Omaggio ad una patriota
Maria Pasquinelli
Il 10 febbraio è stato scelto quale “Giorno del Ricordo” dell’Esodo giuliano, istriano e dalmata, e della tragedia delle Foibe, con la legge 30 marzo 2004 n. 92, approvata dal Parlamento italiano con voto quasi unanime. Si tratta di una data non casuale, perché il 10 febbraio 1947 venne firmato il “diktat” imposto all’Italia dai 21 Stati vincitori del secondo conflitto mondiale: come è stato detto da Benedetto Croce e da Vittorio Emanuele Orlando, si sarebbe potuto evitare la firma, al pari della ratifica sopravvenuta nel breve termine, ma gli effetti non sarebbero stati diversi, in specie per il sacrificio di Istria, Fiume e Zara, col rischio di aggiungervi quello di Trieste.
Molti non ricordano o non vogliono ricordare che in quello stesso giorno il plumbeo mattino di Pola, su cui gravava una pioggia gelida come le partenze del “Toscana” con i suoi dolenti carichi di profughi avviati verso l’esilio, fu sconvolto da tre colpi di rivoltella: quelli con cui Maria Pasquinelli mise a segno l’estrema protesta della sua gente, indirizzandola nei confronti del Gen. Robert De Winton, comandante inglese della piazzaforte locale e simbolo sia pure incolpevole della miope insipienza etica e politica con cui i Quattro Grandi ed i loro alleati avevano cancellato le residue speranze italiane.
Quel giorno, sembra che Indro Montanelli si trovasse a Pola come inviato speciale del “Corriere della Sera” sulle cui colonne sarebbero usciti diversi servizi, puntuali ed obiettivi, circa la tragedia dell’Esodo. Il noto giornalista ebbe la ventura di essere tra i primi a comunicare la notizia del gesto compiuto da Maria, documentandone le reali motivazioni suffragate dalla dichiarazione olografa che le fu trovata addosso: anzi, toccò proprio a Montanelli confutare talune interpretazioni di fantasia tanto affrettate quanto infondate, a cominciare da quelle secondo cui avere colpito De Winton sarebbe stato il frutto di non meglio specificate provocazioni, se non addirittura un “delitto passionale”.
All’epoca, Maria aveva 34 anni, essendo nata a Firenze il 16 marzo 1913 da padre jesino e madre bergamasca, e dopo aver conseguito la laurea in Pedagogia all’Università di Urbino si era già distinta per azioni di alto patriottismo volontario, compiute in Africa accanto ai soldati nella sua qualità di crocerossina; e poi in Dalmazia, dove aveva chiesto di essere destinata a svolgere la consueta attività di insegnante che vi avrebbe intrapreso nel 1942, e dove si era fatta premura di collaborare ad opere meritorie come l’esumazione di oltre cento Vittime italiane dei tragici fatti occorsi dopo l’armistizio del 1943, in modo da sottrarle all’estremo oltraggio delle fosse comuni ed avviarle all’onorata sepoltura. In questo, era figlia d’arte, perché da ragazza aveva collaborato con il padre nella lunga e pietosa sistemazione del Sacrario di Redipuglia, compiuta nello scorcio finale degli anni trenta: un’esperienza che l’avrebbe segnata per la vita.
Bruno Coceani, che conobbe personalmente Maria ed ebbe modo di apprezzarne le doti, scrisse che la sua opera nella martoriata terra di Dalmazia era stata motivata dal desiderio di portare ai congiunti dei Caduti “almeno la prova della loro morte”, con un chiaro esempio di “pietas” cristiana; ed aggiunse che, se non altro per tale sua esperienza benemerita, gli Esuli spalatini ne avrebbero sempre parlato “con riverente ammirazione”.
In Dalmazia conobbe, anche a livello personale, gli orrori ed i rischi della guerra: venne arrestata, ed il 13 settembre fu oggetto del tentativo di stupro da parte di un partigiano cui ebbe modo di sottrarsi per la grande forza reattiva che fu capace di esprimere. Durante il periodo della detenzione, trovò aiuto in alcune donne croate che erano “ammirate della sua bontà” e le permisero di sopravvivere alla fame ed alle angherie del carcere. Liberata a seguito del momentaneo ritorno dell’Asse, il 27 ottobre decise di imbarcarsi alla volta di Trieste con la “Goffredo Mameli” e riuscì a salvarsi dalle bombe alleate che vennero sganciate sulla nave dove fecero parecchie Vittime, tra cui un apprezzato collega della Pasquinelli, il prof. Camillo Cristofolini.
Durante gli ultimi mesi del conflitto, ben comprendendo il tragico destino che incombeva su Venezia Giulia e Dalmazia, si era impegnata nell’impossibile tentativo di costituire un fronte comune anti-slavo composto da Regno del Sud, Repubblica Sociale e CLN, destinato ad abortire in partenza perché gli Alleati, assieme al Governo Badoglio ed alle forze partigiane, avevano già preso accordi irreversibili con Tito. Nell’immediato dopoguerra fu ugualmente attivissima, prima a Trieste e poi a Pola come assistente degli Esuli, sia in ordine alle faticose incombenze burocratiche, sia nella prioritaria ottica psicologica: le numerose testimonianze sono state sempre concordi nel riconoscerne l’altruismo e la sensibilità. Furono questi stati d’animo, fatti di forti emozioni e di commossa, toccante partecipazione al dramma di un intero popolo, a suscitare nel cuore di Maria l’idea di esprimere la protesta di tutti con un gesto capace di coniugare il nobile sentire ed il forte agire.
Maria Pasquinelli, levando alto e chiaro il suo grido di dolore, sembra aver preso ad esempio la “maschia Giaele” di manzoniana memoria, l’urlo di Antigone contro l’ingiustizia istituzionalizzata di Creonte, il coraggio giovanile di Carlotta Corday nello “spegnere” un tiranno sanguinario e crudele che aveva trovato di che vivere nel nuovo mestiere di rivoluzionario; così facendo, si ergeva ad interpretazione terribilmente solitaria e drammaticamente contemporanea dell’antitesi fra un potere cieco, quasi sempre auto-referenziale, e le “alte non scritte ed inconcusse leggi” di Sofocle, in ricorrente contrasto col diritto positivo.
Come avrebbe detto Giovanni Botero, quello di Maria è certamente un “eccesso dal giure comune” ma non per vile appiattimento sulle esigenze della ragione di Stato: al contrario, per un “ethos” talmente superiore da rendere compatibile il delitto con la fede in quel medesimo Dio che tanto tempo prima aveva “guidato il colpo” di Giaele. Del resto, la Pasquinelli era immediatamente rientrata nell’alveo della legge “ordinaria” riconoscendo la propria responsabilità, affrontando con fermezza il giudizio della Corte alleata e rinunciando, sempre secondo la testimonianza del Prefetto Coceani, all’ipotesi di salvarsi tramite un’evasione bene organizzata. Anzi, dopo avere ascoltato la lettura della sentenza capitale da parte del Presidente Chapman, Maria giunse al punto di esprimere ai suoi giudici la gratitudine per le “cortesie” che le erano state usate anche attraverso il suggerimento di firmare la domanda di grazia, assolutamente inutile perché lei non avrebbe potuto accettarlo.
Del resto, la giovane patriota fiorentina aveva già messo in conto la possibilità di essere uccisa sul luogo dell’attentato, dove “attese sgomenta” le conseguenze immediate del suo gesto, maturato nel clima di angoscia indotto dalla decisione di trasferire alla Jugoslavia tutta l’Istria ed il suo capoluogo, e talmente straziante da far “esplodere” - è sempre Coceani che parla - tutta la sua ribellione.
Maria non odiava gli Alleati, e tanto meno Robert De Winton: anzi, durante il processo disse di riconoscere la sacralità di tutte le patrie, compresa quella inglese sotto la cui bandiera militava il Generale comandante della base polese, e volle precisare, alla stregua di quanto evidenziato nel testamento spirituale, che la sua decisione era stata motivata soltanto dalla protesta nei confronti dei Quattro Grandi e della loro incapacità di comprendere il buon diritto italiano.
La commutazione della pena in quella dell’ergastolo non era scontata ma altamente probabile perché gli Alleati sapevano bene di non avere bisogno di una nuova Martire, che la fantasia popolare aveva immediatamente equiparato a Guglielmo Oberdan, la cui forca era stata eretta, oltre 60 anni prima, a pochi metri di distanza dalla sede della Corte inglese chiamata a giudicare la Pasquinelli.
Maria venne poi affidata alla giustizia italiana che si sarebbe dovuta fare carico degli adempimenti carcerari e che la trattenne fino al 1964, quando, col beneplacito degli Alleati, decise di metterla in libertà, con provvedimento a firma del Presidente Merzagora.
A quel punto, la Pasquinelli si trovò sola con la propria coscienza e con un senso di viva religiosità già sviluppato nella prigione fiorentina di Santa Verdiana grazie ai colloqui con Don Giulio Facibeni, Cappellano della prima Guerra mondiale e fondatore dell’Opera Madonnina del Grappa, sin da allora in odore di santità. Don Giulio, come Maria volle raccontare in un’intervista concessa nel 1997, l’aveva battezzata nella chiesa di Santo Stefano in Pane, vicino alla casa natale di Via delle Panche, ed era molto amico del padre (1): anche per questo, i contatti con lui durante il periodo della carcerazione fiorentina furono frequenti, ma senza parlare del delitto, perché il problema “era già stato risolto”. In effetti, nella stessa intervista, Maria aggiunge di aver fatto celebrare una Santa Messa ogni 10 del mese, in suffragio della Vittima; senza dire che più tardi avrebbe collocato una piccola croce sotto il monumento funebre del Gen. De Winton nel Cimitero militare di Adegliacco, presso Udine.
Vale la pena di sottolineare che nei lunghi anni della detenzione Maria fu un vero e proprio modello, sia per il comportamento irreprensibile sia per il conforto, come sempre spontaneo e disinteressato, offerto ad altre condannate, tra cui Caterina Fort, la “belva di Via San Gregorio” protagonista di un fosco dramma della gelosia che aveva sconvolto, sempre nel 1947, l’Italia del dopoguerra.
Maria è stata quasi dimenticata, come lei stessa aveva desiderato, anche se ultimamente, a distanza di oltre 60 anni da un primo opuscolo (2) uscito dopo il processo sull’onda dell’emozione, si è avuto un imprevedibile ritorno di ricerche sulla sua vicenda: dapprima, con il lucido saggio di Stefano Zecchi (3), che alla stregua di un’alta esperienza cattedratica di filosofia ha percorso “ex-novo” la storia di Maria fino a sottolineare come la progressiva “escalation” di esperienze tanto drammatiche abbia dato luogo ad un atto che si potrebbe definire “necessitato”; poi con il contributo di Rosanna Turcinovich Giuricin (4), che muove da una breve e quasi surreale intervista a Maria per approdare ad un’apparente comprensione formale suffragata dal fatto che la Pasquinelli avrebbe ripudiato le antiche fedi di “mistica fascista” coltivate alla scuola “eroica” di Nicolò Giani, da cui erano usciti, fra gli altri, Uomini come Guido Pallotta e Berto Ricci.
Discutere oggi sulle scelte politiche di Maria appare piuttosto intempestivo se non anche impertinente. Negli anni trenta, quando pervenne alla laurea, le opzioni di chi aveva senso dello Stato ed elevata sensibilità patriottica come un’ampia maggioranza del popolo italiano, erano scontate, mentre dopo l’otto settembre finirono per essere condizionate dalle situazioni contingenti: a questo proposito diventa strumentale oltre che poco significativo accertare se Maria avesse aderito alla Repubblica Sociale o se avesse voluto o dovuto decidere altrimenti. Ciò che conta sono i suoi comportamenti che la indussero ad agire nel campo dell’onore, come dimostra la sofferta esperienza di Spalato; ed a battersi, sia pure vanamente, per sollecitare Alleati, badogliani e fascisti a promuovere un’intesa per la salvezza della Venezia Giulia e dell’Istria e prima ancora per quella dei loro infelici abitanti, tanto da essere arrestata dai tedeschi che non potevano condividere la sua attività a tutto campo e la rilasciarono solo per l’intervento personale di Junio Valerio Borghese.
In questo senso, Maria Pasquinelli è stata un esempio emblematico perché ha dimostrato di avere compreso fino in fondo quanto fosse essenziale, nei tempi duri dell’emergenza, anteporre l’interesse della Patria a quello delle fazioni ed a più forte ragione, a quelli delle persone: in concreto, il principio fondamentale dello Stato etico.
Il suo comportamento fu immune da atteggiamenti “fanatici” e non serve che qualcuno abbia formulato giudizi di segno contrario, quanto meno affrettati. Sempre disponibile, sorridente, idealista fin quasi all’utopia, sarebbe stata un’ottima insegnante ed una cittadina esemplare se non fosse diventata una Vittima della guerra al pari di Robert De Winton, la cui consorte, del resto, lo avrebbe ammesso qualche anno dopo come un segno del destino e senza resipiscenze vendicative.
Maria fu tragicamente lucida pur avendo vissuto esperienze allucinanti come nella primavera del 1945 quando fu presente a Milano, in modo del tutto casuale, ai preparativi di fucilazione, ad opera dei partigiani, di Walter Jonna, un ufficiale reduce da terribili esperienze in Russia, suo vecchio compagno di fede e di preparazione politica: egli riuscì a salvarsi in modo rocambolesco, e nella sua testimonianza non ha mancato di fare riferimento all’episodio ed all’impressione indelebile che ebbe anche su Maria.
Nel 1956 un fatto parzialmente analogo alla vicenda Pasquinelli-De Winton venne discusso in un altro celebre procedimento giudiziario a carico di Alfa Giubelli. Questa giovane signora, all’epoca ventunenne, aveva ucciso, verosimilmente dopo lunga premeditazione, un partigiano comunista che nel frattempo aveva fatto carriera fino a diventare sindaco di Crevacuore, un Comune del Cusio-Ossola: undici anni prima, costui aveva “liquidato” la mamma di Alfa (accusata di essere una “spia” al servizio dei fascisti) davanti agli occhi sbarrati della bambina, traumatizzata per tutta la vita da un’esperienza così terribile. Il processo, che fece grande rumore, si concluse con una condanna relativamente mite (cinque anni di reclusione): i tempi non erano molto cambiati sul piano politico, ma Alfa ebbe il vantaggio, se così può dirsi, di essere giudicata da una Corte italiana, diversamente dalla Pasquinelli, nel cui caso si sarebbe potuto discutere sulla legittimità di quella alleata se l’Italia dell’epoca non fosse stata uno Stato a sovranità limitata.
Nel febbraio 1947 Pola era tuttora soggetta alla sovranità italiana (il trasferimento ufficiale alla Jugoslavia sarebbe avvenuto il 15 settembre) ed il fatto che la Vittima appartenesse alle forze armate di occupazione non elide il quesito in materia di competenza.
Sorsero dubbi sul possesso dell’arma, che Maria asserì di avere acquisito casualmente nelle concitate vicissitudini degli ultimi giorni di guerra, e si parlò di possibili complici. Tra l’altro, ebbe momenti di notorietà la supposizione secondo cui la Pasquinelli avrebbe agito al posto di un concittadino la cui mano sarebbe stata bloccata dalla paura, ma si tratta di ipotesi non confermate in istruttoria né tanto meno durante il dibattito. In concreto, Maria agì da sola ed il suo gesto fu l’unico ad avere trasferito la protesta istriana, giuliana e dalmata, a guerra finita, in una vera e propria “scelta armata”: cosa che conferma la tesi di un Esodo tanto più amaro e doloroso, perché compiuto all’insegna di una tristissima e quasi fatale rassegnazione, peraltro comprensibile in un popolo dalle salde tradizioni cristiane che era stato offeso, tradito, umiliato.
Chiaramente, la storia deve ripudiare le congiunzioni avversative e dubitative. Tuttavia, non è infondato chiedersi cosa avrebbe potuto accadere se Maria, invece di essere disperatamente unica, fosse stata imitata da cento, mille, diecimila patrioti.
A proposito dell’arma con cui il Gen. De Winton venne ucciso, in una testimonianza di Umberto Usmiani raccolta da Pietro Spirito si adombra l’ipotesi che fosse in possesso della Pasquinelli da parecchio tempo, e che Maria si allenasse al tiro nell’interno di un cortile. Ciò parrebbe suffragare la tesi della premeditazione, anche se l’aggravante non ebbe alcun ruolo influente, né tanto meno determinante, nella decisione di comminare alla Pasquinelli il massimo della pena.
Maria aveva fatto parte della “struttura segreta della Decima” e la Polizia alleata di Pola aveva ricevuto la direttiva di non arrestarla “per alcun motivo” (5). Pertanto, sono degne di fede le testimonianze circa la tesi espressa da James Angleton, dell’unità “Z” dei Servizi segreti statunitensi, quando sostenne che il gesto di Maria, le cui intenzioni erano state intuite dall’Intelligence, avrebbe dovuto concretizzare la speranza di una “rivolta contro la Jugoslavia”.
A questo proposito, va detto che, a fronte della domanda sulle ragioni per cui “gli istriani non si difesero con le armi”, un esegeta acuto quale Pietro Spirito ha rilevato come i motivi essenziali vadano ricercati nella paura, nelle indecisioni, nel rifiuto del plebiscito, nel disimpegno degli Alleati e prima ancora, in quello del Governo italiano (6).
Al di là del tardivo “scoop” che qualcuno possa avere perseguito in una vicenda apparentemente sepolta ma non dimenticata, oggi vale la pena di chiederci cosa rimanga di quel gesto e quale messaggio possa esserne tratto ad uso degli immemori e degli ignari, se non altro attraverso il documento che Maria portava con sé e che è stato riproposto alla meditazione comune alla stregua di un grido di dolore sempre credibile e pertinente, in una prospettiva storica a cui lo scorrere del tempo conferisce motivi di obiettività e di apprezzamento etico non meno che politico.
La Pasquinelli, nei rarissimi contatti informali con l’esterno intercorsi dalla sua liberazione in poi non ha mai voluto indulgere ad espressioni di pentimento spettacolare, pur essendosi fatta premura di pregare per la sua Vittima ed avendo ricevuto in carcere, oltre a quelle già citate di Don Facibeni, anche la visita di un fratello del Gen. De Winton (7), i cui contenuti rimasero riservati. Il dovuto rispetto nei confronti della “fede ai trionfi avvezza” esime da ogni tentativo di andare più a fondo che equivarrebbe a voler indagare i segreti più intimi della personalità; nondimeno, si può affermare senza tema di smentite che Maria Pasquinelli ha pagato duramente e lungamente per il suo gesto, e in definitiva, per un amore di Patria che si pone oltre i limiti estremi del disinteresse, della gratuità, dell’onestà, dell’altruismo.
Quella di Maria è stata l’azione di “un combattente politico pur consapevole della sua inutilità” ma non per questo priva della fede in alti ideali; ed un atto che, paradossalmente, ha assicurato al Gen. De Winton (il cui sepolcro, assieme a quelli di altri 400 Caduti alleati, è affidato alla “pietas” del Friuli nel già citato Cimitero di Adegliacco) una fama che ne trascende ruolo e funzioni (8).
Un politologo di chiara fama come Giovanni Sartori, commentando la gloriosa Rivoluzione ungherese del 1956, ne diede una definizione emblematica: sublime follia. Si potrebbe dire lo stesso per Maria Pasquinelli, ma in entrambi i casi il giudizio è da condividere soltanto nell’ottica riduttiva di valutazione delle conseguenze personali, da una parte a carico dei patrioti che si immolarono nell’impari lotta contro i carri armati sovietici, e dall’altra a danno della giovane maestra fiorentina. In realtà, il testamento spirituale che l’accompagnava nel tragico mattino di quel 10 febbraio 1947 è ben lungi dalla follia, ma lucidamente consapevole nella ferma ribellione a chi aveva fatto strame dei “sensi di giustizia, di umanità e di saggezza politica” consegnando alla Jugoslavia “le terre più sacre d’Italia” e condannando le genti istriane, fiumane e dalmate “indomabilmente” italiane alle foibe, alla deportazione, o nella migliore delle ipotesi, all’esilio.
Il difensore d’ufficio, Avv. Luigi Giannini, un decorato di Medaglia d’Argento al Valor Militare, aveva chiesto il minimo della pena senza farsi soverchie illusioni, ma oggi la rilettura della sua appassionata arringa, come quella dell’interrogatorio di Maria, suscita moti di sincera commozione. Nell’Italia consumista e materialista dove si uccide impunemente per i motivi più futili, quello del 10 febbraio è un “delitto” non certo comparabile con le gesta di assassini triviali che ignorano il valore unico della vita umana ma neppure con l’indifferenza di chi aveva ceduto alla protervia dell’infoibatore senza la copertura di un apprezzabile “fumus boni juris”.
Nella lettera che Nicolò Machiavelli scrisse nel 1527 all’amico e confidente Francesco Vettori, il Segretario fiorentino afferma di avere amato la patria “più dell’anima”. Ebbene, vale la pena di porre in evidenza come una dichiarazione praticamente uguale sia reperibile in una dichiarazione resa da Maria Pasquinelli al Presidente della Corte durante il processo di Trieste. Non è motivo di sorpresa: Maria conosceva il pensiero di Machiavelli, con cui aveva avuto sicura familiarità durante gli studi, e ne trasse la convinzione che “non poteva esservi salvezza per un’Italia comunque divisa” (9).
Non è senza significato che nel nuovo millennio la vicenda umana, patriottica e giudiziaria di Maria sia stata oggetto di significative riscoperte, sia nell’ambito storiografico, sia a livello giornalistico. Ciò significa che il suo dramma è sempre attuale e che lo sforzo di comprenderne le motivazioni è diventato apprezzabile anche alla luce della legge istitutiva del “Ricordo”.
Maria può restare ugualmente impopolare perché “scomoda”, ma pur avendo appena tagliato un prestigioso traguardo come quello del centesimo genetliaco, diventa a più forte ragione viva, attuale e “contemporanea”, secondo l’assunto di Croce, in quanto paladina di una Giustizia che trascende quella umana; e soprattutto di valori perenni destinati a vivere nei cuori e nelle menti degli Uomini di buona volontà.
Annotazioni
(1) - Giovanni Morandi, Intervista a Maria Pasquinelli, in “La Nazione”, Firenze, 5 febbraio 1997. Don Giulio Facibeni rimase in contatto con Maria fino alla morte: l’ultima visita alla detenuta di Santa Verdiana ebbe luogo il 25 aprile 1958, due mesi prima della scomparsa. Solo il giorno prima, ricorda Maria, aveva compiuto un pellegrinaggio sul Grappa, dove a suo tempo era stato decorato con Medaglia d’Argento al Valore.
(2) - Processo di Maria Pasquinelli: il dramma della Venezia Giulia, Del Bianco Editore, Udine 1947. L’introvabile opuscolo, che si deve all’iniziativa di un “gruppo di donne istriane” firmatarie della premessa, contiene gli Atti dell’interrogatorio di Maria durante il processo, l’arringa del difensore Avv. Giannini e la copia olografa del biglietto che la Pasquinelli aveva scritto per motivare le ragioni del suo gesto.
(3) - Stefano Zecchi, Maria: una storia d’altri tempi, Edizioni Corriere della Sera (Collana Corti di carta), Milano 2008. Il saggio è stato oggetto di una seconda edizione (Vertigo, Roma 2011). A Maria Pasquinelli, il prof. Zecchi si è liberamente ispirato anche nel suo best-seller “Quando ci batteva forte il cuore”.
(4) - Rosanna Turcinovich Giuricin, La giustizia secondo Maria: la donna che sparò al generale brigadiere Robert W. De Winton (Collana Civiltà del Risorgimento), Del Bianco Editore, Udine 2009. Il volume contiene la ristampa integrale dell’opuscolo già edito a Trieste nel 1947, senza gli Atti dell’istruttoria precedente il processo, rimasti sotto vincolo. In un’ottica analoga, ma con maggiori approfondimenti motivazionali, soprattutto di libera interpretazione psicologica, cfr. Carla Carloni Mocavero, La donna che uccise il generale, Edizioni Ibiskos, Empoli 2012.
(5) - Achille Scalabrin, La Pasionaria dell’Istria: Maria Pasquinelli maestra omicida per amore di Patria, in “Quotidiano Nazionale - Il Giorno - Il Resto del Carlino - La Nazione”, Milano/Bologna/Firenze, 24 marzo 2012, pagg. 38-39.
(6) - Pietro Spirito, Il ritorno di Maria Pasquinelli, in “Il Piccolo”, Trieste 14 settembre 2008. Nell’articolo si afferma, tra l’altro, che la Curia triestina aveva riconosciuto in Maria Pasquinelli una persona “di alta spiritualità”, anticipando un’ulteriore testimonianza dello stesso Spirito in data 13 novembre 2012, dove si rammenta che l’archivio della Pasquinelli è stato affidato alla custodia del Vescovo Emerito, Monsignor Eugenio Ravignani.
(7) - Il fratello del Gen. De Winton era un sacerdote che, secondo la testimonianza di Don Dina, parroco di Castelfiorentino già segretario del Vescovo di Pola Monsignor Giovanni Radossi (riportata nell’intervista di Morandi alla Pasquinelli), confermò che alla vedova del Generale, sua cognata, “rincresceva che Maria stesse in carcere”.
(8) - Donne in Grigioverde in Istria e Dalmazia: Maria Pasquinelli, in AA.VV., “Foibe: la storia in cammino verso la verità”, ISSES, Napoli 2001, pagg. 105-111. Tra le altre fonti integrative ma comunque di buon interesse specifico, cfr. Giovanni Miccolis, 1943: Orrori in Jugoslavia, Città Nostra, Mola di Bari 2011, pagg. 37 e seguenti.
(9) - Plinio Carlo ed Augusto Sainati, Storia della letteratura italiana, Editore Le Monnier, Firenze 1953, pag. 267.
Mulierem ornat silentium.
Maria Pasquinelli è tornata alla Casa del Padre il 3 luglio: aveva celebrato i cento anni di vita nello scorso marzo, ed aveva abbracciato il silenzio da quel lontano 1947, quando era assurta a simbolo imperituro della protesta del popolo istriano, fiumano e dalmata, e di tutti i veri italiani, contro la vergognosa iniquità del “diktat”.
Fu un silenzio pervicace e coerente, improntato alla fedeltà che il suo indomito spirito patriottico aveva sempre manifestato nei confronti dei valori non negoziabili: il primo fra tutti, un amore per la Patria addirittura superiore, come ebbe ad affermare la stessa Maria, a quello per l’anima.
Donna d’azione, ma nello stesso tempo di pensiero, aveva dato molteplici dimostrazioni della sua tempra d’acciaio e di una spiccata idoneità a coniugare il nobile sentire con il forte agire: nell’ insegnamento, nella collaborazione col padre per sistemare i Sacrari del 1915-18, nell’opera di Crocerossina durante la seconda guerra mondiale, nell’impegno per un’ardua salvezza di Venezia Giulia e Dalmazia, nell’assistenza agli Esuli di Pola, la cui tragedia, lei fiorentina, aveva fatta propria fino a meditare l’estremo sacrificio.
Quando decise di “spegnere” il Comandante De Winton, secondo una tipica espressione di Machiavelli, era convinta di avere firmato la propria condanna a morte. Invece, ebbe la croce di una lunga vita di silenzio, di meditazione e di profondo rammarico per le incomprensioni politiche e storiografiche che l’avrebbero accompagnata fino al nuovo millennio, con la sola lucida eccezione di Stefano Zecchi.
Maria non è passata invano: la sua dignità e riservatezza, il suo senso di responsabilità, le sue sofferenze nel segno degli ideali perenni di Stato e di Nazione, costituiscono un esempio da meditare e da trasmettere ai posteri, onde il buon seme possa dare frutti rigogliosi. Fu disperatamente sola come accade spesso agli Spiriti eletti, ma questo è motivo di grandezza; non meno dell’aver fatto conoscere al mondo, già da quegli anni plumbei, il genocidio dell’Esodo e delle Foibe, ed il sacrificio di tanti Martiri incolpevoli, a cominciare da quello emblematico della Medaglia d’Oro Norma Cossetto; la sorella di Norma, Licia Cossetto, è stata l’ultima fedele amica di Maria che ha trascorso con Lei il giorno del Suo compleanno, lo scorso marzo, per il Suo centenario, inviandoLe a nome di tutti gli Esuli Amici, un sincero omaggio floreale Tricolore, che Maria ha accolto con un riservato sorriso di felicità, come si vede dalla foto.
E’ stata paragonata, non senza fondamento, a diverse Eroine della storia antica e moderna; nondimeno, Maria si distingue da loro per un impegno di lungo periodo ed a tutto campo, che richiedeva doti straordinarie di coraggio e di costanza, e prima ancora, di coerenza coi principi che aveva mutuato dalla famiglia, dalla scuola e dalla vita. Una donna vera, drammaticamente consapevole di un’ora tragica come poche; eppure, per dirla con Dante, simile a “torre ferma che non crolla giammai pel soffiar de’ venti”.
Maria Pasquinelli: presente !
Carlo Montani
QUOTIDIANO "LA STAMPA" DEL 3 APRILE 1947
CIMITERO DI BERGAMO
IL LUOGO DELLA SEPOLTURA