Nelle parole di un amico il ricordo, scritto anni fa, di Alessandro Alibrandi di cui oggi ricorre il giorno della sua dipartita.
Leggetele vi faranno bene.
E se vi fa piacere fate il copia e incolla.
"Alcuni non lo sanno, o forse hanno fatto di tutto per dimenticarlo, ma oltre ai “cuori neri” di telesiana memoria, ci sono anche tanti “cuori neri dimenticati”. Dimenticati perché scomodi. Uno di questi è Alessandro Alibrandi, del quale lunedì 5 ricorrono i trent’anni dalla morte. Era una domenica del dicembre 1974 allorquando l’appena quattordicenne Alessandro, figlio del magistrato Antonio Alibrandi, riceveva il “battesimo del fuoco” sul campo. La cosa ebbe luogo nella memorabile battaglia di P. San Giovanni di Dio, nel quartiere romano di Monteverde. Nella grande piazza, da sempre dominio incontrastato dei rossi, doveva tenersi il comizio di Pino Rauti e la sinistra capitolina si era mobilitata per impedire all’esponente missino di profferir parola. Proprio per consentire il libero svolgimento dell’evento, invece, erano confluiti a San Giovanni di Dio attivisti del Msi provenienti da tutta Roma, e Alessandro, seppure giovanissimo, era tra questi. Elemento tra i più coraggiosi della destra extraparlamentare romana, egli militò prima nel Fronte della Gioventù, poi nel Fuan, per finire con l’aderire allo spontaneismo armato. Così lo ricorda Francesco Bianco: <Ho conosciuto Alessandro nel lontano ‘76 a Roma, nella sezione del Msi di Monteverde. Sono stati anni veramente a tutto tondo, dove se non eri più che sicuro di chi ti stava accanto rischiavi molto. Alessandro era uno di quelli che con la sola presenza ti dava sicurezza. Un leader, nonostante la giovanissima età. Persona simpatica, solare, coraggiosa, e anche molto intelligente. Di lui ricordo molte cose. Le uscite per il quartiere (il più bel modo di fare politica in quel periodo), la goliardia, il cameratismo>. Erano gli anni di piombo, quelli in cui in Italia gli scontri tra schieramenti politici contrapposti erano all’ordine del giorno. Per tali motivi anche Alessandro, un fegataccio che quando il gioco si faceva duro non si tirava mai indietro, finì spesso per subire le “attenzioni” dell’ordine costituito, sempre ligio ai diktat provenienti dall’alto. Ordini che, un po’ come avviene ancora oggi, prescrivevano tolleranza e comprensione nei confronti dei “poveri” compagni e assoluta intransigenza per i proscritti della “parte sbagliata” della barricata. Naturalmente il magistrato Antonio, che negli anni Settanta fu Giudice Istruttore presso il Tribunale di Roma, venne più volte accusato - ingiustamente - d’ingerenza nei processi a carico del figlio. Finché giunse il tempo in cui non ci si limitò più alle sassaiole e nelle strade dell’Urbe cominciarono a “cantare” le P38. La prima azione armata che vide il giovane Alibrandi schierato in prima linea fu uno scontro a fuoco con la polizia a Borgo Pio nel marzo del 1977. Nulla di particolarmente grave, però. Nell’autunno dello stesso anno invece “Alì Babà” venne accusato di aver partecipato all’uccisione del militante di Lotta Continua Walter Rossi. Per questo motivo il figlio del giudice venne subito fermato insieme ad altri militanti del Movimento Sociale Italiano della sezione Balduina. Ricorda Andrea Insabato: <Conoscevo Alessandro per fama. Sapevo del suo coraggio. Un vero mito per i camerati e i militanti del Msi di Roma Nord. Eravamo entrambi figli di magistrati e proprio per tale motivo la sua figura la sentivo ancora più vicina. A quei tempi noi militanti anticomunisti, seppur vittime dei poteri forti, dell’ostilità dei mass media e delle persecuzioni giudiziarie, fronteggiavamo validamente l’assalto dei servi del sistema. Quel 30 settembre del 1977 avevo ancora un occhio tumefatto: sette giorni prima proprio Walter Rossi, riconoscendomi all’uscita da un cinema, mi aveva sferrato un violento pugno a tradimento fracassando le mie lenti di miope. In seguito a quell’aggressione, che stava per costarmi un occhio, finii dritto a Casal del Marmo. Ma quel ragazzo aveva il furore addosso. Non soddisfatto del danno arrecatomi, pochi giorni dopo, coi suoi compagni tornò all’assalto: stavolta erano proprio decisi a chiudere la nostra sede col fuoco. Procedevano minacciosi marciando per la salita di viale delle Medaglie D’Oro. Noi eravamo trecento metri più su, forse in cinquanta, loro dieci volte tanto. Le nostre staffette ci avvisarono che il gruppo si avvicinava urlando, bastoni nelle mani e i volti stravolti dall’odio. Malgrado la tensione del momento, ricordo il radioso sorriso di Alessandro: pur in un frangente così delicato e preparandosi al peggio, lui mi salutò con calore come se nulla fosse. Pochi secondi dopo fu chiamata l’adunata e nella zuffa ci perdemmo di vista. L’avrei incontrato solo quattro anni dopo. L’automobile sulla quale viaggiavo si era fermata davanti a un’edicola in località Labaro e non mi ricordo se per prendere il giornale fosse sceso mio fratello. Dal finestrino riconobbi Alessandro. Stavo per aprire lo sportello per salutarlo quando la macchina riprese a muoversi. Lo rivedrò ancora, pensai. Invece, arrivato a casa, accesi la tv e seppi del conflitto a fuoco durante il quale il mio amico rimase ucciso>. Nel febbraio 1980, in base ad alcune testimonianze, Alessandro venne di nuovo arrestato. Stavolta l’accusa era quella di avere steso l’agente di polizia Maurizio Arnesano e il sistema si preparava a rendergli la pariglia. Ancora prima degli accertamenti del caso, infatti, il “sospettato” venne picchiato in modo pesante dai colleghi del poliziotto, furenti e fermamente decisi a fargliela pagare. Alibrandi, in seguito al duro trattamento subìto, vomitò e orinò sangue per diversi giorni. Insomma, malgrado le gratuite insinuazioni, con lui gli “amici” del padre non ci andarono certo con i guanti di velluto. Per colmo della beffa, quando il prigioniero venne trascinato così malridotto davanti al magistrato per essere interrogato, nel vederlo tutto pesto e pieno di lividi l’uomo di legge fece pure lo spiritoso: <Alibrandi, che le è successo, è forse caduto dalle scale?>. Al che lui, per non dargli soddisfazione, senza scomporsi più di tanto fece finta di niente: <Sì, sono caduto dalle scale…>. Il fatto che fosse figlio di un ermellino, quindi, non lo aiutò affatto. Anzi. Egli in seguito riuscì a dimostrare di essere del tutto estraneo a quell’omicidio. Ma per l’ingiusto pestaggio subìto nessuno pagò. Anni dopo, il ragazzo fu accusato da alcuni pentiti di aver partecipato a diversi omicidi. E fu così che, per evitare l’arresto, il giovane militante decise d’intraprendere la via dell’esilio. Nel luglio del 1981pertanto ritroviamo Alì Babà in Libano, arruolatosi nella Falange Maronita per combattere contro i miliziani musulmani. Intanto, in Italia, prima Valerio e poi Cristiano Fioravanti, capi indiscussi dei Nar, venivano catturati dalle forze dell’ordine. Alessandro decise quindi di rientrare in Patria per prendere in mano le redini di quel che restava dei Nar, i cui vertici erano stati falcidiati. Ma l’esperienza dei Nuclei Armati Rivoluzionari era ormai giunta al capolinea e nel giro di qualche mese fu scritta la parola fine all’intera vicenda. Alessandro Alibrandi, il 5 dicembre del 1981, appena ventunenne, rimaneva ucciso nel corso di un furioso conflitto a fuoco con una pattuglia della Polizia Stradale della stazione di Labaro, a pochi chilometri da Roma. E’ ancora Francesco Bianco che rammenta quel drammatico momento: <La notizia della morte di Alessandro l’ho vissuta con un profondo senso di frustrazione. L’ho appresa dalla tv mentre ero detenuto a Rebibbia già da diversi mesi. E l’essere rinchiuso non ha fatto che aumentare la mia rabbia>. Si concludeva così, nel fiore della giovinezza, l’avventura terrena di un ragazzo generoso che piuttosto che arrendersi e uniformarsi al pensiero unico preferì lottare - e morire - armi in pugno sull’asfalto di un’anonima strada romana. La sua scelta l’ha pagata con la vita. Onore a lui.
Angelo Spaziano per
Rinascita .
Edizione di martedi 6 Dicembre 2011