domenica 13 gennaio 2019

L' ALBERO DEI VALORI


I PENSIERI DI UN QUARANTENNE

 Scritto così, tutto d'un fiato
Non esiste un vero disagio giovanile perché comunque ci sono ancora dei giovani con slanci di iniziativa e voglia di cambiamento;
... Ma il problema è che sono intrappolati nel conformismo creato ad hoc dalla "tecnologia", micidiale arma dei poteri forti in quanto strumento di manipolazione di massa, e presentata come l'unico ed indispensabile stile di vita di una società oramai quasi completamente globalizzata.
Con lo scopo e  il risultato di portare l'individuo ad essere sempre più distante dai problemi reali, disintegrando  tutti i Valori etici di una sana aggregazione, da sempre pilastri di una Identità di Popolo. Per le nuove generazioni è molto più difficile comprendere a fondo questo inganno perché il progresso a tutti i costi ha cancellato gli Antichi Valori, quelli di cui era forte l' "Uomo in Ordine" :
 il risultato è un individuo debole e manipolabile .
La visione del mondo proposta è semplice,
 facile e piena di denaro, ... 
Basta che ti vendi bene, e che sai apparire nel modo giusto.... 
Poi la bolla di sapone si dissolve e ti ritrovi ancor più disarmato... 
Perché non sai più il significato dell'impegno, 
 del Sacrificio (sacrum facere) e dello Stile,
 pilastri del Passato e armi preziose dei Nostri Padri. 

Cogliere i frutti dall' Eterno  Albero dei Valori. 
Perché il progresso non é all'infinito e la fine sarà drammatica :
la tragedia dell'uomo trasformata nella  farsa del progresso a tutti i costi ha in sé le metastasi della propria eutanasia


F. -Comunità Avanguardia 
Bergamo 

NON CI INTERESSANO I "REGALINI"


CI INTERESSANO VERITÀ E GIUSTIZIA

I regali fanno felici i bambini. 
A Noi che siam grandicelli e che non crediamo più a nessuna befana, non interessano proprio.
Noi non si dà di matto per il "regalino" di Bolsonaro al signor Salvini : la cattura di uno schifoso assassino delinquente, 
tal Cesare Battisti.
Il termine "regalino" è già di per sé un insulto ai parenti delle povere vittime di quella merda di uomo, 
che attendono invece la sacrosanta e dovuta Giustizia.
Leggiamo invece i soliti omini di destra o di destra estrema che si stracciano le vesti e brinderanno al "regalino" : 
solo menti omologate e servili possono esser contenti del regalino fatto dai loro capetti, da quelli che loro riterrebbero i nuovi uomini della Provvidenza.
 Tanto Bolsonaro quanto Salvini.

Perché a Noi interessa la Verità. 

Perché a Noi interessa la Giustizia

Su Pierluigi Pagliai, su Riccardo Minetti,
su Giorgio Vale, Nanni De Angelis e Giancarlo Esposti, 
sui Ragazzi di Acca Larentia e sui Ragazzi di Rovetta. 
E  su Tutti i Camerati trucidati dalle zecche o dalle guardie, o "suicidati" in carcere dopo esser stati sfondati di botte.


A Noi dei "regalini " di un sistema nemico
non ce ne frega un cazzo

NOI, che per qualche infame vigliacco,
 saremmo "i protetti" 

UN BEL PENSIERO


 PER GLI ULTRA 50ENNI...E NON SOLO

Bel poemetto di Mario de Andrade (San Paolo 1893-1945) Poeta, romanziere, saggista e musicologo.
Uno dei fondatori del modernismo brasiliano.
______________________

LA MIA ANIMA HA FRETTA
Ho contato i miei anni e ho scoperto che ho meno tempo per vivere da qui in poi rispetto a quello che ho vissuto fino ad ora.
Mi sento come quel bambino che ha vinto un pacchetto di dolci: i primi li ha mangiati con piacere, ma quando ha compreso che ne erano rimasti pochi ha cominciato a gustarli intensamente.
Non ho più tempo per riunioni interminabili dove vengono discussi statuti, regole, procedure e regolamenti interni, sapendo che nulla sarà raggiunto.
Non ho più tempo per sostenere le persone assurde che, nonostante la loro età cronologica, non sono cresciute.
Il mio tempo è troppo breve: voglio l’essenza, la mia anima ha fretta. Non ho più molti dolci nel pacchetto.

Voglio vivere accanto a persone umane, molto umane, che sappiano ridere dei propri errori e che non siano gonfiate dai propri trionfi e che si assumano le proprie responsabilità. Così si difende la dignità umana e si va verso della verità e onestà
È l’essenziale che fa valer la pena di vivere.
Voglio circondarmi da persone che sanno come toccare i cuori, di persone  a cui i duri colpi della vita hanno insegnato a crescere con tocchi soavi dell’anima.

Sì, sono di fretta,  ho fretta di vivere con l’intensità che solo la maturità sa dare.
Non intendo sprecare nessuno dei dolci rimasti.  Sono sicuro che saranno squisiti, molto più di quelli mangiati finora.
Il mio obiettivo è quello di raggiungere la fine soddisfatto e in pace con i miei cari e la mia coscienza.
Abbiamo due vite e la seconda inizia quando ti rendi conto che ne hai solo una.



giovedì 10 gennaio 2019

STEFANO CECCHETTI, PRESENTE


STEFANO CECCHETTI, 11 GENNAIO 1979


"Era fascista? Non lo era? Ma chissenefrega, scusate! A noi nun ce ne frega un cazzo se quello che è crepato era un fascio oppure no. Lui lì nun ce doveva stà. E basta."
             Estratto di una telefonata a Radio Onda Rossa del 12-01-1979
 
La tragica giornata del 10 gennaio 1979 non è conclusa con gli scontri e con la morte di Giaquinto. Proprio mentre il telegiornale della sera mette in scena la sua parodia della verità, l'altra faccia della strategia del terrore, i comunisti, si muovono per offrire anche il loro contributo all'anniversario di Acca Larentia.
Il metodo prescelto è quello già sperimentato per uccidere Zicchieri: sparare da un'auto in corsa. Una tattica vile, che non prevede nessuna possibilità di reazione e bassissimi rischi. Il commando omicida non sceglie neppure le vittime, non compie un "gesto politico simbolico", come nel caso dell'assalto di via Acca Larentia, colpisce nel mucchio, con un solo obbiettivo: uccidere un fascista.
Stefano Cecchetti, 19 anni, simpatizzante del Fronte della gioventù, è con altri amici al bar di Largo Rovani, al quartiere Talenti, un bar di quelli frequentati da giovani di destra, ma certo non solo da loro. Si commentano gli episodi della giornata, c'è rabbia, orrore, dolore per Alberto Giaquinto, anche se nessuno lo conosce di persona: era un camerata ed è stato assassinato. Fa buio e freddo quando i ragazzi escono, non fanno neppure caso ad un'auto che si mette in moto, non vedono neppure le canne delle armi uscire dal finestrino, sentono solo i colpi secchi. Stefano cade a terra senza vita, in un lago di sangue, altri due giovani: Maurizio Battaglia e Alessandro Donatore, di 18 anni, rimangono feriti.
L'agguato viene rivendicato dai Compagni Organizzati per il Comunismo, che rimarranno impuniti...
TRATTO DA:

mercoledì 9 gennaio 2019

ALBERTO GIAQUINTO, PRESENTE

10 GENNAIO 1979
"Ed Alberto che è finito dentro l'occhio di un mirino,
 la democrazia mandante, un agente è l'assassino!"

 

Alberto Giaquinto: l'ultima vittima della strage di Acca Larentia



Vi raccontiamo cosa vuol dire morire per mano di un "tutore" dell'ordine

Ecco la storia del giovane (di 17 anni) ucciso da un poliziotto a Centocelle, mentre commemorava l'eccidio dell'Appio Latino. Per la sua morte, non ha mai pagato nessuno. Ma contro di lui è stata costruita una campagna mediatica vergognosa, così come era stato fatto per Stefano Recchioni
“Avete inventato un mondo di storie/perché voi volete una cosa sola,/volete la fine dei camerati,/vi siete sbagliati,/proprio sbagliati./Celerino uomo di paglia/ vile assassino, sporca canaglia/ sparasti alla nuca come in battaglia/ Sparasti ad Alberto un ragazzo biondo…”
Castel Camponeschi. Abbruzzo. Luglio del 1980. Terzo “Campo Hobbit”.  Ad un anno di distanza dalla morte di Alberto Giaquinto, i ragazzi del Fronte della Gioventù lo ricordano così, cantando con la voce rotta dalla commozione e dal dolore, una canzone che racconta la sua storia. Ad ammazzarlo è stato un poliziotto. Gli ha sparato alla nuca. Come solo i vigliacchi osano uccidere. Era alla manifestazione per il primo anniversario della strage di Acca Larentia, Alberto. A Roma, quartiere Centocelle.
Il 1978 è un anno maledetto. Di quelli che fanno da spartiacque nella storia d’Italia. Un anno che si apre con una lunga scia di sangue che sembra destinata a non interrompersi mai. Il 7 gennaio, sull’asfalto dell’Appio Latino, cadono Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, ammazzati senza pietà dai NACT, gruppo semisconosciuto di terroristi comunisti. La sera stessa, Eduardo Sivori, un ufficiale dei Carabinieri, spara ad altezza d’uomo sulla folla che si è radunata per rendere omaggio ai due missini uccisi. Stefano Recchioni, un militante di 19 anni di Colle Oppio, non ha scampo. Un proiettile calibro nove lo colpisce in piena fronte. Si spegnerà, dopo due giorni di agonia, al “San Giovanni”. È la terza vittima di Acca Larentia, ma non è l’ultima. Il 9 Maggio di quello stesso, dannato, anno, le Brigate Rosse fanno ritrovare in via Caetani il cadavere di Aldo Moro. Nel frattempo, a destra, sono nati i NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari). Cominciano i primi morti per mano dei “neri”. Si parte con le pistole, poi si passa agli assalti alle armerie, alla fine si arriva direttamente ad usare le bombe a mano.
 La pioggia dell’inverno del ’78 ha lavato via le pozze di sangue di Franco, Francesco e Stefano davanti alla sezione del MSI di Acca Larentia. Ma nei cuori dei camerati, il ricordo dell’eccidio è ancora indelebile. Nessuno dei responsabili è stato punito. I “compagni” che hanno sparato, non sono mai stati individuati. Sivori, invece, è stato fatto allontanare da Francesco Cossiga in persona per “evitare eventuali rappresaglie”. In molti, proprio per questo motivo, hanno lasciato il partito. Si sono sentiti abbandonati. Dai dirigenti e da Giorgio Almirante in particolar modo, si aspettavano molto di più. Tanti di quelli che hanno militato nel MSI decidono che il gioco al massacro, messo in piedi dai comunisti, va fronteggiato con le loro stesse armi e passano con i NAR. 
Alberto Giaquinto no, lui non ci pensa nemmeno ad entrare in un gruppo eversivo. Ha solo 17 anni in quell’inverno del 1979. È poco più di un ragazzo. Studia al liceo “Peano”. È bello. Ha i capelli biondi. Si veste già da adulto, in giacca e cravatta, ma ha ancora il sorriso pulito di un bambino. Abita all’Eur. Va spesso al “Bar del Fungo”, noto nella zona perché frequentato da Franco Anselmi (l’estremista dei NAR ucciso nell’assalto all’armeria Centofanti). Ha una moto, una Honda, di cui va orgogliosissimo, la tiene come un gioiellino. Suo padre è proprietario di una farmacia ad Ostia. La famiglia è benestante e di questo, dopo la sua morte, si riuscirà a farne una colpa. Sono gli anni assurdi degli opposti estremismi, della lotta di classe ed essere “borghese” è un aggravante. O meglio, una scusante, se vieni ammazzato. Anche se a farlo è un poliziotto.
È di destra, Alberto. Per l’età che ha, fa ancora parte del Fronte della Gioventù. Ma ha amici più grandi, del Fuan, gli universitari del MSI. Sono alcuni di loro, ad organizzare per il 10 gennaio, una manifestazione non autorizzata in ricordo della strage di Acca Larentia. Il problema non è il corteo, ma la zona che è stata scelta, quella di Centocelle, uno dei quartieri più “rossi” di Roma. Chiunque vada, rischia grosso. I “compagni” non aspettano altro che l’ennesimo scontro. Sì, perché solo ventiquattr’ore prima,  i NAR hanno fatto irruzione a “Radio città futura”, un’emittente dichiaratamente di sinistra. I conduttori avevano scherzato sul cognome di uno dei due missini uccisi all’Appio Latino, proprio nel giorno dell’anniversario: “Poracci, i ‘fasci’ so’ rimasti senza ‘na ciavatta”. I “neri” non perdonano. Entrano alla Radio, dove nel frattempo stava andando in onda una trasmissione femminista. Rovesciano una tanica di benzina nel locale. Danno fuoco a tutto. Bruciano. Sparano anche. Non muore nessuno, ma è comunque un gesto eclatante.
Roma, quel giorno, non aspetta altro che il regolamento dei conti tra “fasci” e “compagni”.
 Alberto e molti altri ragazzi vogliono andare alla manifestazione. Non hanno intenti violenti. Solo l’imperativo, morale, categorico, di ricordare i loro camerati caduti un anno prima, esprimere la rabbia per un’indagine che non è mai decollata, senza colpevoli né sospetti. E con Sivori al sicuro, all’estero. Aspettano indicazioni dai quadri del partito. Nel primo pomeriggio, Gianfranco Fini (che, all’epoca, è il segretario nazionale del Fronte della Gioventù), dà il nulla osta. La rievocazione si farà, a Centocelle. Chissenefrega se rischia di scapparci il morto.
È una vittima annunciata, Alberto Giaquinto. Ciò che nessuno si aspetta, però, è che il piombo sotto il quale cadrà è quello di un agente di pubblica sicurezza.
In via dei Castani, Alberto, ci va in autobus. La moto la lascia a casa, non è il caso di rischiare di rovinarla. Ci va insieme ad Massimo Morsello (oggi scomparso anche lui, per un cancro, chiamato il “De Gregori Nero”, l’autore di Canti Assassini). Nessuno dei due conosce il quartiere. Quando arrivano, c’è un aria strana. La tensione è palpabile. Dall’altra parte della via c’è un corteo di donne che sta sfilando per protesta al raid dei Nar del giorno prima. All’improvviso, la situazione precipita. Alberto e un altro centinaio di ragazzi del MSI sono davanti alla sezione della DC, quando qualcuno prova ad assaltarla. Alla centrale operativa della questura arriva una chiamata: “sbrigatevi, che qui sfasciano tutto!”. Invece di una volante, arriva di corsa una Fiat 128 “civile”. Dentro ci sono due agenti in borghese. Uno dei due scende dalla macchina. Ha la pistola in mano. Vede distintamente che Giaquinto, Morsello e gli altri stanno scappando, in preda al panico. Sono di spalle. Nessuno lo aggredisce. Ma lui spara lo stesso. Ad altezza d’uomo. Il proiettile colpisce Alberto alla nuca. Cade a terra, in un lago di sangue. Alberto come Franco, come Francesco, come Stefano.
La polizia impiega più di mezz’ora per far arrivare l’ambulanza che lo porterà al “San Giovanni”. Quando i medici si chinano su di lui, respira ancora. Ma per poco. Alle 9 di quella stessa sera del 10 gennaio, dopo due ore di agonia, muore fra le braccia di sua madre.
Dal giorno dopo, come avevano fatto per Recchioni, tutti i giornali mettono in atto una campagna denigratoria contro Giaquinto. I più “teneri” diranno che l’agente ha sparato solo ed esclusivamente per legittima difesa, perché Alberto impugnava un P38 (il vero scandalo è che questa tesi verrà accolta nel processo contro l’assassino di Giaquinto, puntualmente prosciolto da ogni accusa). Stessa scusa usata per infangare Stefano e scagionare Sivori. I “pennivendoli” più fantasiosi racconteranno che “nella giacca del ragazzo sono stati rinvenuti diversi proiettili”. Anche stavolta, come per il missino di Colle Oppio, nessuno avrà il coraggio di ammettere che gli  erano stati messi in tasca per “giustificare” il ferimento.
Ma le parole più vergognose sono quelle scritte (e non firmate) in un articolo di Lotta Continua del 16 gennaio: “Quelli dell’Eur sono figli della ricchissima borghesia romana, questi rampolli da galera che hanno come loro ritrovo bar e locali. Questi assassini hanno vita facile nei loro quartieri. Possono permettersi di pestare, sfregiare, sparare”. Non basta, c’è di peggio. L’attacco è mirato e diretto: “La vicenda di Alberto Giaquinto è esemplare. Figlio di un ricchissimo farmacista, viveva in una lussuosissima villa al Fungo. Qui si incontrava con i suoi amici, che raccontano della sua passione per i film  pornografici (pura invenzione, ndr). Quando è stato ucciso, aveva una Walter P38, ma non ha fatto in tempo ad usarla. Studente per bene la mattina, terrorista la sera”. È bene ricordare che, quando muore, Giaquinto non ha neppure compiuto 18 anni. La pistola non è mai stata trovata. Chi era con lui, ha giurato che Alberto non ha mai tenuto in mano un’arma. Tanto meno quella sera maledetta. Non ha imparato niente, Adriano Sofri, dall’omicidio di Luigi Calabresi. Il suo modo di fare “giornalismo”, a distanza di sette anni, è rimasto lo stesso: raccogliere e diffondere false informazioni sulla vittima designata. Farne un mostro. Fomentare l’odio contro i “nemici del proletariato” scelti a caso, nel mucchio. Anche se il bersaglio è un ragazzino. Morto ammazzato. Da un poliziotto. Mentre era in strada per ricordare una strage contr i suoi camerati.
Se quella di Acca Larentia fosse stata una macabra partita fra “compagni” e “guardie”, sarebbe finita in parità. Due morti a testa ed un unico popolo, quello di destra, a piangere i suoi caduti.
La storia di Alberto Giaquinto è tragicamente simile e collegata a quella di Stefano Recchioni. Come se la morte, con un orribile gioco di coincidenze, avesse voluto proseguire quella sequenza di giovani, poco più che ragazzini, ammazzati da chi avrebbe dovuto proteggerli. Accusati, da morti, di essere criminali.
“Alberto non era armato di nulla,/di nulla lo giuro, proprio di nulla/quel che avete detto, son tutte balle/
sparaste alle spalle senza pietà/ sol perché credeva che è primavera/ e un sole di vita presto verrà/ e se t’hanno ucciso Alberto Giaquinto/ ti giuro, ti giuro, non hanno vinto!”
Alberto è l’ultima, innocente, vittima della Strage di Acca Larentia.
“Avete inventato un mondo di storie/perché voi volete una cosa sola,/volete la fine dei camerati,/vi siete sbagliati,/proprio sbagliati./Celerino uomo di paglia/ vile assassino, sporca canaglia/ sparasti alla nuca come in battaglia/ Sparasti ad Alberto un ragazzo biondo…”Castel Camponeschi. Abbruzzo. Luglio del 1980. Terzo “Campo Hobbit”.  Ad un anno di distanza dalla morte di Alberto Giaquinto, i ragazzi del Fronte della Gioventù lo ricordano così, cantando con la voce rotta dalla commozione e dal dolore, una canzone che racconta la sua storia. Ad ammazzarlo è stato un poliziotto. Gli ha sparato alla nuca. Come solo i vigliacchi osano uccidere. Era alla manifestazione per il primo anniversario della strage di Acca Larentia, Alberto. A Roma, quartiere Centocelle.
Il 1978 è un anno maledetto. Di quelli che fanno da spartiacque nella storia d’Italia. Un anno che si apre con una lunga scia di sangue che sembra destinata a non interrompersi mai. Il 7 gennaio, sull’asfalto dell’Appio Latino, cadono Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, ammazzati senza pietà dai NACT, gruppo semisconosciuto di terroristi comunisti. La sera stessa, Eduardo Sivori, un ufficiale dei Carabinieri, spara ad altezza d’uomo sulla folla che si è radunata per rendere omaggio ai due missini uccisi. Stefano Recchioni, un militante di 19 anni di Colle Oppio, non ha scampo. Un proiettile calibro nove lo colpisce in piena fronte. Si spegnerà, dopo due giorni di agonia, al “San Giovanni”. È la terza vittima di Acca Larentia, ma non è l’ultima. Il 9 Maggio di quello stesso, dannato, anno, le Brigate Rosse fanno ritrovare in via Caetani il cadavere di Aldo Moro. Nel frattempo, a destra, sono nati i NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari). Cominciano i primi morti per mano dei “neri”. Si parte con le pistole, poi si passa agli assalti alle armerie, alla fine si arriva direttamente ad usare le bombe a mano. La pioggia dell’inverno del ’78 ha lavato via le pozze di sangue di Franco, Francesco e Stefano davanti alla sezione del MSI di Acca Larentia. Ma nei cuori dei camerati, il ricordo dell’eccidio è ancora indelebile. Nessuno dei responsabili è stato punito. I “compagni” che hanno sparato, non sono mai stati individuati. Sivori, invece, è stato fatto allontanare da Francesco Cossiga in persona per “evitare eventuali rappresaglie”. In molti, proprio per questo motivo, hanno lasciato il partito. Si sono sentiti abbandonati. Dai dirigenti e da Giorgio Almirante in particolar modo, si aspettavano molto di più. Tanti di quelli che hanno militato nel MSI decidono che il gioco al massacro, messo in piedi dai comunisti, va fronteggiato con le loro stesse armi e passano con i NAR. Alberto Giaquinto no, lui non ci pensa nemmeno ad entrare in un gruppo eversivo. Ha solo 17 anni in quell’inverno del 1979. È poco più di un ragazzo. Studia al liceo “Peano”. È bello. Ha i capelli biondi. Si veste già da adulto, in giacca e cravatta, ma ha ancora il sorriso pulito di un bambino. Abita all’Eur. Va spesso al “Bar del Fungo”, noto nella zona perché frequentato da Franco Anselmi (l’estremista dei NAR ucciso nell’assalto all’armeria Centofanti). Ha una moto, una Honda, di cui va orgogliosissimo, la tiene come un gioiellino. Suo padre è proprietario di una farmacia ad Ostia. La famiglia è benestante e di questo, dopo la sua morte, si riuscirà a farne una colpa. Sono gli anni assurdi degli opposti estremismi, della lotta di classe ed essere “borghese” è un aggravante. O meglio, una scusante, se vieni ammazzato. Anche se a farlo è un poliziotto.È di destra, Alberto. Per l’età che ha, fa ancora parte del Fronte della Gioventù. Ma ha amici più grandi, del Fuan, gli universitari del MSI. Sono alcuni di loro, ad organizzare per il 10 gennaio, una manifestazione non autorizzata in ricordo della strage di Acca Larentia. Il problema non è il corteo, ma la zona che è stata scelta, quella di Centocelle, uno dei quartieri più “rossi” di Roma. Chiunque vada, rischia grosso. I “compagni” non aspettano altro che l’ennesimo scontro. Sì, perché solo ventiquattr’ore prima,  i NAR hanno fatto irruzione a “Radio città futura”, un’emittente dichiaratamente di sinistra. I conduttori avevano scherzato sul cognome di uno dei due missini uccisi all’Appio Latino, proprio nel giorno dell’anniversario: “Poracci, i ‘fasci’ so’ rimasti senza ‘na ciavatta”. I “neri” non perdonano. Entrano alla Radio, dove nel frattempo stava andando in onda una trasmissione femminista. Rovesciano una tanica di benzina nel locale. Danno fuoco a tutto. Bruciano. Sparano anche. Non muore nessuno, ma è comunque un gesto eclatante.Roma, quel giorno, non aspetta altro che il regolamento dei conti tra “fasci” e “compagni”. Alberto e molti altri ragazzi vogliono andare alla manifestazione. Non hanno intenti violenti. Solo l’imperativo, morale, categorico, di ricordare i loro camerati caduti un anno prima, esprimere la rabbia per un’indagine che non è mai decollata, senza colpevoli né sospetti. E con Sivori al sicuro, all’estero. Aspettano indicazioni dai quadri del partito. Nel primo pomeriggio, Gianfranco Fini (che, all’epoca, è il segretario nazionale del Fronte della Gioventù), dà il nulla osta. La rievocazione si farà, a Centocelle. Chissenefrega se rischia di scapparci il morto.È una vittima annunciata, Alberto Giaquinto. Ciò che nessuno si aspetta, però, è che il piombo sotto il quale cadrà è quello di un agente di pubblica sicurezza.In via dei Castani, Alberto, ci va in autobus. La moto la lascia a casa, non è il caso di rischiare di rovinarla. Ci va insieme ad Massimo Morsello (oggi scomparso anche lui, per un cancro, chiamato il “De Gregori Nero”, l’autore di Canti Assassini). Nessuno dei due conosce il quartiere. Quando arrivano, c’è un aria strana. La tensione è palpabile. Dall’altra parte della via c’è un corteo di donne che sta sfilando per protesta al raid dei Nar del giorno prima. All’improvviso, la situazione precipita. Alberto e un altro centinaio di ragazzi del MSI sono davanti alla sezione della DC, quando qualcuno prova ad assaltarla. Alla centrale operativa della questura arriva una chiamata: “sbrigatevi, che qui sfasciano tutto!”. Invece di una volante, arriva di corsa una Fiat 128 “civile”. Dentro ci sono due agenti in borghese. Uno dei due scende dalla macchina. Ha la pistola in mano. Vede distintamente che Giaquinto, Morsello e gli altri stanno scappando, in preda al panico. Sono di spalle. Nessuno lo aggredisce. Ma lui spara lo stesso. Ad altezza d’uomo. Il proiettile colpisce Alberto alla nuca. Cade a terra, in un lago di sangue.
 
 
 
 
Alberto come Franco, come Francesco, come Stefano.La polizia impiega più di mezz’ora per far arrivare l’ambulanza che lo porterà al “San Giovanni”. Quando i medici si chinano su di lui, respira ancora. Ma per poco. Alle 9 di quella stessa sera del 10 gennaio, dopo due ore di agonia, muore fra le braccia di sua madre.Dal giorno dopo, come avevano fatto per Recchioni, tutti i giornali mettono in atto una campagna denigratoria contro Giaquinto. I più “teneri” diranno che l’agente ha sparato solo ed esclusivamente per legittima difesa, perché Alberto impugnava un P38 (il vero scandalo è che questa tesi verrà accolta nel processo contro l’assassino di Giaquinto, puntualmente prosciolto da ogni accusa). Stessa scusa usata per infangare Stefano e scagionare Sivori. I “pennivendoli” più fantasiosi racconteranno che “nella giacca del ragazzo sono stati rinvenuti diversi proiettili”. Anche stavolta, come per il missino di Colle Oppio, nessuno avrà il coraggio di ammettere che gli  erano stati messi in tasca per “giustificare” il ferimento.Ma le parole più vergognose sono quelle scritte (e non firmate) in un articolo di Lotta Continua del 16 gennaio: “Quelli dell’Eur sono figli della ricchissima borghesia romana, questi rampolli da galera che hanno come loro ritrovo bar e locali. Questi assassini hanno vita facile nei loro quartieri. Possono permettersi di pestare, sfregiare, sparare”. Non basta, c’è di peggio. L’attacco è mirato e diretto: “La vicenda di Alberto Giaquinto è esemplare. Figlio di un ricchissimo farmacista, viveva in una lussuosissima villa al Fungo. Qui si incontrava con i suoi amici, che raccontano della sua passione per i film  pornografici (pura invenzione, ndr). Quando è stato ucciso, aveva una Walter P38, ma non ha fatto in tempo ad usarla. Studente per bene la mattina, terrorista la sera”. È bene ricordare che, quando muore, Giaquinto non ha neppure compiuto 18 anni. La pistola non è mai stata trovata. Chi era con lui, ha giurato che Alberto non ha mai tenuto in mano un’arma. Tanto meno quella sera maledetta. Non ha imparato niente, Adriano Sofri, dall’omicidio di Luigi Calabresi. Il suo modo di fare “giornalismo”, a distanza di sette anni, è rimasto lo stesso: raccogliere e diffondere false informazioni sulla vittima designata. Farne un mostro. Fomentare l’odio contro i “nemici del proletariato” scelti a caso, nel mucchio. Anche se il bersaglio è un ragazzino. Morto ammazzato. Da un poliziotto. Mentre era in strada per ricordare una strage contr i suoi camerati.Se quella di Acca Larentia fosse stata una macabra partita fra “compagni” e “guardie”, sarebbe finita in parità. Due morti a testa ed un unico popolo, quello di destra, a piangere i suoi caduti.La storia di Alberto Giaquinto è tragicamente simile e collegata a quella di Stefano Recchioni. Come se la morte, con un orribile gioco di coincidenze, avesse voluto proseguire quella sequenza di giovani, poco più che ragazzini, ammazzati da chi avrebbe dovuto proteggerli. Accusati, da morti, di essere criminali.“Alberto non era armato di nulla,/di nulla lo giuro, proprio di nulla/quel che avete detto, son tutte balle/sparaste alle spalle senza pietà/ sol perché credeva che è primavera/ e un sole di vita presto verrà/ e se t’hanno ucciso Alberto Giaquinto/ ti giuro, ti giuro, non hanno vinto!”
Alberto è l’ultima, innocente, vittima della Strage di Acca Larentia.
 
Micol Paglia
 
TRATTO DA:
 
 

lunedì 7 gennaio 2019

LA FABBRICA DELLA MENZOGNA


Bugiardi, sciacalli (e  guardoni!)

DA OLTRE 60 ANNI
Fabbricatori di false notizie
di false trame
di falsi colpevoli




Abilissimi nel passare
 da aggressori ad aggrediti


DA SEMPRE 
Con i poteri forti
Contro la Verità 
Contro gli Italiani

venerdì 4 gennaio 2019

NON VI SCORDEREMO. MAI



A FRANCO,FRANCESCO,STEFANO
A TUTTI I CAMERATI MORTI PER L'IDEA

La Comunità di Avanguardia
 si radunerà al Verano

alla Cappella dei Martiri della Rivoluzione Fascista

per chiamare il Presente 
ai Camerati morti per l'Idea 




 “Non pensate a me, pensate a Franco 
che sta messo peggio…”


7 gennaio 1978: la strage che ha cambiato le nostre vite                                                                                  
Oggi non ho voglia di parlare di calcio. Oggi voglio parlare d'altro, di un evento accaduto quasi 40 anni fa e che ha cambiato radicalmente la vita di molti della mia generazione: la strage di Acca Larentia. Vi ripropongo una parte del capitolo di "Faccetta biancoceleste" in cui ho parlato di questa vicenda che mi e ci ha segnato profondamente. Nel libro, c'è un seguito sportivo a quella serata di sangue, perché il giorno dopo si gioca un Perugia-Lazio segnato da gravi incidenti, da scontri con tifosi rivali mischiati a estremisti di sinistra, ma anche da una vera e propria caccia al carabiniere. Ma qui mi limito al racconto di quella giornata, agli avvenimenti di quel 7 gennaio che resterà per sempre impresso nella nostra memoria...
Quella del 7 gennaio sembra una sera come tante. Le vacanze di Natale sono finite, ma le scuole non hanno riaperto i battenti perché è il sabato dopo la Befana e la città sta lentamente riprendendo il suo aspetto normale: sono sparite le bancarelle natalizie, sono stati smontati gli alberi di Natale. Già, la vita normale, sempre ammesso che si possa parlare di normalità riferendosi a quel periodo.
Via Acca Larentia è una piccola via del quartiere Tuscolano, una traversa di via delle Cave, quella grande strada che collega la Tuscolana all’Appia. Nella sede dell’Msi della zona, quella sera sono riuniti un gruppo di ragazzi che si sono dati appuntamento per fare volantinaggio. Non si tratta di volantini politici, ma solo di fogli fotocopiati con cui si pubblicizza un concerto degli Amici del Vento, un gruppo musicale di destra. Nella sede ci sono Francesco Ciavatta, figlio del portiere dello stabile, Maurizio Lupini, un giovane dirigente di estrazione popolare, Franco Bigonzetti, studente di Medicina, Vincenzo Segneri che fa il meccanico e Giuseppe D’Audino, anche lui studente. Ragazzi normali, non figli di papà e neanche degli esaltati o dei terroristi in erba. Questa è la ricostruzione di quello che è successo quella sera, di una delle pagine più nere di quegli anni e di una vicenda che non è mai stata del tutto chiarita, perché si tratta di una strage compiuta da assassini rimasti sempre senza un nome e un volto. E poi di altre morti, con responsabili che avevano sia un nome che un volto, ma che non hanno pagato per quegli omicidi, perché indossavano una divisa.
Sono le sei di pomeriggio, quando il gruppo di ragazzi si appresta a spegnere le luci della sezione: Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta sono già sull’uscio, con la serranda tirata giù ma quanto basta per far passare chi sta ancora dentro. Anche se è cintura nera di judo, Franco è ragazzo timido, che studia e lavora, che si paga gli studi in Medicina lavorando per una società addetta alla manutenzione delle strade. Francesco, è completamente diverso: è estroverso, il burlone del gruppo conosciuto da tutti nel quartiere, dove scorrazza a bordo del suo Boxer Piaggio blu. Franco e Francesco parlano da fuori con gli amici che stanno ancora dentro la sezione. I due danno le spalle alla strada e quindi non si accorgono che dietro di loro, vicino alle colonnine di marmo collegate da catene che delimitano il marciapiede, si sono posizionate cinque o sei persone: armate e con il volto coperto da sciarpe e passamontanga. Un vero e proprio plotone di esecuzione.
Quel gruppo di fuoco comincia a sparare su quei ragazzi innocenti e che stanno girati di spalle. Testimoni parlano di un crepitio di colpi infinito. Qualcuno all’inizio pensa all’esplosione di botti avanzati a Capodanno, invece sono proiettili che volano dritti verso i bersagli: che non sono sagome o fantocci, ma ragazzi disarmati. Franco è il primo a cadere a terra, poi tocca a Francesco, mentre Vincenzo Segneri, pur ferito, trova la forza per spingere gli altri dentro la sezione e di chiudere la porta di ferro. I ragazzi, feriti, sotto shock e frastornati, da dentro sentono urla, rumore di passi, altri colpi esplosi e poi il silenzio. Quando dentro la sezione qualcuno trova il coraggio di accendere la luce, i ragazzi si accorgono che all’appello mancano Francesco e Franco, poi vedono il sangue che entra da sotto la porta: la aprono e trovano Bigonzetti a terra, morto e con il volto orribilmente straziato dai colpi che lo hanno centrato in pieno viso. Lì vicino c’è Ciavatta, che è ancora vivo e che prima di morire dice agli amici che lo soccorrono: “Non pensate a me, pensate a Franco che sta messo peggio…”. E poi chiude gli occhi, per sempre, perché uno di quei tre proiettili che lo hanno centrato gli ha spaccato in due il cuore. Vincenzo Segneri è ferito ad un braccio e grida, urla come un pazzo: non per il dolore fisico, ma per la rabbia di aver dovuto assistere impotente a quella violenza, a quell’esecuzione che gli ha strappato per sempre due amici.
In quell’agguato, dai bossoli ritrovati in terra e dalla perizia balistica, è stato ricostruito che sono state usate pistole a canna corta, ma i colpi mortali sono stati sparati da una mitraglietta Skorpion. E la storia di questa mitraglietta, è uno dei tanti misteri irrisolti di questa vicenda.
Ad acquistarla, legalmente, è stato qualche anno prima un signore distinto, con gli occhiali, che risponde al nome di Enrico Sbriccoli, ma che è conosciuto con il suo nome d’arte: Jimmy Fontana. È un noto cantante dell’epoca, che ha raggiunto la notorietà grazie a Il mondo, il suo cavallo di battaglia. Interrogato, anni dopo quando la mitraglietta fu ritrovata in un covo di brigatisti, Jimmy Fontana ammette di aver acquistato l’arma, ma dice di averla venduta alla fine del 1977 ad un commissario di polizia. Non ad un commissario qualsiasi, ma ad un funzionario che presta servizio proprio al commissariato del Tuscolano. Il dottor Cetroli nega la circostanza e la giustizia non ha mai chiarito chi tra lui e Jimmy Fontana fosse il vero bugiardo. Eppure, non è difficile appurarlo, perché il cantante sostiene nel verbale dell’interrogatorio di esser stato pagato con un assegno per la vendita della mitraglietta. Quindi, basta fare un controllo in banca. Ma quel semplice controllo non viene mai fatto e l’inchiesta su Jimmy Fontana viene chiusa e archiviata, mentre quella sul commissario Cetroli non è mai stata aperta.
Non esiste internet, non esistono i telefoni cellulari e neanche le tv satellitari che sfornano le notizie in tempo reale, ma grazie al passaparola nel giro di poco tempo la notizia della strage si sparge da un capo all’altro della città e a via Acca Larentia arrivano dirigenti del Msi, camerati di altre sezioni, militanti di sezioni del Fuan e del Fronte della Gioventù, ma anche gruppi di extraparlamentari. Centinaia di persone, tenute a fatica sotto controllo dalle forze dell’ordine. Soprattutto ragazzi, che piangono e urlano, che cercano solo un’occasione per sfogare la rabbia repressa per quella strage.
Per terra, ci sono dei fiori e delle bandiere tricolori distese per coprire il sangue di quei ragazzi. E scocca la scintilla. Una serie di spinte, qualche slogan forte, insulti, poi l’incendio quando un giornalista getta (non si sa se volutamente o inconsapevolmente) una cicca di sigaretta sulla pozza di sangue che c’è sul punto dove è morto Francesco Ciavatta. Questa è una versione, l’altra è quella che tutto è iniziato a causa di una carica fatta per liberare un ragazzo di destra, fermato dai carabinieri perché ha dato un calcio ad una macchina di servizio. Non si sa qual è la versione reale, ma la situazione precipita nel giro di pochi attimi. Le forze dell’ordine sono sopraffatte dalla folla inferocita e in quel momento alcuni testimoni sostengono di aver visto un capitano dei carabinieri che, forse nel timore di essere linciato, estrae la pistola e spara ad altezza d’uomo.
A cadere a terra, all’angolo tra via Acca Larentia e via delle Cave, freddato da un colpo che lo centra in mezzo alla fronte, è un ragazzo di 19 anni. Si chiama Stefano Recchioni, fa parte della sezione di Colle Oppio, si è appena arruolato nei parà e sta per partire, per coronare il suo sogno di indossare la divisa, il basco della Folgore e di lanciarsi da un aereo con un paracadute. Il suo volo, invece, finisce ancora prima di iniziare, perché quel proiettile gli spezza le ali.
E come è successo per Ciavatta e Bigonzetti, anche l’assassino di Stefano Recchioni resta impunito: ma non senza volto, perché il suo nome è Eduardo Sivori, ed è il capitano dei carabinieri che quei testimoni hanno visto sparare. Nei verbali, però, si parla di legittima difesa, perché il capitano sostiene di aver sparato ma solo dopo che il suo gruppo è stato aggredito e che ai colpi sparati in aria dai carabinieri hanno fatto seguito quelli sparati da alcuni militanti di destra; e, solo allora, Sivori sostiene di aver abbassato il tiro, sparando ad altezza d’uomo e centrando involontariamente in fronte Stefano Recchioni. La versione ufficiale, quella contenuta nell’intervento del ministro dell’Interno Francesco Cossiga il 10 gennaio alla camera dei deputati, recita:
…il gruppo di dimostranti reagiva esplodendo colpi d’arma da fuoco contro l’ufficiale (…) L’ufficiale era costretto a prendere posizione dietro l’autovettura militare per difendersi dall’attacco e con la propria pistola d’ordinanza esplodeva tre colpi in aria, ma permanendo lo stato di pericolo ed essendosi la sua pistola inceppata, si muniva di un’altra arma in dotazione al reparto. Da parte dei dimostranti continuavano il lancio di sassi e gli spari contro l’ufficiale, il quale veniva colpito dai sassi al ginocchio e alla spalla, per cui cadeva a terra e dall’arma che impugnava partivano due colpi.
Uno di quei colpi, colpisce in piena fronte Stefano Recchioni. Una versione ridicola che, per certi versi, ricorda quella di Spaccarotella, di quel colpo sparato per disperdere il gruppo di tifosi laziali e juventini che si stanno scontrando nell’autogrill di Badia al Pino e che deviato dall’impatto su una rete metallica casualmente colpisce e uccide Gabriele Sandri. Come “Gabbo”, anche Stefano è un bel ragazzo e un artista: ama la musica e ha anche una passione sfrenata per il disegno. Non muore sul colpo, muore dopo due giorni di agonia in ospedale, senza essere mai uscito dal coma.
La quarta vittima di Acca Larentia, è Alberto Giaquinto, ucciso il 10 gennaio del 1979 in occasione della commemorazione del primo anniversario della strage. Alberto, che sta in compagnia di Massimo Morsello (un cantautore di destra che dopo l’uccisione dell’amico entra a far parte dei Nar), viene ucciso dall’agente di polizia Alessio Speranza durante gli scontri a Centocelle tra militanti di destra e le forze dell’ordine.
A dire il vero, le vittime della strage di Acca Larentia sono 5, perché il padre di Francesco Ciavatta, che non si è mai ripreso per la morte del suo unico figlio, pochi mesi dopo si toglie la vita straziato dal dolore. Lo fa in modo drammatico, bevendo fino all’ultimo goccio una bottiglia da un litro di acido muriatico, seduto da solo su una panchina dei giardinetti vicino casa.
La strage spinge tanti a prendere la decisione di imbracciare le armi e di imboccare la strada senza ritorno della lotta armata. È la scintilla che da il via ad un vero e proprio incendio. Sull’onda emotiva di quella strage, ad esempio, nascono i Nar, come conferma anni dopo Francesca Mambro, che all’epoca è solo una militante missina presente ad Acca Larentia per quel sit-in di protesta degenerato con l’uccisione di Stefano Recchioni. Ma vicino a lei vede morire Stefano Recchioni e davanti a quel sangue giura che, mai più, si farà trovare disarmata. Quella strage, segna anche la rottura tra tantissimi giovani di destra e l’apparato dirigente del Msi, rappresentato quel giorno ad Acca Larentia da Gianfranco Fini e Maurizio Gasparri, oltre che da Teodoro Buontempo.
Eravamo pochi, ci conoscevamo più o meno tutti. Con Francesco Ciavatta, poi, avevamo militato insieme nel circolo di via Noto. La reazione immediata, mia e di tanti, fu la paralisi, come quando ti muore un parente. Ci guardavamo in faccia senza capire e senza sapere che fare, mentre dalle varie sezioni della città affluivano gli altri. Il Movimento sociale italiano non ebbe alcuna reazione nei confronti dei carabinieri, probabilmente per difendere interessi e posizioni che non avevano nulla a che fare con la nostra militanza. Noi ragazzini venivamo usati per il servizio d’ordine ai comizi di Almirante, quando serviva gente pronta a prendere botte e a ridarle, ma in quell’occasione dimostrarono che se per difenderci bisognava prendere posizioni scomode, come denunciare i carabinieri e il loro comportamento, allora non valeva la pena. Per la prima volta i fascisti si ribellarono alle forze dell’ordine. Acca Larentia segnò la rottura definitiva di molti di noi con il Msi. Quell’atteggiamento tiepido e imbarazzato nei confronti di chi aveva ucciso Stefano Recchioni, significava che erano disposti a sacrificarci pur di non mettersi contro le forze dell’ordine. Non poteva più essere casa nostra. Per la prima volta e per tre giorni i fascisti spareranno contro la polizia. E questo segnò un punto di non ritorno. Anche in seguito, per noi che non eravamo assolutamente quelli che volevano cambiare il Palazzo, rapinare le armi ai poliziotti o ai carabinieri avrà un grande significato. Che lo facessero altre organizzazioni era normale, il fatto che lo facessero i fascisti cambiava le cose di molto, perché i fascisti fino ad allora erano considerati il braccio armato del potere.
Quel 7 gennaio è sabato e la notizia della strage ci è arrivata con il passaparola mentre usciamo dalla discoteca. Il tempo di radunarci e ci precipitiamo con i motorini per raggiungere una zona a noi sconosciuta, fuori dalla nostra contea, dai nostri “confini”. Ma in quel momento nessuno si preoccupa di questo. Di quella sera ricordo solo i volti stravolti dalla rabbia, le urla, ragazzi che camminano in silenzio e il sangue. Sangue ovunque. Tre pozze di sangue, a distanza di pochi metri, circondate da ragazzi e uomini che in silenzio e a testa bassa fissano quelle chiazze di morte. Ci sono dei lumini, tanti fiori, ma nessuno osa toccare quel sangue, che resterà in terra per giorni, fino a dopo la morte di Stefano Recchioni e dei funerali. E su quella piazza, da quel giorno, ogni anno si radunano centinaia di camerati. Gente come me con i capelli ingrigiti, ma anche ragazzi che gli anni di piombo non li hanno vissuti, ma li hanno conosciuti solo dai racconti di genitori e altri camerati, oppure li hanno vissuti attraverso i tanti libri che hanno raccontato quegli anni e quel vento di follia.

FONTE: http://www.sslaziofans.it/contenuto.php?idContenuto=30341