Tutte le Mamme raccomandano ai figli di far la cose di giorno…
perché si è più freschi ... e anche perché -come si usa dir da noi- "di notte vanno in giro solo i balordi, le puttane e gli ubriachi" .
Ma Luca quel giorno non ci voleva sentire.
Lo aspettava Riccione, il sole, il mare e le ragazze.
Io l'avrei raggiunto la settimana dopo.
Quando hai 18 anni anche mezza giornata in più di ferie è "sacra"
E poi partire di notte, per la prima volta, da solo, col treno è qualcosa che affascina la mente
Per la prima volta i titolari dell' Hotel dove sei sempre andato con la famiglia,
ti vedranno arrivare da solo.
Questi i pensieri di Luca a mezzogiono dell' 1 agosto 1980 mentre pranzava con la famiglia.
La zia tentò di per l'ultima volta di convincerlo a partire la mattina dopo ...
"cosa ti cambia, riposi e poi parti fresco domattina"
"Tutto"- rispose Luca - "...e a voi cosa cambia? "
Memore dell' ottimo profitto al liceo e del bravo ragazzo che era, la zia sorrise rassegnata ...
"e vabeneee, parti stanotte, ma appena arrivi telefona"
Luca era in spiaggia quando successe quel disastro Io ero a casa
E quella mattina un Amico di dieci anni piu' vecchio mi disse col suo tono cinico- beffardo "che culo tuo cugino, l'ha scampata bella ! ...A parte gli scherzi, ricordiamoci tutti dove eravamo stamattina"
Lo guardai come un diciottenne guarda un "vecchio " di ventotto.
"A l è matt (è matto )" pensai
Ma aveva ragione
La Mamma (zia) stavolta non aveva avuto ragione.
Ma il "vecchio"Camerata ventottenne si.
Il giorno dopo il Sistema aveva già fabbricato il colpevole "fascista" della strage.
Perché il Sistema non potrà mai processare se stesso.
E da 40 anni , (o meglio da 75) , campa sulla menzogna e sul sangue . Anche di quelle 85 ( o 86 ?)
povere vittime molto meno fortunate di mio cugino.
Primo giorno d'estate: gli ultimi pagani festeggiano nudi
Solstizio d'estate: ancora oggi un'antica religione dell'età del bronzo sopravvive in Lettonia. Siamo andati sul posto per vedere i loro riti in occasione della festa dell'estate. Riti fatti di fuochi, offerte di cibo e doni e bagni sacri nei laghi, con gli ultimi pagani coperti soltanto di ghirlande di fiori.
Alba del 21 giugno, solstizio d’estate: il giorno dell’anno in cui la luce solare dura di più e vince sulla notte. Uomini con corone di foglie di quercia e donne con ghirlande di fiori campestri invocano nei loro canti il dio Dievs, le dee Laima e Mara, e varie divinità che soprintendono ai tanti aspetti della natura. Si accendono fuochi sacri e si fanno offerte di cibo a querce, laghi e sorgenti. E si fanno bagni rituali nudi, in un lago.
Tutto questo accade anora oggi fra gli ultimi pagani d’Europa, in Letgallia, regione agricola della Lettonia, piccola repubblica ex sovietica che si affaccia sul mar Baltico.
Nel frattempo lui, il Sole tanto invocato, si fa appena vedere: le troppe nubi di una settimana di pioggia lo nascondono. Ma questa rimane la sua festa, la festa della luce: dopo un inverno rigido e con troppe ore al buio, il Sole sorge alle 4 del mattino e irradia da dietro le nuvole la sua luce, pallida, ma preziosa.
È tempo di risveglio della natura e cresce la voglia di uscire, di stare insieme. «Si festeggia all’antica, come migliaia di anni fa» osserva l’antropologo Cesare Poppi, che con noi ha osservato e valutato questi riti. La festa continua il 23 giugno, giorno di san Giovanni, qui chiamato Janis, festa nazionale della Lettonia.
Compromesso.Ma è la festa di san Giovanni più pagana del mondo. Qui il santo imposto dalla Chiesa fu adattato alla tradizione locale: la festa della luce, al solstizio d’estate, c’era da molto prima che si parlasse di cristianesimo. In alcuni villaggi si fa ancora il 21 giugno, ma in genere la celebrazione è spostata al 23, festa nazionale di san Giovanni-Janis, senza che questa perda la sua origine pagana: tutti sanno che con il santo si festeggia in realtà il Sole. «La Lettonia, anticamente Latvia» spiega Poppi «fu l’ultima roccaforte pagana a essere cristianizzata in Europa. Lo fu solo parzialmente nel XIII secolo, quando arrivarono i cavalieri teutonici cacciati dalla Terra Santa, dopo la sconfitta crociata. Ma fino al XVIII-XIX secolo, la grande maggioranza degli abitanti della Latvia non accettò la religione cristiana, o comunque continuò a praticare anche il culto pagano». Legati all’antica tradizione, i contadini non volevano essere come i loro padroni germanici, che con i sudditi non si comportavano affatto “cristianamente”.
Era una resistenza di sfruttati, che si cementò condividendo canti popolari, i dainas, in cui erano mantenuti vivi la devozione per i propri dèi e i valori di solidarietà della comunità contadina, l’idea che l’uomo non fosse il padrone, ma solo uno degli elementi della natura, nel rispetto dei suoi ritmi.
La festa pagana del solstizio (9:37)
Essere, non avere.«La lingua lettone è considerata una delle più antiche della famiglia indoeuropea, da cui vengono quelle moderne come il portoghese, l’italiano, il francese, il tedesco e l’inglese» spiega l’antropologo. «Per esempio diev (in latino deus, diva) corrisponde al sanscrito diev, che significa splendore, luce, e quindi Sole». Da diev viene infatti la divinità locale Dievs. In lettone, non esiste il verbo “avere”. I lettoni dicono “essere a me”. Ciò deriva dall’idea originale che l’uomo riceve i beni della natura, non li possiede.
Sulla base di una prima trascrizione di migliaia di dainas presenti nel folclore locale, lo storico lettone Ernests Brastinu e un gruppo di intellettuali locali ricostruirono, all’inizio del Novecento, le coordinate della religione pagana tradizionale: i nomi e il ruolo delle divinità, l’etica e la visione del mondo. Chiamarono questa religione Dievturiba, da dievturis, coloro che ricevono Dievs.
Repressione.Questa religione divenne fondamento del nazionalismo lettone. Stalin fece di tutto per perseguitare e deportare i dievturis, ma il corpus dei dainas e la ritualità radicata nel folclore sono rimasti intatti. La religione è poi diventata legale con l’indipendenza dall’ex Unione Sovietica. La cittadina di Malpis offre un esempio di come si sono conservati i riti arcaici. Qui vi è anche una scuola per la diffusione della cultura popolare e l’antica religione lettone, diretta da Andris Kapustz e dalla moglie Aida Rancane, entrambi studiosi di folklore e musicisti. E nella festa di questa cittadina si nota la continuità fra la cultura popolare contemporanea lettone e quella dell’età del Bronzo. Forse del Neolitico. «Sono elementi di una cultura europea già a quel tempo globalizzata» spiega Poppi. «La parte centrale del rito è la costruzione, in legno, della “porta di san Giovanni”, orientata in modo da inquadrare perfettamente il Sole all’alba del solstizio. È la stessa pratica astronomica-rituale che fu consacrata in grande a Stonehenge, l’equivalente della basilica di san Pietro in una diffusa religione europea dell’età del Bronzo».
La cuspide della porta forma una specie di X: «è il simbolo dello iumis, la coppia di gemelli che portano fertilità, continuità e armonia, ancora presente nelle case rurali dei lettoni».
La cena della vigilia: un ricco pasto nella notte che precede il solstizio d’estate.
In corteo. A Malpis, il 21 giugno come a san Giovanni, si muove un corteo che diffonde inni sacri. Con tappe davanti alle case per scambiare offerte (formaggio, pane, birra, orzo non fermentato e fiori) e auguri di salute e fecondità, per la famiglia come per il bestiame e i raccolti. Tutti sono invitati a unirsi al corteo. Ci si ferma sotto una grande quercia, manifestazione di un dio maschile, per lasciare offerte all’albero e intonare preghiere. Giunti poi su una collina, viene accesa una pira sacra che durerà tutta la notte. I fedeli bruciano le corone del solstizio dell’anno prima e fanno offerte al fuoco. Altre offerte sono poste su una piccola zattera e inviate attraverso la corrente di un fiume a Upes mate, una delle madri delle acque.
«Si celebra in questo modo il matrimonio tra fuoco e acqua, fra maschile e femminile» spiega Poppi. Viene quindi incendiata una ruota che rappresenta il Sole ed è poi fatta rotolare in pendenza. Più lontano andrà, maggiore sarà il successo dei prossimi raccolti.
Le donne non sposate eseguono un altro rito: ognuna lancia una corona di fiori su una quercia, elemento maschile, sperando che rimanga appesa a un ramo. Per ogni tentativo fallito è previsto un altro anno di nubilato. «Siamo di fronte al modello ancora vivente dei riti agrari che si praticavano già migliaia di anni fa» osserva ancora l’antropologo.
Quando mi sposerò? Il lancio rituale della ghirlanda
sulla quercia predice l’anno delle nozze.
Nella notte di san Giovanni-Sole i giovani vengono invitati a cercare il fiore della felce. Che però non esiste. In realtà è una metafora con cui gli adulti consentono ai ragazzi di appartarsi, per fare l’amore. Non si contano in questa notte le tende (rigorosamente per 2), sparse nei campi e fra le betulle.
Pantheon baltico. Al centro di queste feste ci sono i dainas, brevi racconti e detti cantati che insegnano comportamenti virtuosi e parlano di dèi. Nel corpus di 500 mila dainas raccolti dagli studiosi, 4 mila si riferiscono a Dievs, il dio supremo. Seguendo la loro variazione si può pensare che il dio fosse all’inizio impersonale, una forza che pervade tutte le cose e sia poi diventato dio del cielo e della luce.
«Laima, la dea del fato» spiega Valdis Celms , membro autorevole della religione dievturiba «fa da mediatrice, in una trinità, fra Dievs e Mara. Quest’ultima è responsabile della costruzione e dell’equilibrio del mondo materiale. Si manifesta nelle cose, negli eventi naturali e negli esseri viventi». Mara presiede alla nascita, al corso della vita e alla morte. Insomma, una Grande madre di probabile provenienza neolitica. Ha decine di aiutanti, o meglio figure specializzate in cui si trasforma: Madre dei fiumi (Upes mate), del vento e degli uccelli (Veja mate), Madre della pioggia (Lietus mate).
Persino le foglie, i fiori e i funghi hanno una specifica madre: in ordine, Lapu mate, Ziedu mate e Senu mate. Poi, madre delle strade e protettrice dei viandanti (Cela mate), della fertilità (Zemes mate), dei campi (Lauku mate), del lino (Linu mate), del bestiame (Lopu mate), del mare (Juras mate), dei morti (Velu mate o Kapu mate)... e così via, fino a 60 madri.
Nel calendario lettone sono 8 le feste pagane, 2 per stagione. Solstizi ed equinozi i principali appuntamenti. Nel giorno più lungo, 21-23 giugno, la festa della luce (Janis); per il più corto, 21 dicembre, il Ziemassvetki. Per gli equinozi, Liela (21 marzo) e Mikeli (21 settembre). I riti di passaggio dievturiba, oltre al matrimonio e al funerale, sono il fidanzamento e il ricevimento del nome che sostituisce il battesimo.
Spirito e anima. Secondo i dievturi una persona è fatta di tre parti: augums (corpo), dvesele (anima) e velis (spirito). Ne decidono il destino, prima della nascita, Laima e le sorelle Karta e Dekla (come le tre Moire greche o le Norme nordiche). Con la morte, le tre parti si separano: il corpo torna alla terra e l’anima a Dievs. Lo spirito è una sorta di ombra (alla greca) che ha memoria del pensiero del defunto. Per un periodo resta vicino ai vivi. Nel Veli, festa dei morti, gli spiriti sono invitati a entrare nelle case. Più tempo passa, più il ricordo si attenua nelle nuove generazioni e lo spirito di un defunto sale a quote superiori fino a raggiungere l’altro mondo (Vinsaule), situato dietro il Sole, dove continuerà a esistere.
«Alcuni credono nella reincarnazione, ma la nostra antica religione non ne parla», puntualizza Olgert Auns, il dievturo più anziano. «La nostra fede è un sistema di vita. Anche se il destino di una persona è dato dall’inizio, nel quadro tracciato da Laima sono ampi i margini di manovra per rendere la vita felice e virtuosa, vivendo bene con gli altri, in equilibrio con la natura». «E proprio a questo servono i riti agrari» conclude Poppi. «Se lo storico Fernand Braudel diceva che i fenomeni storici vanno giudicati sulla lunga durata, allora possiamo dire che in Lettonia abbiamo assistito a pratiche di un’Europa globalizzata con una comune cultura, almeno 3 mila anni prima della nascita dell’Unione europea».
Alcuni partecipanti alla cerimonia del solstizio d’estate immersi, con le sole ghirlande di fiori rituali, in un lago della regione della Letgallia, fra le più tradizionaliste della Lettonia, dopo avere offerto doni alla dea madre delle acque.
Graziano Giralucci nato A Villanova di Camposampiero (PD), il 7 dicembre 1944, agente di commercio.
Giuseppe Mazzola nato A Telgate (BG), 21 aprile 1914, ex carabiniere in pensione,
militanti del Movimento Sociale Italiano, furono le prime vittime delle Brigate Rosse.
L'assalto alla sede del MSI:
intorno alle 10 del mattino del 17 giugno 1974, un commando di esponenti delle Brigate Rosse penetrò con la forza nella sede dell'MSI di Padova, sita in via Zabarella, allo scopo di prelevare alcuni documenti.
- Martino Serafini, con funzioni di sentinella per un eventuale arrivo delle forze dell'ordine.
Penetrati all'interno del locali, i due terroristi vi trovarono Graziano Giralucci, militante dell'MSI quasi trentenne, e Giuseppe Mazzola, un ex carabiniere in pensione che teneva la contabilità, entrambi casualmente presenti quella mattina nella sede del partito.
I due terroristi estrassero due pistole, una P38 e una 7,65 con silenziatore, e tentarono di immobilizzare i due missini: Mazzola, non intimorito, afferrò la pistola di uno dei due terroristi e Giralucci cercò di immobilizzarlo abbrancandolo per il collo.
L'altro terrorista intervenne sparando un colpo che raggiunse alla spalla Giralucci ed un secondo che colpì Mazzola trapassandogli la gamba destra e l'addome: Mazzola e Giralucci, ormai inermi, furono freddamente uccisi ognuno con un colpo alla testa.
La rivendicazione e la "Pista Nera":
il giorno successivo le Brigate Rosse rivendicarono la paternità dell’assassinio tramite due volantini fatti ritrovare in una cabina telefonica a Padova e Milano, e in seguito con una telefonata alla redazione padovana de “Il Gazzettino”; in tali rivendicazioni viene annunciato che le le due vittime erano state giustiziate dopo essere stati ridotti all'impotenza.
Le Brigate Rosse avevano in precedenza commesso altre azioni violente armate, tra cui il rapimento del procuratore Mario Sossi, a Genova, il 18 aprile 1974, ma questo fu il primo omicidio effettuato e rivendicato a nome delle Brigate Rosse, e venne messa in discussione l'esistenza di tale organizzazione terroristica sia dai giornali che dalla magistratura: per 6 anni infatti, dietro la spinta di giornali di sinistra quali ad esempio il Manifesto, l'Avanti e L'Unità, le forze dell'ordine indirizzarono le indagini su una fantomatica "pista nera", che interpretava l'omicidio di Giralucci e Mazzola come un regolamento di conti interno al partito del MSI.
Tale azione di depistaggio ebbe momentaneamente successo.
Il processo:
Negli anni ottanta, in seguito alle confessioni di vari terroristi pentiti ed ad una più vasta indagine sulle Brigate Rosse, viene aperto il processo per l'assassinio di Giralucci e Mazzola.
In tale procedimento non fu coinvolto Pelli, morto in carcere di leucemia nel 1979.
L'11 maggio 1990 la Corte d’Assise di Padova dichiarano gli imputati tutti colpevoli, con le seguenti condanne:
- Roberto Ognibene, diciotto anni per omicidio volontario.
- Susanna Ronconi, nove anni e sei mesi per concorso anomalo in duplice omicidio.
- Giorgio Semeria, nove anni e sei mesi per concorso anomalo in duplice omicidio.
- Martino Serafini, sei anni, un mese e dieci giorni per concorso anomalo in duplice omicidio.
Oltre ai membri del commando, furono condannati anche i vertici delle BR, considerati mandanti dell'omicidio:
- Renato Curcio, dodici anni e otto mesi per concorso morale in duplice omicidio.
- Mario Moretti, dodici anni e otto mesi per concorso morale in duplice omicidio.
- Alberto Franceschini, dodici anni e otto mesi per concorso morale in duplice omicidio.
Nell'agosto 1991, Francesco Cossiga, Presidente della Repubblica in carica, propose di concedere la grazia a Renato Curcio; a tale provvedimento si opposero le famiglie Giralucci e Mazzola che, per protesta, chiesero la loro sospensione dallo status di cittadinanza italiana.
Sempre a tal riguardo, Silvia Giralucci, figlia di una delle due vittime e ventenne al momento della lettera, scrisse a Cossiga:
« La grazia è un'ingiustizia che ci offende, sia come familiari delle vittime del terrorismo, che come privati cittadini. Mia madre ed io avevamo già espresso parere negativo alla grazia... La nostra vita è stata profondamente segnata da quell'episodio, è una vita non completa, non normale. Perché dobbiamo concedere una vita normale a chi non ha permesso che la nostra fosse tale? Hanno stroncato e segnato irreversibilmente troppe vite per avere il diritto di godersi la loro. Constatatone il fallimento, vorrebbero, e lei con loro, considerare la loro esperienza storicamente sorpassata, ma il dolore mio e della mia famiglia non è ancora storia, è vita". »
(Silvia Giralucci, in risposta alla proposta di grazia a Renato Curcio da parte del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga)
la Corte d’Assise di Venezia aprì il processo di appello e il 9 dicembre emise una sentenza che inasprì le pene rispetto al primo grado:
- Roberto Ognibene, diciotto anni per omicidio volontario.
- Susanna Ronconi, dodici anni e sei mesi per concorso pieno in duplice omicidio.
- Giorgio Semeria, dodici anni e sei mesi per concorso pieno in duplice omicidio.
- Martino Serafini, sette anni e sei mesi per concorso pieno in duplice omicidio.
- Renato Curcio, sedici anni e due mesi per concorso morale in duplice omicidio.
- Mario Moretti, sedici anni e due mesi per concorso morale in duplice omicidio.
- Alberto Franceschini, sedici anni e due mesi per concorso morale in duplice omicidio.
Nel luglio 1992 Serafini chiese la grazia, mentre Ronconi e Semeria usufruirono della semilibertà e Ognibene, grazie ai benefici della legge sui dissociati, fu impiegato presso il comune di Bologna.
L' 1 agosto 1992 Serafini venne arrestato per scontare due anni e mezzo di pena residui.
Francesco Cecchin: caduto dal balcone con le chiavi strette in mano
Uno "strano modo di morire", a soli 17 anni
E' il 16 giugno del '79 quando il giovane militante del Fronte della Gioventù muore, dopo 19 giorni di agonia
Per questo omicidio non pagherà mai nessuno, anche grazie alla connivenza del Pci che ha sempre coperto l’unico imputato
“E Francesco che è volato sull’asfalto di un cortile, con le chiavi strette in mano, strano modo per morire…”
Queste le parole della canzone “Generazione ‘78” che Francesco Mancinelli dedica a tutti i caduti di quegli anni di piombo maledetti.
E anche a Francesco Cecchin. Parole che, ancora oggi, fanno venire la pelle d’oca. “Con le chiavi strette in mano..”. Eh si, proprio così perché quel ragazzo morì all’età di 17 anni, prima massacrato di botte da quattro “compagni” vigliacchi (di cui non si è mai saputo il nome) e poi gettato da un balconcino, sull’asfalto. Un volo di cinque metri. Che dopo 19 giorni di coma, lo ha ucciso. Nonostante le sue condizioni erano nettamente migliorate. “…Strano modo per morire”. Sembra di raccontare la storia di Sergio Ramelli, ancora una volta.
Siamo a Roma, quartiere africano. Il mese di maggio sta volgendo al termine. L’estate è alle porte. Le scuole stanno finendo, i ragazzi iniziano a pensare cosa fare in vacanza. Ma chi fa politica, in quegli anni, non va mai in vacanza. L’ideale prima di tutto. Si fa politica 365 giorni l’anno. Per gli ideali, però si muore anche, in quegli anni.
Si muore per il proprio credo politico. E, come è successo a Francesco, anche solo per aver attaccato un manifesto nel posto sbagliato. Il motto, tanto, è sempre lo stesso: “uccidere un fascista non è reato”.
È soprattutto nella capitale che la guerra tra i “rossi” e i “neri” diventa una questione di egemonia territoriale, di “conquista dei quartieri”.
Francesco Cecchin è davvero giovane. Non ha ancora diciott’anni. È alto, biondo e con gli occhi azzurri. Insomma, il classico bel tipo pieno di ragazze innamorate di lui. “Abbiamo scoperto che aveva due fidanzate, non una. Ed entrambe molto carine”, le parole della sorella Maria Carla.
Ma per lui la priorità è una sola: la politica. È un militante del Fronte della Gioventù; frequenta la sezione di via Migiurtina, la zona più rossa del cosiddetto “quartiere Africano”. L’unico avamposto di sinistra di tutto il circondario, che è invece notoriamente fascista.
Quella sezione del Msi appare come una provocazione in una porzione di territorio che i militanti del Pci considerano “cosa loro”. Diventa ben presto un bersaglio, fino ad essere costretta a chiudere.
Un quartiere, quello Trieste-Salario, che è uno dei campi di battaglia più caldi di Roma. Cecchin è un ribelle nato. Ha solo 17 anni ma coraggio da vendere. È già un leader, un rivoluzionario. Tanto che Terza Posizione lo vorrebbe con sé, anche se è così giovane.
A scuola non va benissimo. Ma più che per demeriti suoi, per colpa dei compagni che lo prendono di mira.
I primi due anni di liceo sono difficili. Due bocciature al tecnico “Mattei”. Di lui, non si può certo dire che sia un “secchione”, ma frequentare la scuola è davvero difficile per Cecchin. Sembra il ripetersi della storia di Sergio Ramelli. Viene isolato, è riconoscibile, un bersaglio facile. Va via da quell’istituto e si iscrive al liceo artistico di via Ripetta. Può così seguire la sua passione innata per il disegno. Il ragazzo passa intere nottate con i pennarelli in mano. Il suo capolavoro è un ritratto di Corneliu Zelea Codreanu, il fondatore delle “Croci frecciate rumene”. Se lo attacca in camera. “CAMMINA SOLTANTO SULLE STRADE DELL'ONORE. LOTTA E NON ESSERE MAI VILE. LASCIA AGLI ALTRI LE VIE DELL'INFAMIA”. Questa è la frase del rivoluzionario a cui più si ispira.
Ma anche all’artistico gli studenti di sinistra sono moltissimi. Ci fa a botte spesso, Cecchin, con i “compagni” che non lo lasciano in pace. La voce si sparge presto: “è un fascista, non deve passarla liscia”.
Non è un violento, ma neanche uno stinco di Santo. Sicuramente però è un ragazzo dall’animo buono.
La sua famiglia è di Nusco, in provincia di Avellino, il “feudo” di Ciriaco De Mita. Il papà, Antonio, è un funzionario del settore cinema al ministero dei Beni Culturali. È stato volontario in Somalia e imprigionato dagli inglesi prima di essere consegnato agli americani, venendo trasferito in cinque campi di prigionia diversi negli Usa. Uno tosto insomma. Il figlio ha preso da lui. La mamma fa la casalinga e la sorella, Maria Carla, studia al primo anno di giurisprudenza. Non navigano nell’oro i Cecchin, ma riescono a vivere in maniera comunque dignitosa. Sono molto uniti.
La sera del 28 maggio 1979 Francesco è in Piazza Vescovio. Nel suo quartiere. Sono le 20, minuto più minuto meno. È insieme con altri tre ragazzi del Fronte della Gioventù. Devono fare affissione. Barattolo di colla e scopa, come di consueto. Ma i giovani camerati vengono notati da un gruppo consistente di compagni, che gli si avvicinano e iniziano a coprire i manifesti. Sono molti di più, come sempre. Venti contro quattro. Vigliacchi. Poco distante da lì, c’è una macchina, una Fiat 850 bianca parcheggiata. Nessuno ci fa caso inizialmente. I compagni sono della sezione del Pci di via Monterotondo. Il loro capo è Sante Moretti, 46 anni ed un passato da pugile. “Vi abbiamo fatto chiudere via Migiurtinia, vi faremo chiudere anche viale Somalia” urla ai quattro missini. Poi si rivolge a Cecchin, e lo minaccia: “tu stai attento, che se mi incazzo ti potresti fare male”. Lui, Francesco, non fa una piega, non si fa intimidire. Un coraggio da leoni. Lo guarda con aria di sfida, si volta e se ne va. Quella frase, quella minaccia, è la dimostrazione che i gruppi di sinistra ortodossa ed extraparlamentare lo temono. Temono un ragazzino di 17 anni con un cuore immenso.
Quella notte Francesco non ha sonno. Ha voglia di uscire. Ma è minorenne e senza sua sorella Maria Carla, i suoi non gli danno il permesso. “Era già mezzanotte. (…)Ero più grande di due anni, sapeva bene che senza di me non era possibile. I nostri genitori non volevano. Si avvicinò e mi disse: ‘Marica Carla, eddai! Vieni con me. Andiamo a fare un giro’. Avrei dovuto pensare che fosse tardi, che era pericoloso, che non aveva senso. Ma non lo feci e risposi va bene”. (tratto da Cuori Neri di Luca Telese)
I due fratelli escono. È mezzanotte e un quarto. Il bar “Vescovio” è chiuso. L’edicola anche. È buio pesto e per strada non c’è nessuno. Francesco e Maria Carla camminano sul marciapiede di via Montebuono. Ad un tratto si avvicina una Fiat 850 bianca che procede lentamente e li segue. La stessa auto parcheggiata in piazza poche ore prima. Il finestrino si abbassa e qualcuno grida “è lui, è lui, prendetelo!”. Scendono due uomini, si mettono a correre per prendere Cecchin. Lui fa solo in tempo a dire alla sorella di scappare, di andarsene e di chiamare aiuto. Poi inizia a correre. E corre anche Maria Carla, ma non riesce a stargli dietro. Impaurita inizia a urlare più volte “Aiuto, aiuto, aiuto!”.
I tre scompaiono nel buio di Via Montebuono. Le grida della ragazza vengono udite da un giovane che, sceso in strada, nota un uomo darsi alla fuga verso via Monterotondo. Poi salire su quella maledetta Fiat 850 bianca e scappare. Il corpo di Francesco viene ritrovato poco dopo all’altezza del civico 5 (sempre di Via Montebuono). In un terrazzino situato sotto il livello del marciapiede di quasi cinque metri. E’ esanime, disteso sull’asfalto. È in posizione perpendicolare al muro, appoggiato di schiena, con la testa sopra un lucernario. E orientata verso la parete. Impossibile credere che si sia buttato da solo. Francesco è ancora vivo, però. È privo di conoscenza, ma vivo. Perde sangue dalla tempia e dal naso. E poi, nella mano destra ha ancora un pacchetto di sigarette, in quella sinistra stringe un mazzo di chiavi. Incredibile. Cecchin ha fratture più o meno in tutto il corpo, ma la gambe e le braccia sono intatte. Morirà in ospedale dopo 19 giorni di agonia. Il 16 giugno 1979. Soltanto un giorno prima, i medici avevano comunicato alla famiglia un netto miglioramento delle sue condizioni. Poi la morte improvvisa. Se si fosse ripreso avrebbe riconosciuto i suoi assassini e parlato. “Spesso, durante il periodo in cui Francesco è stato in ospedale, sono venute a trovarlo delle persone che io definirei sospette (…), secondo me erano tutti comunisti che volevano vedere le condizioni di mio figlio. Loro lo sapevano bene: se lui fosse rimasto in vita avrebbe denunciato i suoi aggressori. Li aveva riconosciuti e questo loro lo sapevano. E non c’era nemmeno alcun servizio di polizia in ospedale. Poteva entrare chiunque. Stava migliorando. Cosa è successo dopo? Io ancora non so come sia morto mio figlio” (tratto da Cuori Neri).
Ma cosa è accaduto realmente in quei minuti dove i due aguzzini e il giovane si sono dileguati nella notte di quel 28 maggio? Testimoni raccontano di aver sentito prima delle grida, e poi un tonfo. La dinamica non è poi cosa assurda da ricostruire. Almeno per chi voglia farlo in buona fede. Francesco Cecchin è stato inseguito dai suoi aggressori, ha scavalcato il cancelletto di via Montebuono 5 (dove abita un suo amico), ma è stato raggiunto e picchiato in maniera feroce. Ha provato a difendersi con un mazzo di chiavi, ma, dopo aver perso i sensi , è stato buttato giù dal muretto. È stato ucciso. Assassinato. Ma l’omicidio si vuole nascondere. Secondo i tre periti nominati dal Tribunale: Alvaro Marchiori, Gaetano Secca e Giancarlo Ronchi, non c’è nulla che possa dimostrare che Cecchin sia stato picchiato e poi gettato dal muretto. Ci risiamo. Ancora una volta si vuole far pensare che sia stato solo un brutto incidente. Qualcuno ha anche il coraggio di negare che ci sia stata una colluttazione tra il giovane e i suoi aggressori, come ha fatto il commissario, il Dott. Scali. Ma i camerati no. Loro vogliono andare a fondo ed iniziano a fare indagini parallele. Raccolgono il materiale necessario per far uscire la verità. Le indagini ufficiali, condotte male, portano in tutto e per tutto all’arresto di Stefano Marozza, indicato come l’autista della Fiat. Marozza, però, ha un alibi. Dice che quella sera è andato al cinema a vede “Il Vizzietto” al cinema Ariel. Peccato però che quel film, all’Ariel, non viene proiettato. Marozza entra in carcere a luglio. Viene rilasciato a gennaio grazie alla solerte opera di protezione messa in atto dal Pci che, nel frattempo, gli ha fabbricato un nuovo alibi. Ad hoc. La sentenza di assoluzione ha dell’incredibile. È una condanna senza colpevole: “veramente grave e singolare appare che i periti non abbiano approfondito l'indagine, non si siano recati sul terrazzo dell'abitazione degli Ottaviani(…) Altrettanto singolare che non abbiano tenuto in alcun conto i referti dell'ospedale San Giovanni. È convinzione della Corte che, nel caso di specie, non si sia trattato di omicidio preterintenzionale, ma di vero e proprio omicidio volontario”.
La morte di Francesco Cecchin, una faccia da angelo ed un cuore, nero, da rivoluzionario è rimasta senza colpevoli.
Quel ragazzo di diciassette anni, militante, ammazzato da un branco di vigliacchi, vive in tutti i suoi camerati.