martedì 17 aprile 2018

Franco Colombo, Simbolo Immortale del Fascismo

 
 
FRANCESCO "FRANCO" COLOMBO, COMANDANTE DELLA "MUTI"
 EROE IMMORTALE


Un estratto del suo discorso al momento dello scioglimento della Legione Autonoma:
«Ragazzi, è finita. Abbiamo tenuto duro fino in fondo. Ci siamo battuti, duramente, perché nessuno pensasse che la nostra sconfitta fosse dovuta a viltà; perché l'onore è necessario ad un popolo per sopravvivere; perché l'Italia riprendesse quel posto segnato da millenni di storia. Per il domani, una volta raggiunta la pace, vi sono speranze. Forse molte più di quanto non immaginiamo. E' necessario riaffermare il valore sacro dei nostri principi, i principi del Fascismo.
Dovremo denunciare i futuri falsificatori della Storia, indicandoli come dei servili mercanti. La storia della nostra Legione è stata breve ma intensa. Non disperdiamone il seme. »
 

 
 
 Davanti al plotone di esecuzione disse: 
“FATE VELOCE A FUCILARMI CHE MI FATE SCHIFO E NON SIETE DEGNI DI STARMI DAVANTI”  concluse con :
“ E ANDATE A CAGARE”
 dopodichè partì la scarica di mitra
 

1922
 

Una immagine della “Randaccio”, che poi confluirà nella “Sciesa”, facendone la più forte squadra milanese, tra gli squadristi ritratti ci dovrebbe essere anche Franco Colombo, il futuro Comandante della “Muti
 
FRANCO COLOMBO : IN CARCERE MA INNOCENTE
 
Dopo la conquista del potere, personaggi come Colombo divennero “naturalmente” scomodi per il fascismo, che pure tanto al loro doveva e al quale loro non volevano rinunciare. Molti sparirono dalla scena pubblica, altri a malincuore, per ragioni alimentari, si intrupparono nella Milizia, il futuro Comandante della Muti continuò a frequentare l’ambiente milanese (il suo nome compare spesso in allarmati rapporti prefettizi su manovre “di fronda”), nel quale poteva contare sull’amicizia del federale Giampaoli e dello stesso Arnaldo Mussolini. Diventato responsabile del Gruppo Rionale Fascista “Ludovico Montegani” ebbe modo di mettere in mostra le sue capacità organizzative, finche non incappò in un brutto incidente. La sera del 19 settembre del 1926, accompagnato da un iscritto al gruppo, tale Franco Giuseppe Carbone, si reca ad incontrare l’avvocato Alessandro Garavaglia, esponente anche lui del fascismo locale, per regolare alcune questioni finanziarie in sospeso (i due avevano avuto in comune un’impresa di auto pubbliche poi fallita). La discussione si fa animata, finchè si intromette il Carbone che spara all’avvocato, uccidendolo. Ci sono testimoni (e la vecchia ruggine è nota), per cui nel giro di poche ore lo sparatore e Colombo sono associati a San Vittore. Dopo sei mesi la piena confessione del Carbone che si assume ogni responsabilità e l’accertata assenza di ogni premeditazione, fanno però scarcerare Colombo, accolto all’uscita dal carcere da una manifestazione di affetto dei suoi uomini. Meno ben disposti si dimostrano i dirigenti locali del fascismo: Giampaoli non può difenderlo più di tanto perché a sua volta oggetto di attacchi di “cordate” avverse, e il 9 aprile del ’27 Colombo è espulso dal Partito per indegnità, nonostante la sua estraneità al fatto delittuoso sia provata. Da allora in poi tirerà avanti con fatica, con lavoretti che lo porteranno anche in Sicilia per un certo periodo, finchè, a luglio del ’43, per vie non ancora ben chiarite sarà tra gli squadristi in cerca di un contatto con Muti e in attività per trovare il modo di liberare Mussolini Nelle ore immediatamente successive alla resa riapre la federazione milanese, con un gruppo di vecchi squadristi, e il 18 fonda una squadra, la “Ettore Muti”, con sede in via della Zecca Vecchia.

Il biglietto che da carcere Colombo indirizzò a Mussolini, un'altra prova 
che non era proprio l'ultimo arrivato sulla scena del primo fascismo milanese

Francesco Colombo, detto "Franco" nato a Milano, 26 luglio 1899 – ucciso a Lenno, 29 aprile 1945).
Fu il comandante della Legione Autonoma Mobile Ettore Muti.
Nel 1918, arruolato nel Regio Esercito insieme ai cosiddetti "Ragazzi del '99", partecipò alla prima guerra mondiale come aviere e fu squadrista della prima ora. Dopo la conquista del potere da parte del fascismo divenne responsabile del Gruppo rionale "Montegani" intitolato ad un aviatore caduto nella prima guerra mondiale.
 
MILANO OTTOBRE 1943 FRANCO COLOMBO CON I SUOI LEGIONARI

L’ESEMPIO DI GARIBALDI
Franco Colombo, sotto accusa per alcune discutibili adesioni alla Muti, spiega le sue ragioni al federale Resega: “Quando Garibaldi partì da Quarto per andare a liberare l’Italia, non chiese ai suoi garibaldini di presentare all’imbarco sul Rubattino il certificato penale. Eppure, fece l’Italia ! Io, che tu dici che sono un balordo, con i miei balordi faremo piazza pulita dei traditori, dei gerarchi vigliacchi, del’antifascismo....Li hai visti i gerarconi di allora dare adesione al nuovo fascismo repubblicano ? No ! Quelli non ci sono più, hanno tradito. Ma ci siamo noi ora, Resega. Sta tranquillo che ce la faremo !”

(in: Massimiliano Griner, La pupilla del duce, Torino 2004)







IL COMUNICATO DELL'INCONTRO TRA COLOMBO E MUSSOLINI
AVVENUTO A GARGANO L' 8 OTTOBRE 1944

La squadra d'azione Ettore Muti
Il 18 settembre 1943, fu costituita ufficialmente la Squadra d'Azione Ettore Muti inglobando altre quattro squadre formatesi precedentemente sotto il comando di Francesco Colombo. Le prime reclute furono arruolate tra fascisti di provata fede.
Quando Aldo Resega, nuovo segretario cittadino del risorto Partito Fascista Repubblicano, lo incontrò per la prima volta dopo la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, mentre si stava installando nei locali della federazione del P.F.R. criticò la presenza all'interno della squadra di alcuni elementi di dubbia moralità e gli chiese di operare una selezione, ma Colombo gli rispose:
« Quando Garibaldi partì da Quarto per andare a liberare l'Italia non chiese ai suoi garibaldini di presentare all'imbarco sul Rubattino il certificato penale...Eppure fece l'Italia! Io, che tu definisci un balordo, con i miei balordi, farò piazza pulita dai traditori, dai gerarchi vigliacchi, dall'antifascismo...Li hai visti i gerarconi di allora aderire al nuovo fascismo repubblicano?


No!... quelli non ci sono più: hanno tradito! Ma ci siamo noi ora, stà tranquillo, Resega, che ce la faremo! Tutti i giorni ci ammazzano e tu vuoi che si faccia la fine del topo? Quali forze abbiamo che facciano rispettare le nostre vite, le nostre famiglie e le nostre case? Ora provvederà lo squadrismo milanese! »
(Francesco Colombo rispondendo alle obiezioni del federale Aldo Resega)
Questa presa di posizione determinò la nascita di due distinte correnti nella città di Milano: quella moderata, che faceva capo allo stesso federale Aldo Resega e poi a Vincenzo Costa e sostanzialmente alla maggioranza degli iscritti al Partito Fascista Repubblicano, e quella estremista, capeggiata dal comandante della Muti.
Il 16 dicembre, come testimoniato dal vice federale Vincenzo Costa, si approvò nel corso di una riunione del PFR lo scioglimento della Squadra d'Azione:
« Resega aveva presentato un elenco di elementi dal passato turbolento, già espulsi dal vecchio partito e tra quelli da


eliminare dalla vita politica del nuovo partito erano nomi noti, tra i quali Alemagna, vice comandante della squadra Muti, e l'avvocato Mistretta. Anche il capo della squadra politica aveva redatto un simile elenco che in qualche caso coincideva con quello di Resega. Lo scioglimento delle squadre d'azione avrebbe provocato certamente la ribellione di alcuni loro componenti, che avrebbero visto nei provvedimenti un cedimento che lasciava campo libero agli antifascisti; il questore Coglitore assicurò al ministro degli Interni che l'arresto dei designati all'epurazione sarebbe avvenuto da mezzanotte all'alba del 19 dicembre con un'operazione simultanea. »
(Vincenzo Costa nel suo diario in data 16 dicembre 1943)
Ma furono gli omicidi, commessi dai GAP, di Piero de Angeli il 17 dicembre e la mattina dopo dello stesso federale Aldo Resega a far prevalere momentaneamente la fazione di Colombo e della sua Squadra.
« Da oggi noi squadristi prenderemo il comando di Milano; basta con la bontà, con la generosità: qui ci fanno fuori tutti! »
(Dichiarazione di Francesco Colombo in seguito all'omicidio di Aldo Resega)

Colombò elevò a federale di Milano, Dante Boattini. Il questore Domenico Coglitore che si era dimesso in seguito all'omicidio di Aldo Resega fu sostituito con il colonnello Camillo Santamaria Nicolini. Il nuovo federale Boattini decise di non procedere più allo scioglimento della "Muti".




Comandante della Legione Autonoma
Mobile Ettore Muti
 
La Legione Autonoma Mobile Ettore Muti nacque ufficialmente il 18 marzo 1944 e Colombo fu nominato questore dal Ministro degli Interni Guido Buffarini Guidi, grado corrispondente nell'esercito al grado di colonnello.
Il 19 marzo 1944 Colombo partì per il Piemonte insieme ai primi scaglioni della Legione che si recavano in zona operativa (1º Battaglione “Aldo Resega”, 2º Battaglione “De Angeli” e Compagnia speciale "Baragiotta"). Costituì quindi il comando nell'ex sede della Gioventù italiana del littorio di Cuneo. Rientrò a Milano il 27 marzo lasciando il comando delle operazioni militari al tenente colonnello Ampelio Spadoni. Qui i reparti della "Muti" furono impiegati principalmente nel presidio delle principali località del cuneese e nell'attività di rastrellamento. Dopo il 28 maggio alcune compagnie furono dislocate anche nel vercellese.
Il 7 giugno in località Brossasco Colombo fu lievemente ferito nel corso di una imboscata mentre effettuava uno dei suoi consueti giri di ispezione nel cuneese, mentre il 14 agosto assumendo direttamente il comando della Compagnia Speciale "Baragiotta-Salines" partecipò a un rastrellamento a Varzi in provincia di Pavia.

 
Il ridotto della Valtellina
 
Negli ultimi giorni della RSI, anzi nelle ultime ore, Colombo suggerì al Duce di preferire il ridotto valtellinese assicurando che anche in quello i "documenti" (il famoso carteggio oggetto delle mire di Winston Churchill) sarebbero stati protetti altrettanto bene che in Svizzera. Quando Mussolini lasciò Milano fu scortato anche da arditi della "Muti". Colombo, dopo aver inutilmente atteso i reparti provenienti dal Piemonte, partì per Como il 26 aprile con circa 200 legionari rimasti ancora a Milano ricongiungendosi con Pavolini. Avendo perso Mussolini nel frattempo ripartito per Menaggio la colonna fascista stipulò un accordo con il CLN per avere libero transito, ma il mattino del 27 aprile, contravvenendo agli accordi, i partigiani bloccarono la strada presso Cernobbio intimando la resa. I reparti fascisti furono sciolti. Anche Colombo si risolse a sciogliere i reparti della "Muti":
« Ragazzi, è finita. Abbiamo tenuto duro fino in fondo. Ci siamo battuti, duramente, perché nessuno pensasse che la nostra sconfitta fosse dovuta a viltà; perché l'onore è necessario ad un popolo per sopravvivere; perché l'Italia riprendesse quel posto segnato da millenni di storia. Ma ora ho il dovere di impedire inutili spargimenti di sangue. Mi hanno assicurato che quelli che non si sono macchiati di gravi reati saranno lasciati liber. Questo è il momento più brutto della nostra vita, ma dobbiamo sopravvivere. Per il domani, una volta raggiunta la pace, vi sono speranze. Forse molte più di quanto non immaginiamo. E' necessario riaffermare il valore sacro dei nostri principi, i principi del Fascismo. Dovremo denunciare i futuri falsificatori della Storia, indicandoli come dei servili mercanti. La storia della nostra Legione è stata breve ma intensa. Non disperdiamone il seme. »
(Francesco Colombo scioglie i reparti della "Muti" giunti fino a Como)
Telegramma di Mussolini a Colombo nel primo anniversario della fondazione della Muti
La Legione Autonoma Mobile Ettore Muti è sciolta da Colombo alle 8 del mattino del 27 aprile. Il Comandante raduna i suoi uomini nella piazza dell’imbarcadero di Como e comunica loro malinconicamente che il giuramento alla RSI è da ritenersi sciolto. Riaffermeremo ovunque i principi sacri del Fascismo. La storia della nostra Legione è stata breve, ma intensa. Non disperdiamone il seme. Questo è il momento più brutto della nostra vita, ma l’Italia dovrà un giorno riprendere quel posto tracciato da millenni di storia. La nostra battaglia sarà la medesima: lo spirito al di sopra della materia, l’eroismo come legge morale. Sono certo che nessuno di voi, tornando dai propri cari, dimenticherà l’alto insegnamento etico che la Legione, schieramento di punta del Fascismo in armi, vi ha fornito in questo breve periodo. Protettori dei deboli e dei diseredati, amici degli umili, temerari come nessuno in battaglia, voi arditi avete onorato la sacra consegna del Duce e dei nostri martiri. Grazie ragazzi: sono orgoglioso di voi! Quando Colombo pronuncia le ultime parole con cui li congeda, gli arditi hanno gli occhi lucidi, i loro volti sono rigati dalle lacrime. Sentono dentro la loro anima tutto il peso di una sconfitta di civiltà, per realizzare la quale si sono mobilitate le più alte potenze plutocratiche e tecnocratiche della storia. Un immenso sentimento di malinconia, struggente e inspiegabile, rimarrà nell’anima a ricordo dell’esperienza legionaria. Ma quasi tutti, tra loro, saranno uccisi nella via del ritorno. Decine e decine, vittime di stragi, saranno brutalmente eliminati in seguito a torture. Alcuni, non identificati, spariranno bruciati negli inceneritori nei sotterranei della stazione centrale di Milano. Quei pochissimi che, invece, riusciranno miracolosamente a sopravvivere saranno guardati con diffidenza ed ostilità da tutti in quanto “mutini”, “fascisti della Muti”…. Colombo, invece, catturato a Cadenabbia il 27 aprile del 1945 dove era in missione alla ricerca di Mussolini, sarà fucilato a Lenno alle 13 del 29 aprile (non del 28 aprile come hanno riportato erroneamente una serie di storici, copiandosi a vicenda). Quando gli comunicano che Mussolini è stato ucciso, che molti suoi arditi sono stati passati per le armi, dice di voler morire. Dopo il processo-farsa, alla fine del quale apprende dai carcerieri di essere condannato a morte, Colombo risponde soltanto: “finalmente!”. Poco prima di essere fucilato, alla domanda se ha bisogno dell’assistenza spirituale di un prete, risponde: “Non ho niente di cui pentirmi”. Dopo avergli legato i polsi dietro le spalle con un fil di ferro, i partigiani gli chiedono quale è il suo ultimo pensiero. Colombo, con un berretto nero, alla sciatora in testa, molto simile a quello delle Brigate Nere, risponde in dialetto milanese: “Andate a cagare…siete solo dei vigliacchi…Viva il Duce!”. Sereno, fissandoli negli occhi, ripete ai partigiani: “Femm dumà prest” (Fate solo presto!). La raffica di mitra dei partigiani, ormai deceduto il Comandante, tinge di rosso il berretto nero disceso frattanto sul petto. Sono i rivoli di sangue che sgorgano copiosi… Dopo la morte del Comandante, in diversi casi agenti dei servizi segreti anglosassoni penetreranno e perquisiranno le abitazioni dei parenti di Colombo, nella disperata ricerca di documenti altamente compromettenti per la storia dell’Inghilterra, documenti che – è lecito pensare – il Duce, in virtù della stima e della fiducia, dette nelle mani del Comandante. Dopo la guerra, decine di persone si presenteranno a casa del fratello del Comandante, rimasto disoccupato ed osteggiato in quanto legato addirittura da vincoli di sangue all’estremista fascista Franco Colombo, per offrire aiuto e lavoro, in quanto – secondo la loro stessa testimonianza – “ebbero la vita salva grazie al Colombo….”. Lo stesso neofascismo italiano ha sempre ignorato ed in molti casi disprezzato la figura del Comandante Colombo, al punto da preferirgli esplicitamente figure di importazione come ad esempio Degrelle o Skorzeny. Ora, se è vero che queste ultime sono figure degne del massimo rispetto, è anche vero che sono figure completamente estranee, per mentalità ed orizzonti, allo squadrismo fascista rivoluzionario. Viceversa Colombo, incarna fino in fondo l’essenza mistico-squadrista del Fascismo. Ne ha portato fino alle più limpide soglie l’etica di fedeltà e sacrificio. Franco Colombo torna in prima linea dopo l’8 settembre, quando la sorte negativa del fascismo incombe minacciosa. E’ una scelta da autentico testimone. Con estrema coerenza, il Comandante ha rialzato la bandiera nera nel momento della tragedia, servendo con animo da apostolo la più mistica e la più mediterranea delle idee. Si può dunque azzardare che il Comandante della “Muti”, nella Storia, è, dopo il Duce Mussolini, nella schiera dei fascisti più determinati ed intransigenti. Franco Colombo è dunque il simbolo immortale del Fascismo.

UFFICIALI E SOTTUFFICIALI DELLA 
LEGIONE AUTONOMA "ETTORE MUTI"
Forza della legione : Ufficiali 69, sottufficiali 89, graduati 44, 
arditi 1.306, per un totale di 1.508 effettivi.

29 APRILE 1945-LAGO DI COMO
IL COLONNELLO FRANCO COLOMBO (CHE SI INTRAVVEDE DENTRO IL FINESTRINO) VIENE PORTATO DAI PARTIGIANI A LENNO,, PER ESSERE FUCILATO CONTRO IL MURO DI UN BAR , DOVE ALCUNI MESI PRIMA, SI ERA SVOLTO UN 
CONFLITTO TRA FASCISTI E PARTIGIANI

LA MORTE DI UNO SQUADRISTA
 
“Verso le 13 di domenica 29 aprile 1945 (non del 28 come solitamente si riporta), i polsi assicurati dietro le spalle, legati con un fil di ferro, con la pioggerella che batte insistentemente, Colombo viene portato a Ganzo di Mezzegra, località scelta perché un anno prima qui furono fucilati sei partigiani, che avevano in precedenza colpito mortalmente quattro fascisti repubblicani
Alla domanda se ha bisogno dell’assistenza spirituale di un prete, risponde: “Non ho niente di cui pentirmi”
Lo sbattono con violenza contro il muro, in un angolo, vicino ad una pasticceria. I partigiani gli chiedono qual è l’ultimo pensiero che vuole esprimere. Colombo risponde in milanese: “Andate a cagare…Siete solo dei vigliacchi. Viva il duce !”
Il Comandante è fermo. Osserva con tranquillità negli occhi coloro che gli stanno per dare la morte. Ha le immagini dei suoi Arditi negli occhi della mente e nel cuor; sa già che molti di loro sono stati ferocemente uccisi, senza nessun rispetto della parola data…..
Ora si ritrova con le spalle appoggiate al muro, pochi istanti di vita davanti, il fil di ferro legato ai polsi dietro le spalle, i mitra piantati in faccia, la pioggia che batte senza tregua. Così muore l’ultimo squadrista
“E’ sereno, e guardandoli negli occhi, dice: “Femmdumàprest” (Fate solamente presto)
Partono le prime scariche di mitra. Cade in ginocchio, poi un’altra raffica, si accascia definitivamente su un fianco
Il suo berretto nero, mentre il corpo cade a terra, gli rotola sul petto; i rivoli di sangue che sgorgano, copiosi, dalle ferite, lo coprono di sangue”
(Luca Fantini, “Gli ultimi fascisti, Franco Colombo e gli Arditi della Muti”, Città di Castello 2007)
Franco Colombo era stato squadrista ai tempi della vigilia, nella “Randaccio” milanese; a lui si deve, in particolare, la presa di Palazzo Marino il 3 agosto del’22, quando, con altri due o tre compagni di squadra, passando da una finestra, si introdusse nella sede comunale e aprì il pesante portone di ingresso.
Giacinto Reale
OTTOBRE 1944

28 ottobre 1944 Milano
Da sinistra Colombo, comandante della Muti con Pavolini





 
L'ultima spedizione
 
Il figlio di Mussolini Vittorio e l'ex vice segretario del PRF Pino Romualdi anch'essi a Como furono convinti da un ufficiale del servizio segreto Alleato a raggiungere Mussolini a Menaggio per convincerlo a consegnarsi agli Alleati. Alla spedizione in partenza si unì anche Colombo. A garantire l'incolumità dei membri della spedizione fu Giovanni Dessy munito di un apposito lasciapassare ma a Cadenabbia, la piccola colonna formata da due macchine incappò in un posto di blocco partigiano. Nonostante Dessy mostrasse le credenziali del CLN. queste non furono prese in considerazione e gli occupanti delle vetture furono sequestrati e portati a San Fedele. Qui Dessy riuscì a far rilasciare Romualdi che non era stato riconosciuto. Colombo fu trattenuto per due giorni poi il 28 aprile fu condotto a Lenno e sommariamente fucilato. La sua tomba oggi si trova nel campo 10 del Cimitero Monumentale di Milano, dove sono sepolti i caduti della Repubblica Sociale Italiana.
 
 
Francesco Colombo, detto "Franco" nacque a Milano, 26 luglio 1899.
Colombo fu uno dei “ragazzi del '99” che nel 1918 partecipa alla Prima Guerra Mondiale come  aviere, contribuendo così al ricongiungimento all'Italia delle terre irredente.  Fascista della prima ora, Franco Colombo partecipa allo squadrismo fino alla presa del potere da  parte di Mussolini, diventando responsabile del gruppo rionale fascista “Montegani”.
Nel 1943 non esita ad aderire alla Repubblica Sociale Italiana, fondando il 18 settembre la  Squadra d'Azione Ettore Muti, intotalata appunto al soldato più decorato della storia d'Italia  vigliaccamente assassinato dai traditori della Patria.
La Squadra d'Azione Muti, composta da Fascisti di provata fede rappresentava l'ala più dura e  intransigente del Fascismo Repubblicano milanese, determinata a difendere ad ogni costo e con  ogni metodo la Patria dai banditi che collaboravano con l'invasore.
Gli omicidi di Piero De Angeli e di Aldo Resega da parte delle forze partigiane nel dicembre del  1943 accrescono ancora di più questa determinazione.
Il 19 marzo 1944 viene costituita la Legiona Autonoma Ettore Muti con l'approvazione del Ministro  dell'Interno Guido Buffarini Guidi. A Colombo venne assegnato il grado di Colonnello.
Da gruppo squadrista milanese il gruppo di Colombo diventa una vera e propria forza militare della  Repubblica Sociale Italiana. La Legione viene chiamata anzitutto a fronteggiare le bande  partigiane in Piemonte, in particolare nelle province di Cuneo e di Vercelli. La Legione Autonoma  Ettore Muti fu definita dal Duce “la mia pupilla”: a dimostrazione di questa grandezza, furono gli  stessi reparti della LAM a scortare Mussolini quando lasciò Milano.
Significativo è il pensiero di Colombo: il Fascismo come redenzione. La LAM aprì le porte a  moltissimi italiani (inquadrati nel reparto “Battaglione Ricostruzione Redenzione”) che vennero  salvati dalla deportazione in Germania o dal carcere forzato. Ad essi Colombo offrì la possibilità di  redimere i propri errori scegliendo la bellezza del combattimento per la Patria.
Negli ultimi giorni della RSI Colombo tenta di ricongiungersi a Mussolini al seguito di duecento  legionari, ma il 27 aprile, contravvenendo agli accordi, una colonna partigiana blocca la Muti  presso Cernobbio. Colombo, ritenendo doveroso evitare un inutile spargimento di sangue, accetta la resa e scioglie i reparti.
L'ultima spedizione di Colombo per raggiungere Mussolini si concluse con un altro blocco  partigiano sempre in violazione degli accordi; Franco Colombo verrà portato a Lenno e  sommariamente fucilato il 28 aprile 1945.
La sua tomba nel Campo X testimonia la vita di uomo che intese il Fascismo come sacrificio e  redenzione, fedele al comandamento secondo il quale non vi sono privilegi se non quello di  compiere il proprio dovere.
Lo ricordiamo con un estratto del suo discorso al momento dello scioglimento della Legione Autonoma:
 «Ragazzi, è finita. Abbiamo tenuto duro fino in fondo. Ci siamo battuti, duramente, perché  nessuno pensasse che la nostra sconfitta fosse dovuta a viltà; perché l'onore è necessario ad un  popolo per sopravvivere; perché l'Italia riprendesse quel posto segnato da millenni di storia. Per il  domani, una volta raggiunta la pace, vi sono speranze. Forse molte più di quanto non  immaginiamo. E' necessario riaffermare il valore sacro dei nostri principi, i principi del Fascismo.
Dovremo denunciare i futuri falsificatori della Storia, indicandoli come dei servili mercanti. La storia della nostra Legione è stata breve ma intensa. Non disperdiamone il seme. »
Mussolini a Milano, per il discorso del Lirico, sul predellino dell'auto Franco Colombo
MILANO 18 DICEMBRE 1944




Milano 1945
Il segretario del PFR Alessandro Pavolini e il comandante della "MUTI" Franco Colombo in visita alla caserma della Legione Autonoma "ETTORE MUTI" in via Rovello 



 



LEGIONARI DELLA MUTI


22 FEBBRAIO 1945
Legionari della  Muti, di picchetto allo stabilimento Caproni a Taliedo,
 con al centro il loro comandante Franco Colombo.

MILANO
Piero Parini e Francesco Colombo presso l'Arena Civica con gli arditi della Compagnia Giovanile "Alfiero Feltrinelli"
 
 
14 SETTEMBRE 1943
BATTAGLIONE DI COMBATTIMENTO VOLONTARI "ETTORE MUTI"



COLOMBO CON PAVOLINI AI FUNERALI DI ETTORE MUTI



L' ECO BERGAMO 1 MAGGIO 1945

 

MILANO CIMITERO MAGGIORE IL CAMPO X DEI CADUTI DELLA RSI
DOVE E' SEPOLTO FRANCESCO COLOMBO


 
 














 


La Legione Autonoma Mobile Ettore Muti è sciolta da Colombo alle 8 del mattino del 27 aprile. Il Comandante raduna i suoi uomini nella piazza dell’imbarcadero di Como e comunica loro malinconicamente che il giuramento alla RSI è da ritenersi sciolto.
Riaffermeremo ovunque i principi sacri del Fascismo. La storia della nostra Legione è stata breve, ma intensa. Non disperdiamone il seme. Questo è il momento più brutto della nostra vita, ma l’Italia dovrà un giorno riprendere quel posto tracciato da millenni di storia. La nostra battaglia sarà la medesima: lo spirito al di sopra della materia, l’eroismo come legge morale. Sono certo che nessuno di voi, tornando dai propri cari, dimenticherà l’alto insegnamento etico che la Legione, schieramento di punta del Fascismo in armi, vi ha fornito in questo breve periodo. Protettori dei deboli e dei diseredati, amici degli umili, temerari come nessuno in battaglia, voi arditi avete onorato la sacra consegna del Duce e dei nostri martiri. Grazie ragazzi: sono orgoglioso di voi! Quando Colombo pronuncia le ultime parole con cui li congeda, gli arditi hanno gli occhi lucidi, i loro volti sono rigati dalle lacrime. Sentono dentro la loro anima tutto il peso di una sconfitta di civiltà, per realizzare la quale si sono mobilitate le più alte potenze plutocratiche e tecnocratiche della storia. Un immenso sentimento di malinconia, struggente e inspiegabile, rimarrà nell’anima a ricordo dell’esperienza legionaria. Ma quasi tutti, tra loro, saranno uccisi nella via del ritorno. Decine e decine, vittime di stragi, saranno brutalmente eliminati in seguito a torture. Alcuni, non identificati, spariranno bruciati negli inceneritori nei sotterranei della stazione centrale di Milano. Quei pochissimi che, invece, riusciranno miracolosamente a sopravvivere saranno guardati con diffidenza ed ostilità da tutti in quanto “mutini”, “fascisti della Muti”…. Colombo, invece, catturato a Cadenabbia il 27 aprile del 1945 dove era in missione alla ricerca di Mussolini, sarà fucilato a Lenno alle 13 del 29 aprile (non del 28 aprile come hanno riportato erroneamente una serie di storici, copiandosi a vicenda). Quando gli comunicano che Mussolini è stato ucciso, che molti suoi arditi sono stati passati per le armi, dice di voler morire. Dopo il processo-farsa, alla fine del quale apprende dai carcerieri di essere condannato a morte, Colombo risponde soltanto: “finalmente!”. Poco prima di essere fucilato, alla domanda se ha bisogno dell’assistenza spirituale di un prete, risponde: “Non ho niente di cui pentirmi”. Dopo avergli legato i polsi dietro le spalle con un fil di ferro, i partigiani gli chiedono quale è il suo ultimo pensiero. Colombo, con un berretto nero, alla sciatora in testa, molto simile a quello delle Brigate Nere, risponde in dialetto milanese: “Andate a cagare…siete solo dei vigliacchi…Viva il Duce!”. Sereno, fissandoli negli occhi, ripete ai partigiani: “Femm dumà prest” (Fate solo presto!). La raffica di mitra dei partigiani, ormai deceduto il Comandante, tinge di rosso il berretto nero disceso frattanto sul petto. Sono i rivoli di sangue che sgorgano copiosi… Dopo la morte del Comandante, in diversi casi agenti dei servizi segreti anglosassoni penetreranno e perquisiranno le abitazioni dei parenti di Colombo, nella disperata ricerca di documenti altamente compromettenti per la storia dell’Inghilterra, documenti che – è lecito pensare – il Duce, in virtù della stima e della fiducia, dette nelle mani del Comandante. Dopo la guerra, decine di persone si presenteranno a casa del fratello del Comandante, rimasto disoccupato ed osteggiato in quanto legato addirittura da vincoli di sangue all’estremista fascista Franco Colombo, per offrire aiuto e lavoro, in quanto – secondo la loro stessa testimonianza – “ebbero la vita salva grazie al Colombo….”. Lo stesso neofascismo italiano ha sempre ignorato ed in molti casi disprezzato la figura del Comandante Colombo, al punto da preferirgli esplicitamente figure di importazione come ad esempio Degrelle o Skorzeny. Ora, se è vero che queste ultime sono figure degne del massimo rispetto, è anche vero che sono figure completamente estranee, per mentalità ed orizzonti, allo squadrismo fascista rivoluzionario. Viceversa Colombo, incarna fino in fondo l’essenza mistico-squadrista del Fascismo. Ne ha portato fino alle più limpide soglie l’etica di fedeltà e sacrificio. Franco Colombo torna in prima linea dopo l’8 settembre, quando la sorte negativa del fascismo incombe minacciosa. E’ una scelta da autentico testimone. Con estrema coerenza, il Comandante ha rialzato la bandiera nera nel momento della tragedia, servendo con animo da apostolo la più mistica e la più mediterranea delle idee. Si può dunque azzardare che il Comandante della “Muti”, nella Storia, è, dopo il Duce Mussolini, nella schiera dei fascisti più determinati ed intransigenti.
Franco Colombo è dunque il simbolo immortale del Fascismo.

 

CARLO BARZAGHI

CARLO BALDAZZI
AUTISTA DEL COLONNELLO COLOMBO FUCILATO NEI PRESSI DEI MERCATI GENERALI

 
 

CERTIFICATO DI MORTE DI FRANCESCO COLOMBO

 
CERTIFICATO DI MORTE DI FRANCESCO COLOMBO
rilasciato nel 1996

 

MEDAGLIA D' ORO LEO BARDI

MEDAGLIA D' ORO LEO BARDI

Tenente Leo Bardi della legione «Muti». Ardito di sicura fede, caduto prigioniero dei ribelli dopo un violento scontro, veniva sottoposto a giudizio e condannato a morte. Posto davanti al gagliardetto e a una bandiera rossa, baciava la fiamma della sua passione gridando « Viva il Duce ». Portato sul posto dell'esecuzione, gli veniva offerta salva la vita se avesse rinnegato la sua fede, ma egli respingeva sdegnosamente l'offerta e si disponeva per il supremo sacrificio davanti alla fossa da lui stesso scavata. Fatto segno ad una scarica a salve, veniva risparmiato e ricondotto in prigione. Dopo due giorni, ricondotto davanti al comandante del reparto dei ribelli, era ancora invitato a rinnegare la propria fede. Al nuovo e sdegnoso rifiuto veniva nuovamente portato sul posto dell'esecuzione, ma anche questa volta risparmiato nell'illusione di poterlo far ricredere. Per la terza volta invitato a baciare la bandiera rossa, le sputava contro e baciava il gagliardetto nero proclamando la sua indefettibile fede nel Duce e nell'Italia. Condotto per la terza volta all'esecuzione, veniva fucilato lasciando nei presenti viva, profonda commozione per tanta eroica fierezza e indomita fede.

 

EDIZIONE STRAORDINARIA DEL GIORNALE DELLA LEGIONE MUTI

EDIZIONE STRAORDINARIA DEL GIORNALE DELLA LEGIONE MUTI
 
 
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ROBERTO FARINACCI, PRESENTE !

ROBERTO FARINACCI


ROBERTO FARINACCI
(1892-1945)

Nato a Isernia nel 1892, fu volontario nella Prima Guerra Mondiale e partecipò alla fondazione dei Fasci di combattimenti nel 1919.Direttore nel 1922 del quotidiano "Cremona Nuova", fu segretario del fascio locale nel 1919-24 e nel 1925-29. La sua elezione a deputato nel 1921 fu annullata per la giovane età. Esponente del versante più intrasigente del fascismo, si oppose al patto di pacificazione del 1921 con i socialisti; dopo la Marcia su Roma, cercò di rinviare la scelta "legalitaria" e "normalizzatrice" di Mussolini, in nome di una "seconda ondata" del Fascismo. Membro del Gran Consiglio del Fascismo, divenne nel 1925 segretario generale del Partito Nazionale Fascista, ma mantenne tale carica per soli 13 mesi, a causa delle divergenze con Mussolini. Fu l'avvocato difensore degli imputati al processo per l'assassinio di Matteotti. Nel 1929 fondò a Cremona il quotidiano "Il regime fascista". Negli anni Trenta non ricoprì incarichi politici di rilievo: volontario nella guerra d'Etiopia, fu favorevole all'intervento in Spagna e all'introduzione delle leggi razziali nel 1938. Sostenitore dell'alleanza con Hitler, respinse l'ordine del giorno nella seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943. Fuggito in Germania, tornò nuovamente a Cremona, e durante la RSI si mantenne al di fuori della politica. Fu fucilato dai partigiani nel 1945 a Vimercate.



Roberto Farinacci nacque ad Isernia il 16 ottobre del 1892, da famiglia d’origine campana. Il padre, Commissario di Pubblica Sicurezza, venne nel 1900 trasferito nel nord: tutta la famiglia si spostò dapprima momentaneamente a Tortona, nell’Alessandrino, e quindi in via definitiva a Cremona. Il giovane Farinacci lasciò presto la scuola per cercare un lavoro, che trovò all'età di 17 anni, nel 1909, come dipendente delle ferrovie di Cremona, con la mansione di telegrafista ferroviario; il lavoro gli piacque assai, tanto che volle continuare a svolgerlo fino al 1921, quando già aveva iniziato una vivace carriera politico-giornalistica. Negli anni ’10 inizia a seguire le vicende politiche nazionali, interessandosi in particolare al Partito Socialista. Si avvicina così al concittadino cremonese Bissolati, che, espulso dal PSI con Bonomi in seguito al congresso di Reggio Emilia del 1912 (al quale aveva avuto successo Mussolini), aveva dato vita al Partito Socialista Riformista Italiano (PSRI), divenendo antesignano della socialdemocrazia dei futuri Partito Socialista Unitario (PSU) e Partito Socialdemocratico Italiano (PSDI). Chiamato come collaboratore al giornale di Bissolati “L'Eco del popolo”, si segnala con articoli di un certo rilievo a favore della Guerra di Libia. Nel frattempo, ripresi gli studi, riesce a conseguire brillantemente la licenza liceale e si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza di Modena, dove si laureerà, per cause belliche solo nel 1923 in una sessione speciale per ex combattenti, con il celebre giurista Prof. Alessandro Groppali. Occupatosi della riorganizzazione del sindacato contadino socialista, inizia a mostrare insofferenza nei confronti dei socialisti riformisti e a collaborare volontariamente con “Il Popolo d'Italia” di Benito Mussolini. Allo scoppio della
Grande Guerra si dichiara interventista, contrariamente alla maggior parte dei compagni riformisti, ma non di Bissolati, dichiaratosi anch’egli per l’intervento. La rottura con i socialdemocratici è però vicina e si consuma definitivamente dopo un discorso violentemente anti-irredentista che il vecchio Bissolati tenne, tra le proteste, a Milano. Col 24 Maggio del ’15 parte volontario e partecipa per alcuni mesi ai combattimenti, animando dal fronte il settimanale cremonese “La Squilla”. Ottiene tra l’altro una croce al merito.Con la Vittoria, rotto ogni legame col gruppo socialista riformista di Bissolati e con la massoneria, diventa seguace di Benito Mussolini e con lui fonda nel 1919 i Fasci di Combattimento; l’11 aprile dello stesso anno fonda il Fascio di combattimento di Cremona, cui da una connotazione intransigente, imperiosa e poco diplomatica, tollerando, se non addirittura incoraggiando, la veemenza squadrista. Lo squadrismo, del resto, ben si addiceva al carattere sanguigno di Farinacci, che interpretava la politica in modo “molto fisico e poco spirituale”. Fu così che la sua figura venne sempre più identificata, tanto dai Fascisti quanto dagli oppositori, come “l’inurbano fornitore di manganelli e olio di ricino”. I suoi modi in effetti erano sempre molto schietti: nelle sue lettere arrivava addirittura ad offendere e minacciare lo stesso Duce! Nel 1921 viene eletto Deputato a soli 29 anni: l’elezione viene così annullata per la giovane età. Nello stesso anno è con Dino Grandi e Italo Balbo nella ferma opposizione al cosiddetto patto di pacificazione con i socialisti promosso da Mussolini allo scopo di stemperare gli animi. Intanto opera instancabilmente, insieme ad Achille Starace, per una massiccia campagna di propaganda Fascista in diverse regioni Italiane, tra cui la Venezia Tridentina. Con l’approssimarsi 
della Rivoluzione diviene Console Generale della Milizia. Nel 1922 è tra gli organizzatori della Marcia su Roma e prova a rinviare la seconda scelta pacificatrice e normalizzatrice di Mussolini, sollecitata dalla Corona, in nome di una “seconda ondata di forza” del Fascismo. Tenta pertanto di ostacolare la manovra, ed anzi contesta la stessa creazione della Milizia, nella quale sarebbero dovuti confluire anche i "suoi" squadristi: Mussolini gli inviò allora il Quadrumviro Emilio De Bono che, con in mano un mandato di cattura a lui intestato, seppe essere molto persuasivo. Era nel frattempo divenuto Direttore del quotidiano “Cremona Nuova”, che nel 1929 diverrà Il Regime Fascista ed è Segretario del Fascio locale sino al 1929. Dal carattere energico e permaloso, affronta in questo periodi diversi duelli, tra cui il più faticoso risulta quello del 28 settembre 1924 col Principe Valerio Pignatelli, in cui patisce una ferita seria. E’ lui ad assumere la difesa in giudizio di Amerigo Dumini nel processo per l’omicidio del deputato socialista Giacomo Matteotti, ottenendone l’assoluzione. Membro del Gran consiglio del Fascismo, nel febbraio 1925 diviene Segretario Generale del Partito Nazionale Fascista ma resta in carica solo 13 mesi a causa di notevoli divergenze con Mussolini e il Governo, anche riguardo alle funzioni della sua carica. I suoi modi riuscirono anche a provocare uno stallo di diversi mesi nel lavoro diplomatico che il Regime stava intessendo con la Chiesa, che sarebbe stato coronato dal Concordato del 1929. Alla fine degli anni venti è al centro di una tumultuosa vicenda giudiziaria, denunciando, tramite l’ex Federale di Milano Carlo Maria Maggi, poi espulso dal partito, un presunto intrigo politico, con risvolti economici, perpetrato nel milanese dal Podestà Ernesto Belloni, dimessosi nel 1928 e dal Federale Mario Giampaoli, implicato nel gioco d’azzardo. Farinacci arriva ad accusare Giampaoli di tentato omicidio nei suoi confronti: il Giampaoli viene espulso dal partito nonché citato in giudizio e condannato in base a prove schiaccianti nel 1930. Dopo tale esperienza si isolò per qualche anno dalla vita politica, dedicandosi alla professione forense e giornalistica raggiungendo grandi risultati: si consideri che il suo giornale “Il Regime Fascista”, a diffusione limitata all'
 
Italia settentrionale, arrivò a vendere più copie del stesso “Popolo d'Italia”. Dalle colonne del suo quotidiano non lesinò attacchi ad alcuno; memorabile resta il suo violento attacco ad Arnaldo Mussolini, fratello del Duce e organizzatore delle Battaglie del Grano e del Rimboschimento, accusato, in modo dimostratosi poi del tutto infondato, di aver ricevuto finanziamenti occulti.Reintegrato nel 1935 nel Gran Consiglio del Fascismo, allo scoppio della Guerra d’Etiopia parte volontario nella Milizia e si segnala per incontenibile audacia ed ardimento. In guerra “il selvaggio Farinacci”, com'era affettuosamente chiamato dai suoi fedelissimi, si ritrovò con i bombardieri di Galeazzo Ciano, nuovamente insieme a Starace. Conquistò sul campo il grado di Generale. Rimase mutilato perdendo la mano destra in un banale incidente di campo. Rimpatriato, devolse in beneficienza il vitalizio spettantegli. L'esperienza africana gli valse una rivalutazione soprattutto sotto il profilo militare. Dopo il ritorno trionfale è tra i sostenitori dell’intervento armato per dirimere la questione spagnola nonché della politica di costante avvicinamento alla Germania nazionalsocialista. Inviato come osservatore militare in Spagna durante la guerra civile spagnola inviò importanti e lucide relazioni militari. Ammiratore del nazismo e di Hitler preme per l’introduzione delle leggi razziali in Italia e per una svolta razzista e antisemita del Governo. Strinse stretta amicizia con alcuni gerarchi del nazismo, come Goebbels, avvicinandosi sempre più alle posizioni del regime tedesco. Nel 1939 il Re lo nomina Ministro di Stato e Alto Dignitario della Corona. Contemporaneamente istituisce il “Premio Cremona”, destinato a tutti gli artisti Italiani. Scoppiata la guerra, Farinacci si fa strenuo sostenitore, presso il Re e presso il Governo, dell’assoluta necessità dell’entrata in guerra dell’Italia al fianco della Germania. Violentemente contrario alla non belligeranza del 1939, accese una infuocata polemica dalle colonne del suo giornale, talché si dovette spegnere con sequestri, controlli di polizia e faticosissimi richiami all'ordine. Quando poi, nel 1940, la guerra fu alfine dichiarata, Farinacci si diede al minuzioso controllo di potenziali traditori, doppiogiochisti e spie, rasentando sovente il grottesco.Considerato ormai anche dal Duce un fanatico, fu inviato nel 1941 in Albania quale ispettore governativo delle operazioni belliche. Qui criticò
violentemente Badoglio, provocandene l’ira e le dimissioni da Capo di Stato Maggiore. Tornato in Patria fu allontanato dalla vita pubblica. Informato del possibile cambio di Governo già nel giugno del 1943 forse dallo stesso Grandi, decise di discuterne col Re, col Duce e financo con Hitler, affinché si trovasse una soluzione; tuttavia nessuno dei tre gli diede udienza. Il 25 luglio 1943 criticò l’ordine del giorno Grandi e presentò una sua mozione, votata solo da lui stesso. In essa si chiedeva al Re di attuare una netta “svolta filo-tedesca”, anche con un nuovo Presidente del Consiglio. La stessa sera si rifugia nell'ambasciata tedesca ed il giorno successivo si trasferisce a Monaco.Torna a Cremona il 22 Settembre 1943, tentando di riprendere il controllo del suo giornale. Mal sopportando l’ingerenza tedesca, si ribella apertamente a questi; viene perciò allontanato e privato di ogni carica e durante la R.S.I. è completamente estromesso dalla vita politica. Insediatosi a Milano presso la Marchesa Medici del Vascello, forse l’unica donna di rilievo della sua vita, il 27 aprile 1945 decide di allontanarsi verso la Valtellina. Episodio curioso narrato da testimoni oculari, Farinacci chiede all’autista di sedersi dietro e di far guidare lui, benché privo di una mano; a Beverate, frazione di Brivio, trovatosi innanzi a un posto di blocco partigiano, decide di sfondarlo a tutta velocità, ma l'auto viene fermata da una raffica di mitra: l’autista muore sul colpo, la Marchesa Medici viene ferita mortalmente (morirà dieci giorni dopo in ospedale), Farinacci, ironia della sorte, si salva miracolosamente. Il mattino del giorno dopo, 28 aprile 1945, dopo aver passato la notte in una villa di Merate, subisce un processo sommario partigiano e viene fucilato barbaramente presso il municipio di Vimercate, nel Milanese.


Farinacci, che ha mantenuto un contegno distaccato e dignitoso, notata – tra la folla – la presenza di un prete, gli fà cenno di avvicinarglisi:<< … Ho bisogno di voi…>>. Il prete chiede (e ottiene) che li lascino soli; Farinacci scrive un ultimo saluto per la figlia e consegna il danaro che ha in tasca, perché venga distribuito ai poveri della città. Epilogo del processo sommario a Roberto Farinacci.

VIMERCATE 28 APRILE 1945 LA FUCILAZIONE DI FARINACCI


CIMITERO DI CREMONA LA TOMBA


ANITA BERTOLAZZI, LA SIGNORA FARINACCI
Storia di una donna che venne incarcerata per essere stata la moglie d'un Fascista
In quella che un tempo si chiamava Piazza Italo Balbo, sostano adesso i taxi in attesa dei clienti. La strada continua verso Piazza Cavour e allarga lo sguardo sulle acque del lago di Como. Le montagne si bagnano della luce del sole mentre cammino lungo la fila dei taxi silenziosi. Al nr. 2 (oggi la piazza è intitolata a Pietro Perretta) nell'aprile del 1945 si trovava il comitato di epurazione, luogo in cui venivano raccolte le denunce contro i fascisti. Negli anni, ascoltando alcune testimonianze e rileggendo le carte negli archivi, mi sono reso conto che, molto spesso, queste denunce non avevano alcun fondamento. Con una semplice indagine, quei castelli campati in aria non avrebbero retto. In verità bastava l'invidia, l'inimicizia per condurre un Fascista davanti ad una corte d'Assise straordinaria e, quasi sempre, davanti al plotone di esecuzione. Seduto su una panchina di pietra ripenso a quanti sono caduti da innocenti, colpevoli solo di aver combattuto lealmente. Per questo motivo i Fascisti e le Fasciste dell'esercito Repubblicano dovevano morire, subire l'onta dell'oblio per poter essere denigrati e sviliti dai loro carnefici. Perché i partigiani potessero raccontare un'unica verità, senza timore di essere smentiti. E non dobbiamo dimenticare i fratelli, i figli, i genitori, le mogli di coloro che decisero di difendere la Patria in armi. E il compito della storiografia, di chi sceglie di fare ricerca, non è tanto quello di confermare od opporsi ad una tesi. Piuttosto è quello di seguire la verità documentale: quindi prendendosi il disturbo di frequentare fisicamente archivi, fondazioni, biblioteche. Proprio in uno di questi archivi riesco a scoprire che, anche in assenza di apposita denuncia, si rischiava di finire in galera. Evidentemente bastava essere la moglie di un Fascista. Perché non si capisce davvero cosa dovesse scontare la moglie di Farinacci Roberto, visto che lo stesso non svolse nessun ruolo politico nella RSI, passando quei mesi ad amministrare Cremona. Roberto Farinacci viene catturato dai partigiani il 28 aprile 1945. Dopo un processo sommario e sbrigativo viene condannato alla fucilazione. (Farinacci mantiene un contegno dignitoso. Nota tra la folla un prete e chiede di poter rimanere solo con lui. Farinacci scrive così un ultimo saluto per la figlia e consegna il denaro che ha in tasca, chiedendo che venga distribuito ai poveri della città di Cremona). Caduto sotto le raffiche dei mitra (si rifiuta di essere fucilato alla schiena e porge il petto visto che non si considera un traditore) viene seppellito nel cimitero di Vimercate, sotto un ceppo di pietra, senza la pietà di un fiore o di una preghiera. I mesi trascorrono nel sangue e nel terrore rosso. Arriviamo così ai primi di settembre del 1945: la lettera del CLN di Como è datata 6/9/1945. Indirizzata alle diverse sedi dei partiti del comitato, viene evidenziato però il destinatario principale: il partito comunista. “Si trasmette copia della lettera qui pervenuta dalla R. Questura di Como con preghiera di esprimere il proprio parere circa l'opportunità o meno di togliere l'attuale stato di libertà vigilata nei confronti della Sig.ra BERTOLAZZI ANITA Vedova di Farinacci Roberto”. Anita Bertolazzi viene arrestata e tradotta alla Palestra Mariani il 2 maggio del 1945, quattro giorni dopo la fucilazione del marito. Successivamente, in data 23 maggio 1945, viene scarcerata e diffidata dal prendere dimora in casa del Signor Giovanazzi Piero, proprietario di un appartamento in Piazza Mazzini a Como. Nella trascrizione della lettera inviata dalla Questura si legge che “su richiesta della medesima Sig.ra Bertolazzi Anita veniva trasferita presso l'Istituto “Marcelline” della Divina Provvidenza situato in via Tommaso Grossi, dove trovasi tuttora in istato di libertà provvisoria”. Enrico Stella, presidente del CLN provinciale di Como, continua a trascrivere la missiva giunta dalla Questura, in quel giorno di settembre del 1945. Ed io, leggendola settant'anni dopo, sono costretto a ritornare ben due volte sulle ultime frasi. E, se ve ne fosse ancora bisogno, questo documento è la prova di come i comunisti intendessero amministrare la giustizia.
Dalla Questura fanno presente che “poiché fino ad oggi nessuna denuncia è stata presentata a carico della vedova del Farinacci si chiede il parere di codesto On.le Comitato [del CNL di Como, n.d.a.] per decidere se alla predetta signora possa essere tolta o meno l'attuale misura di sicurezza”. Il 12 settembre risponde la segreteria del partito comunista comasco, con una breve lettera che ha per oggetto “scarcerazione vedova di Roberto Farinacci”. In sole quattro righe, facendo riferimento alla lettera di Stella, ribadiscono che “il Partito Comunista ritiene che la detenuta in oggetto debba essere trasferita a Cremona e consegnata alle autorità locali per gli eventuali accertamenti a carico”. Anita Bertolazzi arriva a Cremona ma ha solo un desiderio: poter piangere sulla tomba di suo marito. Prendendosi cura di quel luogo portando dei fiori e le preghiere che fino a quel momento le sono state negate. Ed è possibile credere che la signora Anita abbia potuto trovare un po' di pace solo nel 1956, quando finalmente riesce a portare la salma del marito nel cimitero monumentale di Cremona.
Alessandro Russo

Da “ Il Giornale d’ Italia”















 




 

 

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domenica 15 aprile 2018

QUELLA NOTTE C'ERAVAMO TUTTI

 
ANCHE SE ORA VE NE FREGATE . . .
VOI QUELLA NOTTE,VOI, C'ERAVATE
 
LE PALLOTOLE NON HANNO FERMATO,
 NON FERMANO
E ... -MAI E POI MAI- 
 FERMERANNO UN SOGNO.
 
TRA POCHI GIORNI PRECISIAMO MEGLIO

45 ANNI SENZA GIUSTIZIA - I CAMERATI NON SCORDANO

 
Nessuno ha pagato
 
È facile e comodo quarant’anni dopo esecrare un crimine come quello di Primavalle. Era allora che si doveva dire la verità, rendere giustizia alle vittime e punire i colpevoli, ma i giornali non la dissero, e vedremo il perché. Sono passati quarant’anni dal rogo di Primavalle, quello in cui un bambino di dieci anni, Stefano, e un giovane di 22, Virgilio, persero la vita nell’incendio che distrusse la loro casa dove abitavano con i genitori e con i fratelli, rimasti tutti feriti in modo più o meno grave. Militanti di Potere Operaio, formazione extraparlamentare dell’epoca, appiccarono il fuoco all’appartamento popolare della famiglia Mattei, in via Bernardo da Bibbiena 33, lotto 15, scala D, interno 5, con della benzina, due litri, secondo le perizie. Gli assassini si chiamano Achille Lollo, Manlio Clavo e Marino Grillo, e per loro uccidere un fascista non era reato, anzi, un’operazione meritoria. Come sembrò anche in seguito a esponenti della sinistra italiana che per loro attivarono una rete di solidarietà formidabile, che giunse anche alla pubblicazione di un libretto, Primavalle, incendio a porte chiuse, in cui si sosteneva l’innocenza dei tre. Libretto redatto da un gruppo di giornalisti “democratici”. Dario Fo e Franca Rame si adoperarono per attivare “Soccorso rosso” in favore di chi aveva causato la morte di un bambino e di un giovane, e con loro altri autorevoli esponenti della sinistra, come Umberto Terracini, presidente dell’assemblea costituente, che oltre a Lollo difese anche Marini, l’omicida di Carlo Falvella, e Panzieri, condannato per l’assassinio di Mantakas. Ma non solo lui. Il quotidiano Lotta Continua il giorno dopo titolò: «La provocazione fascista oltre ogni limite: è arrivata al punto di assassinare i suoi figli». Sì, perché la tesi di tutte le sinistre e non solo delle sinistre fu quella di una faida interna tra fascisti, che per qualche settimana resse, per poi essere frantumata dalle perizie, dai fatti, dall’opinione pubblica, dalla magistratura e, nel 2005, dallo stesso Lollo che, dal Brasile, ammise che quella notte lui c’era e non da solo. Solo il Movimento Sociale e i suoi dirigenti e militanti conoscevano da tempo la verità, da sempre, e tentarono con ogni mezzo di diffonderla, vanamente; ma molti italiani neanche sapevano cosa fosse successo quella notte di 40 anni fa nel popolare quartiere di Primavalle, perché all’intera vicenda fu messa per decenni una sordina mediatica, i morti erano di serie B, figli di un dio minore, di loro non si doveva parlare e, soprattutto, gli assassini non erano tali. Non è successo solo per i morti di Primavalle, ma per tutti i morti “fascisti”, ignorati dall’opinione pubblica e dai mass media “democratici”.
Mario Mattei, il capofamiglia, era il segretario della sezione missina di Primavalle, la “Giarabub”, e il figlio maggiore, Virgilio, morto nel rogo, militava nei “Volontari nazionali”, formazione del Msi. Era una famiglia proletaria, di un quartiere popolare, ma era fascista, e questo l’intelleghentzia comunista non lo poteva tollerare: non poteva tollerare che il Msi a Primavalle non solo esistesse, ma che avesse anche un certo seguito. E così assalti e attentati erano quotidiani, come nelle sezioni dei Msi della vicina Monte Mario, via Assarotti, e in tutti gli altri quartieri popolari dove il Msi è stato sempre presente con rappresentanze significative: dal Prenestino a Portonaccio, da Torre Maura a Tor Pignattara, da Centocelle al Quadraro e in molti altri quartieri. E ovunque la sinistra tentava di cacciarli con le bombe, col fuoco, con aggressioni quotidiane, che talvolta costarono la vita ai giovani di destra. Nell’orazione funebre nella chiesa dei Sette Santo Fondatori il segretario del Msi Giorgio Almirante, che ebbe il non facile compito di gestire un movimento ostracizzato da tutti, perseguitato, disprezzato, odiato, disse tra l’altro che «questo crimine è talmente efferato che, pur conoscendone la precis amatrice politica, stentiamo a definirlo politico. Il teppismo, la delinquenza, non hanno colore», disse, ma poi, abbandonando la cautela con la quale cercò sempre di non scatenare una nuova guerra civile, aggiunse: «Il teppismo, no. La l’odio, l’odio sì. L’odio ha un solo colore, il colore rosso». E non sembri semplice retorica, perché questo sfogo in realtà apre uno squarcio sul clima di ossessiva intolleranza che caratterizzava quegli anni. La questione gira sempre intorno a quella frase, uscita direttamente dalla guerra civile italiana, «uccidere un fascista non è reato».
Il rogo era certamente annunciato, perché Potere Operaio aveva deciso una vasta offensiva contro il Msi di Primavalle: le autovetture e le moto dei “fascisti” avrebbero dovuto essere incendiate, così come gli esercizi commerciali di esponenti della destra nonché attentati con la benzina nelle loro abitazioni. Nei giorni precedenti Lollo, che abitava in zona e che si distinse anche come caporione del liceo Castelnuovo, vera palestra di demagogia e di violenza, si rivolse più volte ad Aldo Speranza, netturbino repubblicano amico dei Mattei, per sapere i nomi e gli indirizzi dei “fascisti” del quartiere per poi poterli colpire. In una occasione Speranza fu condotto da Lollo in un appartamento di Trastevere, “covo” dei radical-chic di Potop, abitato da Marino Clavo ma di proprietà di Diana Perrone, miliardaria nipote del proprietario del Messaggero, giornale che guarda caso sin dai primi giorni propugnò la pista interna per il rogo, poi smentita dai fatti e in tempi recenti dallo stesso Lollo, seguito in questa mistificazione della verità da tutti i quotidiani, anche quelli che oggi condannano il rogo di Primavalle perché costretti dalla storia. In questo appartamento poi furono trovati sia il nastro adesivo sia i fogli a quadretti usati per la rivendicazione. E in questo appartamento Lollo e gli altri mostrarono a Speranza l’esplosivo con cui fu fatta esplodere la sezione del Msi. E il 7 aprile effettivamente fu data alle fiamme la macchina del missino Marcello Schiaoncin in via Pietro Bembo, l’11 aprile una bomba devastava la sezione di via Domenico Svampa, atti rivendicati dalla “Brigata Tanas”. Fina alla mattina del 16 aprile con la strage a casa Mattei, anche questo rivendicato dalla Brigata Tanas. A fine anno l’istruttoria si concluse con il rinvio giudizio per i reati di strage, incendio doloso, pubblica intimidazione, fabbricazione, detenzione e porto di congegni esplosivi gli esponenti di Potere Operaio Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo, questi ultimi due latitanti. La sentenza è stata emessa dal giudice istruttore Francesco Amato su richiesta del pubblico ministero Domenico Sica. I tre furono condannati a 18 anni per omicidio preterintenzionale, ma Clavo e Grillo non hanno scontato neanche un giorno. Ma la grancassa antifascista ha sempre surrettiziamente continuato a propalare la tesi della faida interna, come poi fu fatto anche per altri omicidi di ragazzi, a cominciare da quello di Mantakas. Se Lollo nel 2005 non avesse confessato, per gli antifascisti di professione sarebbe ancora una faida, ed è su questo che bisogna riflettere: su come la macchina della menzogna gestita dalla sinistra ha modificato in questi anni la storia italiana. E nei casi in cui un Lollo non ha confessato, è rimasta solo la menzogna…
 
FONTE:http://www.secoloditalia.it/2013/04/sono-passati-40-anni-dal-rogo-di-primavalle-ma-alla-fine-nessuno-ha-pagato/
 
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domenica 8 aprile 2018

26 APRILE ORE 19.30 BRESCIA - AVANGUARDIA LOMBARDIA IN FESTA

 
LA COMUNITA' AVANGUARDISTA LOMBARDA
IN OCCASIONE DEL 58° ANNIVERSARIO
DELLA FONDAZIONE DI AVANGUARDIA NAZIONALE
ORGANIZZA
CENA COMUNITARIA
 
GIOVEDI' 26 APRILE
ORE 19:30
BRESCIA
 
ERAVAMO, SIAMO E SAREMO........
 
 
 
 


giovedì 5 aprile 2018

IL GIRO DELLA VERGOGNA

 

Cercando su Google "bositalia.org", lo stesso motore di ricerca rimanda a"busitalia", un sito che parla di viaggi in pullman ...
Chissà perchè... ci sarà un motivo...

FORSE PERCHE' SI VUOLE A TUTTI I COSTI NASCONDERE LA VERGOGNA
DI UNO STATO TERRORISTA - QUELLO D'ISRAELE -
RESPONSABILE DEL GENOCIDIO DEL POPOLO PALESTINESE
COL COLPEVOLE SILENZIO DI QUASI TUTTO IL MONDO




QUEL VANITOSO FAN DI STALIN

 
QUESTO AD ULTERIORE COMPLETAMENTO DEL NOSTRO PRECEDENTE ARTICOLO SUL PERSONAGGIO IN QUESTIONE
 
SANDRO PERTINI: IL PRESIDENTE VANITOSO, COLLERICO
 E FAN DI STALIN
 
Ah, Sandro Pertini, il presidente della repubblica più amato dagli italiani. Il presidente della gente, dei bambini, il fumetto con la pipa, il presidente-partigiano che esce dal protocollo. L'Impertinente. Il Puro. A quarant'anni dalla sua elezione al Quirinale, in un diluvio celebrativo, uscirà domani al cinema un film agiografico su di lui. Noi vorremmo integrare il santino raccontando l'altro Pertini.
Alla morte di Stalin nel '53, il compagno Pertini, già direttore filo-sovietico dell'Avanti! e all'epoca capogruppo socialista celebrò il dittatore in Parlamento. Ecco cosa disse su l'Avanti!: «Il compagno Stalin ha terminato bene la sua giornata, anche se troppo presto per noi e per le sorti del mondo. L'ultima sua parola è stata di pace. (...) Si resta stupiti per la grandezza di questa figura... Uomini di ogni credo, amici e avversari, debbono oggi riconoscere l'immensa statura di Giuseppe Stalin. Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto». Quell'elogio, mai ritrattato da Pertini, neanche dopo che si seppero tutti i crimini di Stalin, non fa onore a un combattente della libertà e dei diritti dei popoli.

PORZUS
Da Presidente della Repubblica il compagno Pertini concesse appena fu eletto, la grazia al boia di Porzus, l'ex partigiano comunista Mario Toffanin, detto "Giacca", nonostante questi non si fosse mai pentito dei suoi crimini per i quali era stato condannato all'ergastolo. Toffanin fu responsabile del massacro di Porzus, febbraio 1945: a causa di una falsa accusa di spionaggio, furono fucilati ben 17 partigiani cattolici e socialisti (la "Brigata Osoppo"), da parte di partigiani comunisti (Gap). Tra loro fu trucidato il fratello di Pasolini, Guido.
Dopo la grazia di Pertini a Toffanin lo Stato italiano concesse al criminale non pentito pure la pensione che godette per vent'anni, insieme ad altri 30mila sloveni e croati «premiati» dallo Stato italiano per le loro persecuzioni antitaliane. Pertini partecipò poi commosso al funerale del presidente jugoslavo Tito (1980), il primo responsabile delle foibe, baciando quella bandiera che destava terribili ricordi negli esuli istriani, giuliani e dalmati.
Pertini fu uno spietato capo partigiano. Il suo nome ricorre in molte vicende. Per esempio, quella della coppia di attori Valenti-Ferida. Luisa Ferida aveva 31 anni ed era incinta di un bambino quando fu uccisa dai partigiani all'Ippodromo di San Siro a Milano assieme a Osvaldo Valenti, il 30 aprile 1945, accusati di collaborazionismo, per aver frequentato la famigerata Villa Triste, a Milano, sede della banda Koch.
L'accusa si dimostrò infondata al vaglio di prove e testimonianze; lo stesso Vero Marozin, capo della Brigata partigiana che eseguì la loro condanna a morte, dichiarò, nel corso del procedimento penale a suo carico: «La Ferida non aveva fatto niente, veramente niente». I due attori, infatti, pagarono la loro vita tra lussi e cocaina ma non avevano responsabilità penali o politiche tali da giustificarne la fucilazione per collaborazionismo.
Nelle dichiarazioni rese da Marozin in sede processuale Pertini fu indicato come colui che aveva dato l'ordine di ucciderli: «Quel giorno – 30 aprile 1945 – Pertini mi telefonò tre volte dicendomi: "Fucilali, e non perdere tempo!"». Si veda al proposito «Odissea Partigiana» di Vero Marozin (1966), «Luisa Ferida, Osvaldo Valenti, Ascesa e caduta di due stelle del cinema» di Odoardo Reggiani (Spirali 2001). «Pertini si era rifiutato di leggere il memoriale difensivo che Valenti aveva elaborato durante i giorni di prigionia, nel quale erano contenuti i nomi dei testimoni che avrebbero potuto scagionare i due attori da ogni accusa. La casa milanese di Valenti e della Ferida venne svaligiata pochi giorni dopo la loro uccisione. Fu rubato un autentico tesoro (cani di razza inclusi) di cui si perse ogni traccia».

AL DI LÀ DELL'IMMAGINE BONARIA
È famoso l'episodio accaduto all'arcivescovado di Milano nel '45, quando Pertini incrociò sulle scale Mussolini, reduce da un colloquio col cardinale Schuster. Pertini disse poi di non averlo riconosciuto, «altrimenti lo avrei abbattuto lì, a colpi di rivoltella». Poi aggiunse: «come un cane tignoso». Pertini sosteneva la necessità di uccidere Mussolini, non arrestarlo: se si fosse salvato, disse, magari sarebbe stato eletto pure in Parlamento. Delle responsabilità di Pertini nella strage di via Rasella a Roma, ne scrisse William Maglietto in «Pertini sì, Pertini no» (Settimo Sigillo, 1990).
Al Quirinale, al di là dell'immagine bonaria del presidente che tifa Nazionale, gioca a carte, va a Vermicino per Alfredino, il bambino caduto nel pozzo, si ricorda il suo carattere permaloso. Ad esempio quando cacciò il suo capo ufficio stampa, Antonio Ghirelli, valoroso giornalista e galantuomo socialista. O quando chiese di cacciare Massimo Fini dalla Rizzoli in seguito a un articolo su di lui che non gli era piaciuto.
Così ne parlò lo stesso Fini: «Immediata rabbiosa telefonata al direttore della Domenica del Corriere Pierluigi Magnaschi, un gentleman dell'informazione, il quale ricoperto da una valanga di insulti cerca di barcamenarsi alludendo all'autonomia delle rubriche dei giornalisti, allo spirito un po' da bastian contrario di Massimo Fini. Il "nostro" San Pertini gli latra minacciosamente: "Non credere di fare il furbo con me, imbecille! Chiamo il tuo padrone Agnelli e vediamo qui chi comanda!". E infatti il giorno dopo mi si presenta il responsabile editoriale della casa editrice Lamberto Sechi...». Lo stesso Pertini disse a Livio Zanetti in un libro-intervista: «Cercai inutilmente di far licenziare uno strano giornalista italoamericano». Nenni nei suoi diari considerava Pertini un violento iracondo.
Quando l'Msi celebrò il suo congresso a Genova nel 1960, fu proprio Pertini ad accendere il fuoco della rivolta sanguinosa dei portuali della Cgil col discorso del «brichettu» (il cerino). E vennero i famigerati «ganci di Genova», coi quali un governo democratico di centro-destra, a guida Tambroni, con l'appoggio esterno del Msi, fu abbattuto da un'insurrezione violenta nel nome dell'antifascismo.

PROVERBIALE ERA LA POI SUA VANITÀ
Ghirelli riferì uno sferzante giudizio di Saragat: «Sandro è un eroe, soprattutto se c'è la televisione». E i suoi abiti firmati, le sue scarpe Gucci mentre predicava il socialismo e il pauperismo... Fiorirono poi tante maldicenze su di lui, capo partigiano e poi leader socialista che vi risparmio, circolavano giudizi dell'Anpi, di Marco Ramperti... Francesco Damato ricordò: «Nel 1973 Pertini mi comunicò di avere appena cacciato dal proprio ufficio di presidente della Camera il segretario del suo partito, Francesco De Martino. Che gli era andato a proporre di dimettersi per far posto a Moro, in cambio del laticlavio alla morte del primo senatore a vita».
Poi fu proprio l'onda emotiva dell'assassinio Moro e l'asse Dc-Pci sulla non-trattativa che portò a eleggerlo due mesi dopo al Quirinale.
Infine va ricordato il Pertini che agli operai di Marghera, nel pieno infuriare del terrorismo rosso con larghe scie di sangue, disse: «Sono stato un brigatista rosso anch'io» per poi negare che le Br fossero rosse, giudicandoli solo «briganti», così da recidere il filo rosso tra Br e partigiani. Il Presidente di una Repubblica flagellata in quegli anni dal terrorismo rosso, si definiva orgoglioso «un brigatista rosso».

Marcello Veneziani

 
Titolo originale: Vanitoso, iracondo e fan di Stalin: controritratto del mito Pertini
Fonte: Il Tempo, 14/03/2018
 
FONTE: http://www.arcsanmichele.com/index.php/storia/54-storia-ditalia/10562-sandro-pertini-il-presidente-vanitoso-collerico-e-fan-di-stalin