giovedì 25 agosto 2016

"FEROCIA FASCISTA LO COLSE". MA LO UCCISERO I PARTIGIANI

 
L'ALTRA FACCIA DELLA RESISTENZA: RIPORTIAMO FEDELMENTE UN ARTICOLO
CHE EVIDENZIA UNO DEI TANTI  LATI OSCURI DELLE "RADIOSE GIORNATE "
 
 
LA TRISTE VICENDA DI FRANCO PASSARELLA
CROCEFISSO E UCCISO DAI PARTIGIANI  
 
"Per quasi settant’anni, sulla lapide posta sul palazzo INCIS, dove abitava, si poteva leggere il seguente epitaffio: “Alla libertà offrendo il proprio martirio Franco Passarella partì da questa casa il 19/VI/1944. La ferocia fascista lo colse. Venezia 25/X/1925 Valle Camonica 25/VI/1944”.
Al cimitero di Vissone di Pian Camuno invece si poteva leggere su una stele “Franco Passarella vissuto per la libertà ribelle a lusinghe vili qui cadde massacrato da orde fasciste.
Ave Franco il Signore è teco tu sei benedetto fra tutti i martiri e gli eroi – nato a Venezia il 25/X/1925 immolato il 25/VI/1944”.
Solo nel giugno 2013 vennero rimosse le frasi che attribuivano l’omicidio ai fascisti."
 



A conti fatti

di Guido Assoni
La triste vicenda di Franco Passarella, un giovane che voleva combattere per la libertà e che fu spietatamente ucciso dal “fuoco amico”
 
Quando ho cominciato ad interessarmi del caso dello studente Franco Passarella non pensavo affatto di trovarmi di fronte a innumerevoli e contraddittorie versioni più o meno compiacenti e tese a coprire i responsabili di un tragico episodio della Resistenza bresciana.
Occultamenti, mistificazioni, silenzi, depistaggi, clima di omertà, ipocrisie, reticenze e manipolazioni, che non rendono un buon servizio alla storia.

Oltre a ripristinare la verità storica è doveroso rammentare i valori e gli ideali che hanno spinto questo studente a fare una scelta coraggiosa e che, purtroppo, gli costò la vita a soli diciott’anni.
Come tra l’altro è giusto non mettere in discussione i valori della Resistenza seppur di fronte ad un episodio indubbiamente grave, ma non a tal punto da considerarlo alla stregua di una strategia comportamentale.

La ricostruzione della vicenda che vi propongo è la più attendibile ed è la miscellanea di un grande lavoro documentaristico dello storico camuno Mimmo Franzinelli, di alcune testimonianze raccolte dalla sorella e dagli amici d’infanzia dello sventurato giovane ed i contributi di storici affermati quali Pier Luigi Fanetti, Lodovico Galli, Don Bruno Bertoli, Rolando Anni, Pieluigi Piotti e altri ancora.

Dobbiamo incominciare da Venezia, dove lo studente Franco Passarella nasce il 25/10/1925 e vi trascorre l’infanzia.
Il padre, Ottorino, scrittore, cronista del “Gazzettino di Venezia” è un fervente antifascista legato dagli anni trenta al gruppo di “Giustizia e Libertà”, movimento politico liberal-socialista fondato a Parigi nell'agosto del 1929 da un gruppo di esuli contrari al regime.
La madre, Carolina Sartorelli, è una studiosa di filosofia e di pedagogia.
La sorella Laura di due anni più giovane è anch’ella studente.

Nel 1941 la famiglia si trasferisce a Brescia prendendo alloggio al palazzo INCIS (Istituto Nazionale Case Impiegati Statali) in Piazza Vittorio Veneto, zona, allora, molto periferica della città.
A Brescia, il padre, che sarà uno dei fondatori del Comitato di Liberazione Nazionale bresciano, insegna storia dell’arte al liceo Arnaldo e, in veste di critico d’arte, scrive sul quotidiano “Il popolo di Brescia”, mentre la madre è docente di storia e di filosofia al liceo Calini.

La frequentazione dell’Oratorio della Pace dei padri filippini e l’influsso dei genitori gli fanno maturare una chiara coscienza antifascista, voglia di libertà ed un istintivo impulso a difesa del debole contro qualsiasi forma di sopraffazione.
Stringe amicizia con due compagni di studi del liceo Arnaldo: Cesare Trebeschi, futuro sindaco di Brescia nel decennio 1975/1985 e Augusto Paganuzzi che sarà medico endocrinologo.
Con quest’ultimo attua velleitarie e rischiosissime forme di sabotaggio ai camion tedeschi come svitarne i tappi delle coppe dell’olio, tagliarne le cinghie di trasmissione, inserire tavolette chiodate sotto le ruote posteriori e poi ancora scombinare la segnaletica stradale, tentare ma senza riuscirci di avvelenare i cavalli dei nazisti e via discorrendo.

Si adopra anche per la diffusione di stampa clandestina, tra cui “Il Ribelle”, il giornale saltuariamente stampato dalle Fiamme Verdi, alle scritte sui muri e allo smistamento del materiale da un gruppo all’altro.
Conclusi gli studi liceali e conseguita la maturità classica, sceglie, per amore della libertà e della sua patria, di unirsi alle formazioni partigiane operanti in Val Trompia.

Accompagnato a Gardone Val Trompia dalla madre e dalla sorella fin sulla mulattiera dalla quale si diparte il sentiero che si inerpica sul monte Guglielmo, questo aitante diciottenne, alto, biondo e con gli occhi azzurri, ben equipaggiato con scarponi e sahariana nuovi di zecca, uno zaino preparato dalle due donne e la pistola del padre, ufficiale nella prima guerra mondiale, ascende alla montagna, incontro al suo fatale destino.

Siamo al giorno 19 giugno 1944.
Finisce in un gruppo ancora in formazione, dislocato in varie cascine, male armato e dove regna una grande confusione.
Non bastasse questo, dopo pochi giorni la formazione viene intercettata da un massiccio rastrellamento di militi fascisti messi in moto dalla solita delazione.
E’ una carneficina.
Sette di loro vengono uccisi sul posto (sul Monte Muffetto e sul Bassinale), un numero imprecisato viene catturato e quindi deportato in campi di concentramento in Germania.

La formazione si disperde e Franco Passarella vaga per i monti con l’intento di tornare in città.
Rifocillato da alcuni contadini, bussa alla porta della cappellania di Fraine di Pisogne, ma il parroco Don Andrea Boldini, duramente provato da otto mesi di duro carcere fascista, terrorizzato, non gli presta aiuto se non per fornirgli ago e filo per rammendarsi i calzoni.

Si rivolge quindi al parroco di Vissone, frazione di Pian Camuno, Don Giuseppe Bonetti, il quale vedendo questo giovane alto, biondo, dagli occhi azzurri e che non sa parlare in dialetto, lo considera una spia tedesca e mette in guardia le formazioni partigiane con cui è in contatto.
Mentre cerca riparo nei boschi, ha la sventura di imbattersi in un gruppetto di quattro Fiamme Verdi guidate da tale Bruno Pè, alle dipendenze del distaccamento C 14 ed allertate dallo stesso parroco di Vissone.

Non conoscendo la parola d’ordine, appena scampato dalla retata fascista, impaurito dalle notti trascorse da solo nei boschi e dai metodi coercitivi dei suoi aguzzini, viene sospettato di spionaggio e dopo estenuanti interrogatori e sevizie, viene crocifisso ad un castagno e ucciso, vicino a Solato di Pian d’Artogne, con un colpo di pistola sotto il mento il 25 giugno 1944.
A guerra finita la famiglia, ignara della tragedia, aspetta invano il rientro del figlio.

Addirittura i genitori lo iscrivono alla facoltà di ingegneria per non fargli perdere l’anno.
La madre, con la forza della disperazione lo cerca ovunque, si aggira giorno e notte per la stazione di Brescia con le fotografie del figlio da mostrare ai reduci dall’internamento nei campi di concentramento germanici.

Solo due anni dopo, nella primavera del 1946, il cappellano padre Luigi Rinaldini dell’“Oratorio della Pace”, viene a sapere che il parroco di Vissone, Don Giuseppe Bonetti, è in possesso di una edizione mignon della Divina Commedia e del portafoglio appartenuti a Franco Passarella.
Sempre tramite Don Bonetti viene a conoscenza del luogo dove è stato celato il corpo dello sfortunato ragazzo, nella località denominata “Carolècc del Curato” di Solato, sul bordo del torrente in mezzo ai rovi e sommariamente coperto da sassi e foglie di robinia e castagno.
Ai funerali, solennemente celebrati al Duomo di Brescia il 21 dicembre 1946, sfilano le Fiamme Verdi con le loro bandiere, ma nessuno cerca la verità.

E’ fuori discussione che molte responsabilità siano da ascrivere al parroco di Vissone, notoriamente in costante contatto con il movimento partigiano.
Perché trattenne due anni e mezzo il portafoglio e non abbia sentito il bisogno ed il dovere di informare i famigliari di quanto fosse accaduto?
Ricordiamo che la madre non si riprenderà più da un grave stato di depressione che la distrusse giorno dopo giorno, mentre il padre, pur continuando l’insegnamento, si chiuderà in se stesso fino alla fine dei suoi giorni.

Come entrò in possesso degli effetti personali di Franco Passarella?
E’ da escludere che i quattro aguzzini che si divisero la giacca a vento, il maglione di lana, gli scarponi e l’orologio che la vittima aveva al polso, abbiano avuto l’accortezza di consegnare il portafoglio e quant’altro al parroco.

Molto più probabile l’ipotesi che il ragazzo ormai consapevole della sua sorte, tra percosse ed interrogazioni, abbia chiesto i conforti religiosi ed in quell’occasione abbia egli stesso consegnato al prete i suoi effetti personali con preghiera di farli avere ai genitori.
Pur concedendo tutte le attenuanti possibili e riconoscendo anche il clima che si respirava allora, mi è difficile comprendere l’atteggiamento del parroco, tra l’altro in possesso del portafoglio contenente la carta d’identità del ragazzo e la fotografia della sorella.
Non poteva chiedere informazioni attraverso i contatti che le formazioni partigiane avevano in città? Il padre non era affatto uno sconosciuto e probabilmente si sarebbe potuto evitare il tragico epilogo.

E’ vero che furono anni terribili che provocarono quegli effetti propri di una guerra civile, durante la quale venne meno la fiducia anche tra persone che si conoscevano, ma qui siamo di fronte ad uno spietato ed efferato crimine in cui venne dato sfogo ai più turpi istinti sanguinari.
Parlare di tragico errore, di sbaglio, di equivoco, di circostanze sfavorevoli, sembra fin troppo riduttivo.

Come accennavo nelle premesse, è stato vergognoso il clima di omertà alimentato da versioni inattendibili per impedire a lungo l’accertamento della verità.
Si è tentato di ribaltare la dinamica dei fatti attribuendo il delitto ad una rappresaglia fascista.

Per quasi settant’anni, sulla lapide posta sul palazzo INCIS, dove abitava, si poteva leggere il seguente epitaffio: “Alla libertà offrendo il proprio martirio Franco Passarella partì da questa casa il 19/VI/1944. La ferocia fascista lo colse. Venezia 25/X/1925 Valle Camonica 25/VI/1944”.

Al cimitero di Vissone di Pian Camuno invece si poteva leggere su una stele “Franco Passarella vissuto per la libertà ribelle a lusinghe vili qui cadde massacrato da orde fasciste.
Ave Franco il Signore è teco tu sei benedetto fra tutti i martiri e gli eroi – nato a Venezia il 25/X/1925 immolato il 25/VI/1944”.

Solo nel giugno 2013 vennero rimosse le frasi che attribuivano l’omicidio ai fascisti.

Nel 1995, in occasione del 50° anniversario della Liberazione si è svolto a Venezia un incontro di studio organizzato dallo Studium Cattolico Veneziano diretto dal compianto don Bruno Bertoli.
Nei contributi presentati in quella circostanza e raccolti in un volume dal titolo “La Resistenza e i cattolici veneziani”, è da segnalare il saggio dello stesso don Bertoli “La vicenda doppiamente tragica di Franco Passarella”.

Lo storico veneziano per documentare la sua analisi si rivolse all’Archivio di Stato di Brescia e all’Istituto Storico della Resistenza Bresciana senza avere i riscontri sperati.
Scrive Don Bertoli a proposito degli ultimi giorni di Franco Passarella: “Nel giro di una settimana vi trovò la morte, una morte doppiamente tragica e a lungo velata”.

E ancora: “L’amara vicenda venne taciuta dalla pubblicistica relativa alla Resistenza.
Certi resoconti sulla lotta nel bresciano, ignorano anche il nome di Passarella”.

Infine conclude amaramente con parole forti : “A oltre mezzo secolo da quegli eventi, si scopre oggi che la reticenza e la manipolazione dei fatti furono programmate ad appena un mese dalla morte del Passarella per una sorta di partigiana “Ragion di Stato”.

Romolo Ragnoli, comandante delle Fiamme Verdi camune, nel suo libro “I caduti per la Resistenza in Val Camonica” così si esprime in merito alla vicenda che stiamo trattando: “Ricercato dai nazifascisti, veniva catturato in uniforme fascista dai partigiani e passato per le armi da questi, non essendo stato in grado di convincerli di non essere una spia”.

Naturalmente è una balla gaudiosa quella che indossasse la divisa fascista, un estremo tentativo del generale della Repubblica Italiana di salvare la reputazione delle Fiamme Verdi ammettendo l’omicidio da parte partigiana, ma facendo cadere la responsabilità del crimine sulla vittima.

In un altro documento reperibile all’Istituto Storico della Resistenza bresciana
, sempre a firma del Comandante Romolo Ragnoli, si legge: “Per il cadavere trovato, sarebbe buona cosa seppellirlo facendo una relazione tipo le precedenti.
Ferito dai nostri, nel correre ha battuto la testa contro una pietra e si è ucciso. Poveretto!”.
Uno sproloquio che non merita alcun commento.

Vorrei riportare un estratto di una poesia dell’Avv. Pigi Piotti, vicino al mondo resistenziale, dal titolo “Alla Vostra domanda” e inserita nella sua raccolta “A conti fatti”:

Un giorno alla vostra domanda
“Papà, chi erano i partigiani?”
vi stringerò più forte la mano,
 e forse,
se già non sia mutato il discorso,
attenderete invano una risposta.
….
Un uomo vale più delle sue scarpe.
Alto, biondo, sereno,
la giacca a vento e gli scarponi nuovi
tu, così diverso,
in quel tempo dell’odio e delle spie.
Si affacciava il mattino in mezzo al bosco.
Torve facce scure
t’imposero di dire la verità
pena la fossa
che ti saresti scavato.
Farfugliasti di un certo zio fascista,
pezzo grosso in città,
che avevi lasciato
per andare coi partigiani,
e ti illudevi, povero ragazzo,
di prender tempo dietro quel dilemma.
Come il sapore della mela
la verità non sta nel frutto
ma nel palato che la intende.
Torve facce scure
andavano in fretta.
Per non sbagliare
si presero la giacca, gli stivali,
insieme all’essenziale verità
dei tuoi diciott’anni.

Concludo con uno struggente brano, tratto dal libro di novelle “Il cavallo nero”, scritto da Ottorino Passarella e dedicato alla memoria del figlio: “La morte. Che significa? Fine. Fine di me, del popolo, dell’umanità, del mondo. Allora che vale? Ma vale per te, figlio mio.
Il capo dei tuoi aguzzini si chiama Pè: meno di una suola di ciabatta. Pè, t’inchiodò contro una pietra d’infamia…
Ti assassinarono, e si divisero le vesti, come con Cristo. Chi si tenne le scarpe, il maglione di lana… una conquista, in quei tempi!...
Ma poi ebbero paura di te, morto, disteso nell’intrico dei rovi, nudo, il volto luminoso quanto il cielo che ti guardava. Ti nascosero in fondo al baratro selvaggio, tra gli spini e fuggirono.
Alla fine pretendevano diventare eroi, i vili…Ma fu bene quel tuo giacere presso l’acqua vergine che scorreva, commentando ai sassi.
Essi camminavano lontano: eri divenuto più forte e bello che da vivo. E ti distruggesti come carne: volesti essere soltanto spirito.
Puro eri stato. Via la materia. Creatura mia, posso io, così miserabile, essere tuo padre? Gli angeli non restano sulla terra.”

Guido Assoni

Bibliografia
“Una mattina mi son svegliato” – Mimmo Franzinelli/Andrea Ventura
“La Resistenza e i cattolici veneziani “ a cura di Bruno Bertoli – Studium Cattolico Veneziano
“Fatti e misfatti prima, durante e dopo la Repubblica Sociale Italiana” – Lodovico Galli
“Dizionario della Resistenza Bresciana” – Rolando Anni
“I caduti per la Resistenza in Valcamonica” – Romolo Ragnoli
“Camuni” – Ugo Calzoni
“Il mio amico Franco” – Augusto Paganuzzi
“Il cavallo nero” – Ottorino Passarella
“A conti fatti” – Pierluigi Piotti




 
 

martedì 23 agosto 2016

24 AGOSTO 1943: ONORE ALL' EROE ETTORE MUTI

 
 
GIM DAGLI OCCHI VERDI
 
Così lo soprannominò D’annunzio che coniò per lui altri suggestivi nomignoli come “Ettore da Ravenna” e il “Corsaro”
 
Ettore Muti è l’ultimo eroe italiano e in una nazione in crisi di ideali, anche il ricordo di un eroe può aiutare a crescere. Vorrei ricordare, nei giorni in cui ricorre l’anniversario del suo, ancora oggi, misterioso assassinio, il “fascista tra i fascisti”, come recita una vecchia canzone.
 Ettore Muti, è stato volutamente dimenticato, obliato dai libri di storia nelle scuole, perché fascista e dunque è impossibile, per la dominante cultura di sinistra, rappresentarlo come valore positivo ai giovani studenti.
Vorrei ricordarne non tanto la vita, le eroiche gesta, che ne fecero il soldato più decorato e amato d’Italia, per quello basta leggere una buona biografia e vi si troveranno elencate tutte le sue imprese, le gesta di enorme coraggio, indubbiamente, meglio di come potrei fare io.
Vorrei soltanto portare all’attenzione di chi leggerà, proprio come si fa a un funerale o a una commemorazione, simpatici aneddoti, episodi lieti della sua breve ma intensa vita, raccolti spulciando fra gli innumerevoli libri a lui dedicati, allo scopo di strappare un sorriso in sua memoria. Ne parlerò come farebbe una ragazza “innamorata” che pur avendolo conosciuto solo fra le righe di qualche volume dimenticato in soffitta, per l’aura romantica che lo circondava e per la sua tragica fine nel pieno della vita, leggendo dei suoi modi e guardando i suoi occhi in una fotografia ingiallita dal tempo, ha avvertito aumentare il battito del cuore.
Ettore Muti era un romagnolo sanguigno, impetuoso, dal carattere spavaldo, con il gusto dell’avventura e con grinta tenace. Un bellissimo uomo, dalla muscolatura forte e prestante, spalle larghe e viso aperto. Sguardo dolce e da duro, al tempo stesso, che esprimeva sicurezza. Energico, cordiale e, a detta di tutti, brillante e simpatico, amante degli scherzi, anticonformista, scanzonato e sempre un po’abbronzato.
Insomma aveva tutte le caratteristiche giuste per piacere alle donne e non solo. Che fosse un grande amatore, è risaputo, ma c’è un episodio che lo delinea come sopra descritto. Quando era al comando della Legione Portuale di Trieste, successe che un giovane principe orientale, di dichiarata fama omosessuale, affascinato dalla prorompente fisicità di Muti, tentò delle avances che, ovviamente, furono respinte in modo manesco, con qualche cazzotto di troppo. Ne nacque un incidente diplomatico, presto messo a tacere, ma pare che il Duce in persona provasse a redarguirlo e alla fine sbottò dicendo: ”Insomma Muti come mai a me queste cose non succedono?” allora lui, che era sì attaccato a Mussolini, ma senza piaggeria e osava parlargli con confidenza, seppur sempre usando il dovuto rispetto gli rispose “ma Vò an se mega un bel oman come me!” (ma Voi non siete mica un bell’uomo come me!).
Muti era fatto così, genuinamente sincero e spontaneo tanto da togliere la parola di bocca anche al Duce in persona o, come successe in un’altra occasione alla principessa Maria José di Savoia. La futura “regina di maggio” gli si era offerta come madrina di guerra e lui, aveva subito accettato. A Roma, mentre in una suggestiva cerimonia stava ricevendo dalle sue mani un mazzo di fiori, si accorse che erano avvolti in una carta appuntata con uno spillo, allora la fermò spiegando che lo spillo “porta sfortuna” e dunque vedendo la sorpresa della principessa che non conosceva tale superstizione, aggiunse che avrebbe dovuto pungerla leggermente per scongiurare il sortilegio. Maria Josè accetto di buon grado, e sorridendo si lasciò pungere il dito. In seguito con i suoi soliti scanzonati modi, un po’da guascone, raccontando l’episodio, ebbe a dire allegramente “Ohi anche la principessa ho trafitto!”.
Muti era amato e rispettato da tutti gli Italiani proprio per la sua sincerità oltre che per il suo innegabile valore. Il 25 luglio del 1943, il giorno del tradimento e dell’arresto di Mussolini, si trovava a Roma, reduce da una missione in terra di Spagna. Era in piazza Barberini, mentre tutto intorno la folla iniziava ad abbattere le insegne, a incendiare i circoli e a malmenare i gerarchi. Lui, per niente intimorito, continuò i suoi normali spostamenti e, al contrario, il suo passaggio venne calorosamente applaudito da tutti. La gente conosceva le sue gesta, il suo valore e sapeva anche che era sì un gerarca, ma del tutto particolare, mai tronfio e mai megalomane, anticonformista e combattente coraggioso. A lui fu consentito in tempi difficili per tutti i fascisti, farsi vedere in giro, in divisa a passeggio per Via Veneto, senza che nessuno osasse lanciargli improperi o tentasse di colpirlo. Insomma era un personaggio rispettato e amato. “Con Muti si va anche all’inferno” dicevano di lui i fanti in Spagna, dimostrando quanta fede e quanto ardore, riusciva a trasmettere alla truppa.
Ma anche a casa era un grande trascinatore. Generoso, “compagnone”, alla sua mensa invitava sempre amici. Da buon romagnolo autentico, sapeva essere ospitale e il suo desco era un porto di mare per allegre brigate. Non amava prendersi sul serio in qualunque cosa facesse, pur dando sempre il meglio. Quando fu nominato presidente del PNF, raccontava la madre, mandò un telegramma all’amico federale di Ravenna: “Ven cun de pèn rumagnol e cun di grasul..” (Vieni con del pane romagnolo e con dei ciccioli, che sono un tipo di affettato tipico di queste zone).
Come detto, però non fu soltanto, spregiudicato, sprezzante e senza scrupoli. Al contrario dimostrò valore, serietà e merito nel corso del suo mandato. Si racconta che spesso durante le sue frequenti, improvvise ispezioni alle sedi Littorie, non mancasse ove necessario, di ammonire malamente i gerarchi che fossero meritevoli di essere ripresi e redarguiti. Fece condurre inchieste sulle malversazioni, (quanto servirebbero oggi persone così) anche sull’Opera Nazionale del Dopolavoro, mise al loro posto gerarchi e sottoposti, e si dice di lui che “non voleva feste e applausi”, ma gli piaceva “pulire gli angolini”.
Vorrei concludere sperando di essere riuscita a far trasparire il quadro che mi sono fatta io dell’uomo e dell’eroe. Un uomo d’azione, coraggioso, sincero, imprevedibile, e incapace di tattiche da corridoio. Ignorava la diplomazia e all’occorrenza preferiva sbrigarsela con due sberle più che con piani tattici e infide trame. Non gli piaceva farsi pestare i piedi e mai lasciò che lo facessero, senza però comportarsi da despota tiranno con nessuno. Non voglio ricordarlo, come ultima immagine, riverso sul terreno della pineta di Fregene, il 24 agosto del 1943, ucciso da un colpo alla nuca sparato da mano vigliacca e assassina, ma mi piace ricordarlo vivo, come sarà sempre, nella buia sala di un cinema, dove amava andare da solo a vedere John Wayne, o a correre senza freni con la sua Bugatti, o ancora a compiere imprese mirabolanti con l’aereo sui cieli di Spagna (irripetibile Stradivario lo definì Italo Balbo) e a fare complimenti a una bella donna, come in quell’occasione in cui un’avvenente signora, con abito audacemente scollato, gli si rivolse guardando le molte medaglie che gli brillavano sulla divisa dicendo: “Fatemi ammirare questo petto” e lui “Guardate pure, signora, l’ammirazione è reciproca”.
Franca Poli


SACCO E VANZETTI ... E MUSSOLINI

Il 23 agosto 1927 alle ore 00:19 i due anarchici italiani
Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti,-innocenti !- 
furono assassinati sulla sedia elettrica a Charlestown, Stati Uniti
 
 
 
IL DUCE CHIESE LA GRAZIA PER SACCO E VANZETTI
 
Quando si parla di Mussolini le posizioni sono quasi sempre radicali: o dalla sua parte o contro, ma anche se la notizia non è certo recentissima, vala la pena ricordare l'impegno del Duce nel caso Sacco e Vanzetti. La storia dei due anarchici condannati ingiustamente e poi giustiziati il 23 Agosto 1927 nonostante non ci fossero prove a loro carico è nota a tutti, questa vicenda fece il giro del mondo e vide l'impegno anche di grandi nomi per la loro salvezza, nomi illustri come Albert Einstein o Anatole France ed è stata di ispirazione per registi e cantanti.
 Quello che è meno noto è l'impegno che Benito Mussolini mise per ottenere la loro grazia dal governo americano.
A rivelare questo inconsueto aspetto del personaggio Mussolini è stato Philip Cannistraro, uno dei più celebri studiosi americani del Fascismo che ha pubblicato le sue ricerche sulla rivista "Journal of Modern History". Cannistraro, frugando negli archivi del Ministero degli Esteri italiano ed in particolare tra i documenti pervenuti dall'Ambasciata italiana di Washington, riportò alla luce due documenti, scritti da Mussolini in persona, dove si chiedeva una revisione del processo a carico dei due anarchici Sacco e Vanzetti: il primo che risale al 1923, in forma riservata, in quanto lo stesso Mussolini riteneva che il processo fosse stato condotto in maniera "pregiudizievole", il secondo indirizzato al governatore del Massachusetts, Alvan Fuller, nei primi dell'agosto del 1927, a un mese dall'esecuzione.



Nelle motivazioni di questa seconda lettera Musssolini chiede che ai due anarchici venga concessa la grazia per evitare che la morte di Sacco e Vanzetti, potesse trasformarli in martiri della sinistra e per dimostrare come la democrazia americana si discostasse nettamente dai metodi bolscevichi.
Durante quel periodo Mussolini ebbe una regolare corrispondenza con l'ambasciatore italiano a Washington, Giacomo De Martino, e con il console generale a Boston affinché facessero pressione anche su Calvin Coolidge, l'allora presidente degli Stati Uniti.
Anche se la cosa è poco nota Mussolini nutriva una grande simpatia per gli anarchici: li riteneva uomini "di fegato", cosa raccontata tra l'altro in un libro di Armando Borghi, libertario di spicco negli ambienti romagnoli: "Mezzo secolo di anarchia" dove lo stesso Borghi racconta dei rapporti amichevoli che Mussolini ebbe con il movimento anarchico italiano prima di diventare direttore dell'Avanti e prima di intraprendere la sua carriera politica.
 

DELLE CHIAIE: IL NOSTRO ISLAM NON E' L'INTEGRALISMO

Stefano Delle Chiaie e Giuseppe Parente
(G.p) Un'intervista a tutto campo quella che mi ha concesso Stefano Delle Chiaie, tra passato e futuro. Con importanti spunti di riflessione e un annuncio importante: il suo impegno attuale alla stesura di un nuovo volume che, dopo l'autobiografia dell'Aquila e il Condor, racconti la storia collettiva di Avanguardia nazionale, il movimento nazional-rivoluzionario capace ancora oggi di infiammare i cuori dei militanti e di suscitare l'odio di certo antifascismo rancoroso...
 
Quali sono le linee guida sul fronte geopolitico per il militante nazional-rivoluzionario?

In questo momento storico il nostro principale avversario è la globalizzazione. Chiunque appoggi e faciliti questa strategia di potere deve essere considerato dall'altra parte della barricata. Qualsiasi alleanza che possa rallentare questo processo va considerata e sostenuta, dall'intesa con la Russia in Europa e alla collaborazione con i gruppi che nell'America Latina e nell'Africa resistono al piano tecnico finanziario.

Solidarietà all'Islam e lotta all'immigrazione come trovare un punto di equilibrio?

Su questo punto bisogna essere chiari per non cadere nella pretestuosa accusa di razzismo. Non sono contro gli immigrati, ma contro chi provoca le condizioni per le immigrazioni, allo scopo di imporre un mondo senza differenze e globalizzato. 
Sono contro questa strategia che persegue la schiavitù dei popoli, recidendo le loro tradizioni e garantisce il potere ad una classe tecno finanziaria. 
Sono contro l'idea di quell'integrazione che elimina gli usi e le identità di ciascun popolo per imporre l'appiattimento culturale che elimina la ricchezza delle differenze.
Altra cosa è la solidarietà con quella parte dell'Islam che, nella sua vicenda storica, ha lottato per obiettivi simili ai nostri. Quell'Islam, che è stato non a caso abbattuto dagli Usa e dai suoi alleati, aprendo la strada all'integralismo, che vuole la guerra di religione.

 
Contro le ricorrenti tentazioni entriste dei camerati quale è stata la linea guida di Avanguardia?

Le linee guida di Avanguardia Nazionale furono, da una parte indebolire nel fronte avverso l'antifascismo e dall'altra superare la divisione del post guerra e riunire le speranze e le prospettive delle nuove generazioni in un unico fronte di opposizione.
Volevamo superare la dialettica tessuta dall'antifascismo per indicare una nuova idea di comunità nazionale. Non ci fu consentito.

In Europa ha preso piede una destra identitaria che prende più o meno le distanze dai movimenti e dalla tradizione rivoluzionaria se non si dichiara antifascista. E'possibile un'alleanza tattica, in chiave di resistenza antiglobalista con questi movimenti oppure è meglio resistere con i movimenti d'area?

Ho sempre pensato che i valori alla radice del nostro credo siano sopiti ma presenti nella natura umana. L'oblio di questi valori ancestrali ha provocato la frattura esistenziale dando vita anche nella politica al duplice linguaggio di destra e sinistra. Ciò si sta verificando in Europa, non sempre in modo coerente, è il risveglio disordinato di parte di quei valori. Quindi più di una semplice alleanza tattica, si tratta di contribuire a ricostruire la visione integrale del mondo. Ci vorrà tempo e tenacia.

Da militante rivoluzionario con oltre 60 anni di battaglie politiche sulle spalle come giudichi il passaggio da una politica di rapporti e scontri fisici a quella attuale svolta prevalentemente sui social network?

Negli anni 60 fummo costretti a difenderci dalla violenza antifascista, che voleva, ad ogni costo, arginare la nostra azione politica. La violenza non fu una nostra scelta, ma una necessità che ostacolò la divulgazione della nostra idea di rivoluzione. 
La differenza tra l'oggi e il passato è sottolineata dall'attuale scomparsa di prospettive di un reale cambiamento. La rete, poi contribuisce ad individualizzare la protesta ed è divenuta la "discarica" di ogni opposizione. Non c'è più incontro fra soggetti che lottano per un futuro diverso, ma individui che, nella rete, scaricando dissenso e contrarietà.

Sul quotidiano Il Dubbio, diretto da Piero Sansonetti, Domenico Gramazio afferma di aver avuto un rapporto personale diretto con tutti i militanti compresi quelli che dal Movimento Sociale Italiano aderirono ad Avanguardia Nazionale, è vera tale affermazione? Quale e come fu, se ci fu, il tuo rapporto con Domenico Gramazio?

Domenico Gramazio è stato fra i pochi che ci ha difeso nei momenti difficili, non è possibile dimenticare ciò. Lo considero un amico.



In oltre 60 anni di battaglia politica, in Italia ed all'estero quale fu la manifestazione che più ti è rimasta impressa? Di chi ti è rimasto il ricordo più forte?


Ogni "manifestazione politica" è un tratto di strada della mia militanza. Come si può prediligere una parte di questo cammino ignorando che tutto è parte del percorso da me seguito? Ho fatto errori? Certo, ma anche quelli fanno parte del mio vissuto. C'è un ricordo che sovrasta tutti gli altri: quello del comandante Borghese!

Nel tuo libro l'Aquila ed il Condor racconti parte del tuo percorso di militante rivoluzionario e di leader indiscusso di Avanguardia Nazionale ma ci sono altre  tue storie e dei tuoi camerati che potresti raccontare in un prossimo libro arricchito magari da immagini e documenti inediti, se esistenti?

Nell'aquila e il condor ho raccontato quello che era confortato da documenti o testimonianze. I processi che ho dovuto affrontare mi hanno insegnato che qualsiasi verità storica deve essere sostenuta da prove inconfutabili. Per non essere smentiti. Ed io non amo le smentite!  Effettivamente sto lavorando alla realizzazione di un altro libro che presenta difficoltà, perché si tratta di mettere insieme testimonianze e documenti. Cosa non facile se si considera che la mia latitanza non mi ha consentito di custodire in un solo luogo la documentazione.

domenica 21 agosto 2016

SANDRO PERTINI : ERA DAVVERO IL “BUON NONNETTO CON LA PIPA IN BOCCA “ ?


 
LUISA FERIDA: STORIA DI UNA DONNA INCINTA
CONDANNATA A MORTE DA SANDRO PERTINI




“Avete mai sentito il nome di Luisa Ferida, pseudonimo di Luigia Manfrini Farnè? Probabilmente no. Provate a chiedere ai vostri nonni e bisnonni: forse la conoscono davvero bene.

Classe 1914, fu uno dei volti più celebri del cinema italiano negli anni ’30-’40, assoluta protagonista nel panorama del "Cinema dei Telefoni Bianchi". Marco Innocenti, giornalista de “Il Sole 24 Ore”, la descrive così: «Bruna, impacciata, focosa, Luisa è bella da morire e ha già addosso quel broncio che porterà con sé nella sua breve vita. Gli occhi sono pungenti da zingara, gli zigomi alti, i capelli color carbone, il corpo splendido, il portamento altero. In lei c'è qualcosa di erotico, di torbido e di felino, una sensualità, una rotonda carnalità da bellezza popolana, così amata dagli italiani di allora»

Era l’estate del ’39 quando la bella Luisa conobbe Osvaldo Valenti, altro divo del cinema dell’epoca. I due furono colpiti dal dardo di Cupido, che li portò a vivere un’intensa storia d’Amore. Condivisero gioie e dolori, piaceri e rinunce, ma vissero sempre insieme, sempre uniti. Insieme ed uniti affrontarono anche le sorti dell’Italia a seguito del tradimento dell’8 settembre.

Valenti, che fino ad allora non aveva mai avuto incarichi nella compagine fascista, si arruola volontariamente nella Repubblica Sociale Italiana. Nel ’44 è tenente della Xa Flottiglia MAS. Nel frattempo, pare che la coppia frequenti Villa Triste a Milano, sede della famigerata Banda Koch. Diciamo “pare” perché non sono stati mai accertati legami tra quest’ultima e la coppia Valenti-Ferida. Nulla di certo, nulla di dimostrato; solo congetture e trame vigliacche, sufficienti per condannarli a morte. Difatti, il 10 aprile ’45 Valenti, forse per aver salva la vita e,soprattutto, quella di Luisa che aspettava un bambino, (la coppia aveva già concepito un figlio, morto purtroppo poco dopo la nascita), decise di consegnarsi spontaneamente ai partigiani. Si rifugiò in casa di Nino Pulejo, appartenente alle Brigate Matteotti, il quale però lo scaricò, affidando le due celebrità al comandante Marozin della Divisione Pasubio, che non era certo uno stinco di santo, dato che era stato trasferito a Milano dal Veneto per sfuggire ad una condanna a morte del CLN, (pensate!), per furti, abusi e altri crimini.

Il 21 aprile Marozin incontra Sandro Pertini il quale chiede di Valenti; avuta la notizia della sua prigionia, il “grande presidente” ordina lapidario: “fucilali (quindi anche la Ferida, incinta!); e non perdere tempo. Questo è un ordine tassativo del CLN. Vedi di ricordartene!”. «Ordine tassativo del CLN: chi lo avrà dato e quando? Di quell' ordine, che sarebbe stato determinato dall' accusa ai due d' avere partecipato alle torture della banda Koch e di avere collaborato con i tedeschi,(ripetiamo: circostanza mai dimostrata! ), dovrebbe esserci stato un documento scritto. Nessuno lo ha veduto. Di scritto c' è soltanto un foglio in data 25 aprile dove si legge che ‘...il CLN su proposta dei socialisti vota all' unanimità il deferimento al tribunale militare di Valenti Osvaldo e Ferida Luisa per essere giudicati per direttissima quali criminali di guerra per avere inflitto torture e sevizie a detenuti politici’. Dunque, un deferimento, non una sentenza. Ma in quel mese di aprile, e peggio nei successivi, c' era la fucilazione facile e bastò l' intervento di Pertini a decidere la sorte dei due attori. Marozin voleva scambiarli con cinque dei suoi presi prigionieri dai tedeschi. Fallito il tentativo, non ebbe scrupoli a liberarsi dei due ingombranti personaggi e ad eseguire l' ordine.»

Così, il Valenti e la Ferida furono condotti in una cascina, ove vissero i loro ultimi giorni. L’attore subì un processo sommario, al termine del quale fu confermata la condanna a morte. Condanna che non fu mai comunicata al diretto interessato e che riguardava anche la compagna. Ignari della loro fine, i due innamorati furono caricati su un camion tra gente rastrellata. Giunti in via Poliziano, furono fatti scendere e messi faccia al muro. La donna stringeva in mano una scarpina azzurra di lana, destinata a scaldare i piedi innocenti di quel bambino che non vedrà mai la luce. Partì la raffica di mitra. I due caddero al suolo, stretti tanto nella Vita quanto nella Morte. Su di loro furono adagiati due cartelloni. Due scritte rosse dicevano: «I partigiani della Pasubio hanno giustiziato Osvaldo Valenti»; «I partigiani della Pasubio hanno giustiziato Luisa Ferida». Tre vite spezzate in colpo solo. Due vite probabilmente incolpevoli riguardo le accuse di collaborazionismo nazi-fascista e di aver compiuto ogni genere di atrocità a Villa Triste; una semplicemente candida.

Come se ciò non bastasse, Marozin e i suo compagni depredarono anche gli averi della coppia defunta, finiti poi chissà dove.
Negli anni successivi, la madre della Ferida domandò una pensione di guerra, dato che traeva le sue sostanze dai proventi della figlia. La domanda rese doverosi degli accertamenti sulla vicenda. Le indagini dei Carabinieri portarono alla conclusione che “la Manfrini, (vero nome della Ferida,), dopo l'8 settembre 1943 si è mantenuta estranea alle vicende politiche dell'epoca e non si è macchiata di atti di terrorismo e di violenza in danno della popolazione italiana e del movimento partigiano”. Conclusione ribadita dallo stesso Marozin, il quale disse: “La Ferida non aveva fatto niente, veramente niente. Ma era con Valenti. La rivoluzione travolge tutti”. Nemmeno Valenti aveva probabilmente fatto niente, come fu poi confermato dalla Corte d’Appello di Milano, la quale ebbe a dire che la Ferida e Valenti non furono giustiziati, bensì assassinati. Su questa posizione anche Romano Bracalini, biografo di Valenti, che dice: "La frettolosa condanna del CLN obbediva sostanzialmente alla regola umana e crudele che alla spettacolarità del simbolo che egli aveva rappresentato corrispondesse subito e senza ambagi una punizione altrettanto spettacolare. In altre parole egli doveva morire non già per quello che aveva fatto, quesito secondario, ma per l'esempio che aveva costituito"

Questo è ciò dice la storia, ciò che è realmente accaduto in quei giorni maledetti, che qualcuno si ostina ancora a chiamare “giornate radiose”. 
 In cuor nostro speriamo solo che prenda avvio un processo di seria revisione storico-politica riguardo la persona di Sandro Pertini, indegnamente spacciato per un eroe del nostro tempo, per un uomo degno di stima e ammirazione.
 I fatti dicono il contrario: fu un inetto e, per giunta, con le mani sporche di sangue. E' giunta l’ora di smettere di scrivere l’agiografia di questo personaggio, di questo falso mito e di iniziare a dire la verità.: un cattivo che ha giocato a fare il buono, il “buon nonnetto con la pipa in bocca”

Lasciando , -per ora- , perdere gli onori resi dal Pertini alla bara di Tito,infoibatore di Italiani, di cui parleremo più avanti