Messaggero, Maurizio Di Leo, uscito dal giornale di corsa dopo una telefonata trappola e scambiato dal commando per il cronista). A tentare di gettare ombre sulla sua figura adamantina, concorre – con la presunta “resa”: in realtà aveva cercato di prendere la pistola dal borsello ma era stato bloccato – un dossier trovatogli addosso al momento dell’arresto, sulla presenza in Europa del Kgb, consegnatogli da Delle Chiaie per la pubblicazione su Confidentiel. Anche se su questo episodio in molti – dai giornalisti pistaroli agli avversari politici – hanno ricamato, tentando di appiattirlo sullo schema dell’avanguardista manipolatore e doppiogiochista, Dimitri aveva un saldo sodalizio umano con i suoi sodali di Tp: dei suoi rapporti erano regolarmente informati sia Fiore sia Adinolfi che pensavano di usarne i contatti internazionali senza problemi, ritenendosi – ingenuità giovanile – talmente “puliti” da poter restare senza macchia. La fiducia nei suoi confronti era totale.
Peppe era una figura di una solarità esemplare a livello di piazza e di comportamenti, una persona che si assumeva l’impegno per migliorarsi e per mettersi costantemente alla prova ed è stato per anni il punto di riferimento attivistico e fisico di quasi tutta la piazza romana.
Del suo rapporto non gratuito con l’uso della forza offre un’appassionata testimonianza Daniele Liotta:
Peppe incarnava quello spirito marziale mai scisso da una visione spirituale della vita secondo i principi tradizionali, ovvero uno kshatria Indù o un Vir romano. Una delle sue prime letture giovanili fu “Il mattino dei maghi” che lo colpì inesorabilmente. Da lì cominciò ad approfondire lo studio delle Rune, testi evoliani sulla Tradizione e Vie iniziatiche consone alla natura del guerriero. Era uno dei pochi che nella violenza quotidiana degli anni ‘70, assieme ad una decisa, competente e determinata capacità militare, coltivava letture di approfondimento e cercava di trasmettere una certa etica dell’azione. Teneva le sue “lezioni” alla Legione nei giardini adiacenti il Fungo dell’Eur. E nello scontro col “nemico” era sempre in prima fila, e spesso da solo. Amava il mondo celtico e nordico con le sue mitologie ed i suoi Dei pagani, sostenitore dell’uso del martello quale arma nello scontro fisico con i rossi in quanto ispirato “spiritualmente” al martello di Thor.
Quasi vent’anni dopo, in occasione della morte prematura di Dimitri, Adinolfi, affranto, dopo aver giocato a lungo sulla loro divisione del lavoro tipo triade tradizionale (lui bramino, Peppe guerriero, Fiore homo faber) ammetterà, in un accorato ricordo, il suo primato.
Nella sua schiva personalità Peppe ha sempre evitato di mettersi in mostra ma è stato davvero un Capo, uno dei pochi, forse l’unico della destra radicale degli ultimi decenni. Dei tre dirigenti assoluti di Terza Posizione, che furono tre per caso ma forse coprivano ciascuno, sia pure in forme e misure diverse, le tre funzioni tradizionali, colui che aveva connessione con la regalità (l’essere Rex) era proprio Peppe Dimitri. Ne avemmo una prova tangibile dopo il suo arresto nel 1979: Tp aveva ancora dei dirigenti ma non aveva più un Capo. E gli effetti della rimozione del Rex furono rovinosamente evidenti.
All’uscita dalla galera, dopo nove anni nel corso dei quali la madre si era tolta la vita a causa del mandato di cattura recapitato al figlio per l’omicidio Di Leo, Dimitri è ancora un mito: non si risparmia in assemblee e dibattiti nel difendere la memoria degli anni Settanta e dei camerati morti con le armi in pugno, affinché non sia rimosso quel periodo. Ai giovanissimi che gli chiedono “cosa possiamo fare?” la risposta è sempre di “non dimenticare”. Nei primi anni di libertà ha ancora disavventure giudiziarie, ma nel segno della buona sorte. Frequenta ancora gli ambienti militanti ma con più matura leggerezza: tenta di riprendersi – con quindici anni di ritardo – tra un’abbronzatura da lampada e la frequentazione di località balneari trendy – le piccole frivole gioie che si era negato in una gioventù vissuta nel culto – predicato e praticato – dell’ascesi guerriera, fino alla castità volontaria. Continua intanto, a differenza di altri che hanno scelto la rimozione, a elaborare il lutto, interrogandosi sul senso di una vicenda che ha segnato nel profondo protagonisti e vittime. In un’intervista televisiva con il brigatista rosso Maurizio Jannelli, è l’unico ex terrorista a presentarsi in giacca e cravatta, pallido, il volto segnato da qualche tic, impegnato a porre domande piuttosto che a rispondere: “Chi mi darà riconoscimento per non aver tradito nessuno, per aver retto in tutti questi anni?” Molti non possono rispondere: alcuni sono morti, altri, scegliendo la strada della criminalità, hanno imparato a non porre, e non porsi, domande. Lui, come tanti altri, è tornato all’abbraccio della grande mamma, iscrivendosi ad Alleanza nazionale, dove finisce per ricoprire il ruolo di consigliere del Principe. In questo caso non più Borghese ma il leader della Destra sociale, e poi ministro, Gianni Alemanno, che nei confronti del “comandante” ha un rapporto di assoluto rispetto, al punto di assorbirne la divorante passione per la montagna. Muore ancora giovane, alla soglia dei 50 anni, travolto con la sua motocicletta da un camerata che correva in ospedale per paura di essere stato colpito da un infarto. Sulla sua cerimonia funebre ha scritto pagine memorabili Nicola Rao, elevando l’episodio a evento simbolico della conclusione di un ciclo e di una vicenda storica, l’ultima grande manifestazione del neofascismo italiano (anche se pochi mesi dopo analoga cerimonia avrà valenza e caratteristiche in parte analoghe per Nico Azzi a Milano). Per la commemorazione del primo anniversario c’è invece la testimonianza di Gabriele Adinolfi, che nel rito funebre aveva ricoperto un ruolo di particolare rilievo simbolico.
La funzione religiosa a cerimoniale cristiano ha potuto legare strettamente a lui, in quel rituale di sacralità, i familiari e coloro che credono cristianamente; ma anche tutti quelli che, con Peppe, da sempre hanno un forte legame sacro e prisco con il sovramondo, legame che trascende i singoli veicoli di trasmissione dai quali non si lascia ossessionare. Poi la serata: un video per Peppe in una sala arredata da centinaia di bandiere appese al soffitto, sistemate a righe alterne, rosse con la Runa nera e nere con la Runa rossa. La Runa scelta è stata quella di Tiwaz, dedicata a Tir e, per assimilazione a Marte; Runa solare, guerriera e regale che Peppe amava particolarmente e che si era tatuata senza ostentazione su un polso. Fra le tante Rune che hanno segnato il percorso di Peppe, da quella di Avanguardia a quella di Terza Posizione, si è pensato di scegliere quest’ultima che, appunto, non ne esprime un segmento del percorso esistenziale ma in qualche modo un suggello. Dopo il concerto, in cui si è anche ascoltato il brano inedito arrangiato da Francesco Mancinelli su di una poesia preparata per Peppe dal suo camerata Cesare, è stato ricordato che la Falange quando acclamava i suoi morti li salutava uno a uno con il grido di “Presente!” Ma alla fine, nel chiamare José Antonio la sala si rivolgeva a lui gridando “Assente!” Si rifiutava di pensarlo morto e si attendeva che giungesse da un minuto all’altro per colmare quell’insopportabile vuoto. Così accade per Peppe: Roma Antica e futurista gli ha rivolto lo stesso saluto di José Antonio. “Comandante Dimitri: Assente!”
Quando sento parlare di ‘guerre dimenticate’ metto mano alla pistola. Perché vuol dire che gli occidentali se ne stanno per ricordare e hanno intenzione di intervenire in questioni che non li riguardano affatto, provocando i consueti disastri.
E’ avvenuto nella guerra Iraq-Iran cominciata nel 1980 per iniziativa di Saddam Hussein che riteneva che lo Stato persiano si fosse indebolito con la caduta dello Scià e l’avvento di Khomeini. Ed effettivamente per cinque anni gli Stati occidentali si dimenticarono di quella guerra, salvo ovviamente vendere grandi quantità d’armi ad entrambi i contendenti perché potessero ammazzarsi meglio. Ma inopinatamente nel 1985 l’esercito iraniano, molto meno attrezzato di quello iracheno, più tecnologico, era davanti a Bassora e stava per prenderla. La presa di Bassora avrebbe comportato l’immediata caduta di Saddam Hussein, la nascita di un Kurdistan indipendente ai confini della Turchia e la naturale riunione della parte sciita dell’Iraq con l’Iran, perché si tratta della stessa gente, dal punto di vista antropologico, religioso e culturale. Allora intervennero gli americani, per ‘motivi umanitari’ naturalmente: “Non si può permettere alle orde iraniane di entrare a Bassora, sarebbe un massacro” (i soldati altrui sono sempre ‘orde’, solo i nostri sono eserciti regolari, anche se adesso i pasdaran iraniani, non più ‘orde’, ci fanno molto comodo per combattere l’Isis a Mosul). Risultato dell’’intervento umanitario’: la guerra che sarebbe finita nel 1985 con un bilancio di mezzo milione di morti, terminò solo nel 1988, ma i morti, nel frattempo, erano saliti a un milione e mezzo. Saddam Hussein invece di essere disarcionato restò in sella, e rimpinzato, in funzione antiraniana e anticurda, di armi di tutti i tipi, anche quelle chimiche fornitegli da americani, francesi e sovietici, aggredì il Kuwait. E fu la prima guerra del Golfo (1990). Le ‘bombe intelligenti’ e i ‘missili chirurgici’ americani fecero 157.971 vittime civili fra cui 39.612 donne e 32.195 bambini. E fermiamoci qui.
Nel 1999 gli americani si intromisero in un’altra guerra altrui. Quella fra lo Stato serbo, che voleva legittimamente conservare l’integrità dei propri confini, e gli albanesi del Kosovo che pretendevano invece l’indipendenza. Gli Usa, dando ragione ‘a prescindere’ ai kosovari, bombardarono per 72 giorni una grande capitale europea come Belgrado facendo 5.500 morti civili e fra questi c’erano anche 500 di quei kosovari di cui avevano preso le difese. Ma le conseguenze furono più gravi del numero delle vittime. In assenza del ‘gendarme Milosevic’, il quale, checché se ne sia detto e scritto, era un fattore di stabilità dei Balcani, sono concresciute in Kosovo, in Bosnia, in Albania grandi organizzazioni criminali (armi e droga soprattutto) che per fare i loro affari passano in prima battuta per l’Italia. Inoltre l’azzeramento, come potenza, della Serbia, ortodossa, ha favorito la componente islamica dei Balcani dove oggi allignano le più forti basi che l’Isis abbia in Europa.
Nel 2011 iniziò in Siria una rivolta spontanea contro il despota Bashar al-Assad. Doveva essere una questione fra siriani. Invece c’è stato l’intervento americano (la famosa ‘linea rossa’ di Obama) che ha legittimato quello dei russi, dei turchi e di altri macellai della regione. E così siamo arrivati alla catastrofe umanitaria di Aleppo.
Ma c’è una guerra che è realmente ‘dimenticata’: quella all’Afghanistan che dura da più di 15 anni, la più lunga dei tempi moderni. I giornali occidentali e in particolare quelli italiani (ad eccezione di un recente reportage di Pierfrancesco Curzi pubblicato dal Fatto) ne danno notizie sporadiche, striminzite, reticenti. Più che una guerra dimenticata è una guerra rimossa, occultata, una guerra che non esiste, tanto che si nega lo status di rifugiati politici agli afgani che, sempre più numerosi, fuggono dal loro Paese. Ed è rimossa per occultare la vergogna, occidentale e in particolare americana, dell’occupazione del tutto arbitraria di un Paese che dura da tre lustri.
Si poteva sperare che lo strombazzato isolazionismo di Donald Trump oltre che commerciale fosse anche militare. Invece il neopresidente degli Stati Uniti ha deciso di inviare in Afghanistan altri 4.500 uomini convincendo a ritornarvi anche i canadesi che, con gli olandesi, erano stati fra i primi ad andarsene non capendo l’utilità e il senso di quella ‘missione’ (e quando gli olandesi lasciarono Kabul, l’Emirato islamico d’Afghanistan, guidato dal Mullah Omar, con una nota ufficiale ringraziò pubblicamente il governo e la popolazione di quel Paese). Inoltre il ritiro delle truppe NATO e dei suoi alleati che inizialmente era stato previsto per il 2014 è stato procrastinato al 2020 e oltre (una richiesta in questo senso è arrivata anche all’Italia ed è stata subito accettata).
Anche gli inglesi, che pur si sono battuti bene in Helmand, subendo gravi perdite, hanno deciso di rientrare in forze in Afghanistan. Alla recente Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera il ministro della Difesa britannico Michael Fallon ha dichiarato: ”Se era una cosa giusta andare, deve essere altrettanto giusto non lasciare prima che il lavoro sia terminato”. Costoro, la distruzione materiale, economica, sociale, culturale di un Paese e le 200 mila vittime civili provocate dal loro intervento, lo chiamano “lavoro”. Il lavoro del boia.
Senza le basi americane, i bombardieri americani, i droni americani, il governo fantoccio di Ashraf Ghani non resisterebbe più di una settimana ai Talebani. Perché anche il suo esercito, che noi italiani pretendiamo di addestrare, è fantoccio. E’ formato da poveri ragazzi afgani che a causa della disastrosa situazione economica (la disoccupazione è al 40%, all’epoca del governo talebano era all’8%; Kabul ha oggi 5 milioni e mezzo di abitanti, con i Talebani ne aveva un milione) non hanno altra scelta, per guadagnarsi di che vivere, che arruolarsi. Ma appena possono se ne vanno. Ogni anno la metà diserta, l’altra metà, tagiki a parte, non ha nessuna voglia di combattere i propri connazionali. Inoltre nel pletorico esercito ‘regolare’ afgano, che teoricamente conta su quasi 350 mila uomini, ci sono infiltrati talebani che periodicamente aprono il fuoco sugli istruttori stranieri (l’ultimo episodio è del 19 marzo quando un soldato afgano ha ferito almeno tre addestratori americani).
Quando un governo, le forze occupanti, le ambasciate, le ambigue Ong e coloro che vi fanno parte sono costretti a vivere in compound protetti da mura alte sei metri, allineate in tre cerchi concentrici, e non osano mettere il naso fuori se non usando gli elicotteri o ricorrendo ad altre mille precauzioni, vuol dire che sanno di avere contro l’odio della popolazione, anche quella che talebana non è e non è mai stata. Forse Assad, in Siria, ha un appoggio maggiore.
Ma noi continuiamo a restare lì, coperti, oltre che dai muri di cemento, da una vergogna che non si cancella col silenzio. E che ci sopravviverà.
Disabilità | La ghigliottina al Fondo per le politiche sociali
Più o meno 50 milioni di euro? Sembra un gioco, mentre invece stiamo parlando del Fondo per la non autosufficienza, con pesanti ricadute sui servizi per le persone con disabilità molto grave. Tutto è iniziato alla fine dello scorso anno, quando il Comitato “16 novembre” delle persone malate di SLA e altre associazioni hanno organizzato l’ennesimo presidio, chiedendo un aumento di fondi per l’assistenza. Il Ministro Poletti promise uno stanziamento di 50 milioni e il 22 febbraio scorso il governo ha mantenuto l’impegno, approvando un decreto che prevede l’aumento dei fondi (da 450 a 500 milioni di euro).
Il giorno successivo in occasione della Conferenza Stato-Regioni, «per il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica», vale a dire il riequilibrio dei conti pubblici, il budget del Fondo per la non Autosufficienza è stato ridotto a 450 milioni. Pertanto i 50 milioni in più sono svaniti come un sogno in una notte. Le promesse sono state mantenute, ma soltanto per un giorno.
Ma non è questo l’aspetto più grave. Proprio il 23 febbraio, oltre al taglio del 10% dei fondi per la non Autosufficienza, si è deciso che i trasferimenti statali del Fondo nazionale per le Politiche Sociali alle Regioni a Statuto Ordinario verranno ridotti quasi del 70%, passando da 313 a 99 milioni di euro. Di conseguenza, diventerà impossibile dare risposte concrete a molti bisogni quotidiani delle fasce più deboli della popolazione: dal pagamento degli scuolabus per i bambini disabili agli assegni per i buoni libro alle famiglie a basso reddito, dall’assistenza domiciliare alle persone con disabilità ai fondi per i centri antiviolenza, dalle comunità di accoglienza agli asili nido. In questo caso non si può più parlare di tagli: si tratta di vere e proprie amputazioni nella carne viva della vita delle persone.
Non sono mancate le proteste delle Associazioni delle persone con disabilità, del Forum del Terzo settore e di molti rappresentanti dei Comuni e degli Ambiti socio-sanitari. «È un pessimo segnale per il futuro delle politiche sociali in Italia – ha dichiarato Vincenzo Falabella, presidente della Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap (FISH). Un colpo assestato dopo aver fatto balenare l’ipotesi di progettare e costruire livelli essenziali di assistenza in ambito sociale validi in tutto il paese, di definire un Piano per la non autosufficienza, di aprire una stagione in cui l’attenzione all’inclusione sociale fosse significativa e unificante».
«Un atto gravissimo – si legge in una nota del Forum del Terzo Settore – che avrebbe pesanti conseguenze per i cittadini e le famiglie che si trovano in condizioni di forte disagio e che quindi hanno più bisogno del sostegno delle istituzioni. La spesa sociale italiana necessiterebbe di maggiori investimenti per rafforzare le misure di inclusione sociale delle persone svantaggiate, non certo di tagli che minacciano la realizzazione di servizi sociali di base e rappresentano inaccettabili passi indietro».
«Queste politiche sono sbagliate e inopportune – dice Franco Bettoni, presidente della Federazione Associazioni Nazionali Disabili (FAND). <
Il 17 marzo è arrivata la notizia dell’ennesima giravolta. Il Ministro Poletti ha espresso l’intenzione del governo di intervenire per recuperare le risorse da destinare al rafforzamento delle politiche sociali territoriali, mentre il Presidente della Conferenza delle Regioni Stefano Bonaccini ha espresso la volontà delle Regioni di procedere a un recupero delle risorse da destinare alle non autosufficienze. Per il momento si tratta soltanto di annunci, la cui concretezza resta da verificare. Nel frattempo in varie città d’Italia si stanno comunque organizzando presidi e manifestazioni di protesta.
Occorre anche ricordare che il 9 marzo scorso il Senato ha approvato la delega al governo sul «reddito di inclusione» (Rei) come misura contro la povertà, con uno stanziamento di 1.600 milioni per il 2017. Il che dimostra come le politiche sociali in Italia siano altalenanti e contradditorie: con una mano si dà e con l’altra si toglie. Si potrebbe definire una spartizione di risorse tra poveri, poiché la “coperta” risulta sempre troppo corta da qualsiasi lato la si prenda. Manca – evidentemente – una prospettiva più ampia, una visione della solidarietà capace di coniugare i diritti con i doveri dei cittadini. Senza lasciare mai indietro nessuno.
Quando affermiamo che gli interessi sono la causa principale del debito pubblico, la maggior parte dei “cosiddetti esperti economici” sorride cominciando a sciorinare i soliti luoghi comuni: secondo loro le cause principali del debito pubblico sono la corruzione, l’evasione fiscale, la spesa pubblica eccessiva, ecc…
Inutile spiegargli che negli ultimi trent’anni abbiamo speso in Italia per interessi sul Debito Pubblico più di 3.000 miliardi di euro, quindi molto di più del valore che ha raggiunto oggi il debito stesso.
Senza entrare nel merito del significato di “debito pubblico“, concentriamo questa volta la nostra attenzione sul concetto espresso dal termine “interessi”, che vengono comunemente sottovalutati e ritenuti “dovuti” e “giusti” dalla maggior parte di tutti noi, come fossero una qualunque altra rendita da capitale.
Pensate alla situazione per cui le banche private creano il denaro dal nulla attraverso i prestiti, ma utilizzando i Titoli di Stato come garanzia, per poi prestare questo denaro allo Stato facendosi pagare interessi.
Sostanzialmente quindi è lo Stato che, con l’emissione dei suoi Titoli di Stato, permette alle banche private di creare denaro dal nulla, pagando però un interesse altissimo proprio a loro per la cessione di questo “servizio”; se lo Stato avesse una propria Banca Pubblica o creasse il denaro invece di prenderlo in prestito, non avrebbe alcun costo !
Considerato che il debito pubblico produce interessi composti che si moltiplicano da anni, oggi vi racconto una storiella che illustra qual è l’impatto che un debito ed un interesse hanno quando sono calcolati su un numero di anni “consistente”.
Un debito della Madonna
Siamo in Medio Oriente: nell’Anno Zero la Vergine Maria, dovendo affrontare la precipitosa fuga in Egitto per sfuggire alla strage degli innocenti ordinata da Erode, chiede in prestito 1 (una) sola Moneta d’Oro da 5 grammi ad un amico Mercante, stabilendo con lui un tasso vantaggiosissimo pari a solo il 4% all’anno.
Purtroppo però, la madre di Gesù si dimentica di questo prestito per più di duemila anni …
Nell’anno del Signore 2017, la Madonna si rammenta improvvisamente di questo debito ancora pendente. Manda l’Arcangelo Gabriele a cercare l’anima di quel Mercante, lo convoca e gli dice accorata: “Caro amico Mercante, mi dispiace tanto di essermi dimenticata della tua generosità per oltre duemila anni, ma voglio saldare il mio debito, generato da quella Moneta d’Oro che mi hai prestato ! Mi puoi fare per cortesia il calcolo di quanto ti devo oggi ?”
L’anima del Mercante, colma di gratitudine, le risponde: “Santissima Vergine Maria, purtroppo il debito, a causa degli interessi, è cresciuto molto e non sono sicuro lei sarà in grado di saldarlo…“.
La Madonna meravigliata e un pò offesa: “Come può affermare una cosa del genere ! Mio figlio è il Creatore dell’Universo per cui non sarà assolutamente un problema restituirle il debito in oro.”
Il Mercante, ben consapevole della dimensione del debito accumulato, prova a spiegare: “Bene, allora le faccio il calcolo … Lei ha presente il Pianeta Terra? Ha un volume di circa 1,08×1021 metri cubi; se fosse completamente d’oro massiccio peserebbe circa 2,09×1025 Kg. …”
Preoccupata e decisamente sorpresa, la Madonna interrompe l’amico Mercante : “Ma come ! Il debito accumulato è un pianeta come la Terra d’oro massiccio ?!?”
“Certamente no !” dice subito il Mercante. “Per saldare interamente il suo debito, di pianeti d’oro, grandi come la Terra, ce ne vogliono più di 5 milioni !!!“.
(ndr per il calcolo esatto rimando alla nota (1) in fondo all’articolo)
La Moneta a Debito
L’utilizzo di una moneta a debito provoca negli anni un costo per interessi enorme, che non può essere saldato neanche dal Padreterno in persona, inutile illuderci.
Oggi il 99,7% di tutto il denaro che usiamo in Italia, è creato e prestato dal sistema bancario, per cui paghiamo continuamente interessi da moltissimi anni, spesso ben più del 4% applicato alla Vergine Maria.
I cittadini, le aziende e lo Stato non possono seguitare a pagare interessi per una moneta creata e prestata dal sistema bancario, soprattutto perchè è lo Stato il titolare della sovranità monetaria e siamo tutti noi a dare valore al denaro con la nostra accettazione.
Se vogliamo parlare di cose serie, venite tutti a trovarci il 29 aprile 2017 a Modena.
Parleranno oltre a me, grandi esperti come Nino Galloni, Giovanni Zibordi e Marco Cattaneo, oltre ad un sempre più straordinario Povia che canterà i suoi ultimi successi.
(1) Per gli amanti della matematica illustro il calcolo esatto che porta a questo risultato apparentemente assurdo.
Se il volume del Pianeta Terra (PT) è di circa 1,08×1021 mc, visto che l’oro ha un peso specifico di 19.300 Kg/mc, se fosse completamente d’oro massiccio peserebbe circa :
PT = (1,08×1021mc) x 19.300 Kg/mc = 2,09×1025 Kg = 2,09×1028 gr (grammi d’oro)
Una moneta d’oro da 5 grammi, prestata per 2017 anni al tasso d’interesse composto su base annua del 4%, provoca un Debito Complessivo (DC) pari a :
DC = 5 x (1+0,04)2017 = 1,13×1035 gr (grammi d’oro).
Quindi dividendo il Debito Complessivo per il peso di un Pianeta Terra si ottiene il Numero di Pianeti Terra (NPT) necessari a saldare il Debito Complessivo :
NPT = DC / PT = (1,13×1035gr) / (2,09×1028gr) = 5.431.820 Pianeti Terra d’oro massiccio
Secondo Adapt, il centro studi fondato da Marco Biagi scompariranno mansioni impiegatizie come lo sportellista bancario, il contabile, l’amministrativo generico, la segretaria, il correttore di bozze, ma anche attività manuali come l’operaio generico (quantomeno nei Paesi occidentali), il piccolo artigiano che non lavora sulla qualità, la cassiera, il manutentore; avanzeranno nuovi mestieri come il nanomedico, l’agricoltore 4.0 (capace di governare produzioni agricole automatizzate), il genetista, il consulente per l’invecchiamento attivo, l’esperto di cambiamenti climatici, il personal brander, l’assistente sociale in ambito digitale, l’analista di big data.
In aumento anche le attività di cura e assistenza alla persona: badantato e babysitting professionale, infermieri specializzati nella cura degli anziani, maggiordomi aziendali, nuovi servizi di pulizia ed igiene, addetti alla raccolta differenziata dei rifiuti.
Adaptè il darwiniano nome di un ente fondato da un signore che purtroppo ha incontrato problemi evolutivi, ma di cui apprezziamo comunque l’intento, che era quella di farci sentire a nostro agio con il futuro.
Soffermiamoci un attimo sul concetto di futuro.
Una volta il futuro si riassumeva nella frase, di doman non c’ècertezza.
Oggi no.
Tutti possiamo votare per il futuro che vogliamo.
Tutti abbiamo i diritti di fare le scelte più razionali possibili, e la scienza economica dimostra senza ombra di dubbio che le nostre scelte sono appunto razionali e giuste, sempre.
Abbiamo milioni e milioni di esperti che finalmente permettono all’intera umanità di vivere bene, perché sanno cose che nessuno prima sapeva.
Quindi, non è un futuro di quelli che piovono in testa. E’ un futuro che l’umanità finalmente emancipata dall’ignoranza, dalla natura, dalla superstizione, dalla miseria, si sta votando e comprando in piena coscienza.
Ora, cosa potremo fare nel futuro che ci siamo fatti da noi?
Il nanomedico, e va bene.
L’agricoltore 4.0 (ci siamo persi il 3.0, ma in fondo i rottami della storia non sono interessanti) che gestisce duecento campi dalla tastiera, insomma un altro computeraro.
Poi nella lista ci sono altri computerari che hanno come principale obiettivo ridurre il numero complessivo dei computerari.
Per chi non avesse la vocazione del computeraro-eliminacomputerari, restano queste scelte:
“il consulente per l’invecchiamento attivo, l’esperto di cambiamenti climatici, il personal brander, l’assistente sociale in ambito digitale.”
Rileggete bene e pensate, seriamente, cosa significa ciascuno.
Mi soffermo solo un secondo sull’assistente sociale in ambito digitale, quarantenne alla caccia perenne di bandi per poter spiegare nelle scuole che non è civile scrivere parolacce su Facebook e invitare i ragazzi invece a disegnare su un foglio come immaginerebbero una tastiera felice.
Tolti questi due mestieri (il computeraro variamente declinato e il venditore di fuffa), restano i mestieriseri, tipo badante, spazzino, tata e per i più fortunati, maggiordomo aziendale.
Quest’ultimo è il mestiere più interessante.
I soci della multinazionale X comprano a carissimo prezzo il signor Y, che promette di trovare il modo di far guadagnare tantissimi miliardi ai soci della X.
In cambio dei tantissimi milioni che intascherà, il signor Y deve rinunciare ad avere una vita umana degna di essere vissuta, e quindi la ditta X gli offre una sorta di Omino Tuttofare che campa al posto suo.
L’Omino Tuttofare gli risponde al telefono, gli prepara il caffè, gli paga le bollette e gli sorride. Ma soprattutto è pagato dai soci della X per controllare dalla mattina alla sera quello che fa Y, perché si sa che è prassi dei migliori manager scappare con la cassa e passare al nemico.
Qui possiamo vedere un esempio di ditta che vende Omini Tuttofare.
Sullo sfondo vediamo una felice famigliola di manager che osservano i ghiacchi dell’Artico che si stanno sciogliendo e i pesci morti portati riva, mentre portano teneramente a spasso i loro futuri consulenti per l’invecchiamento attivo.
E sotto, vedete cosa succede in un mondo in cui non ci sono più correttori di bozze: